Loe raamatut: «Vecchie storie d'amore»
Le passioni umane non mutano: mutano i costumi e le attitudini dello spirito nelle passioni e le sembianze dei fatti umani. A questo intesi. Per questo divagai con fantasia indulgente in quella che mi parve verità di costumi e della vita senza timore di riuscire un novellista immorale.
E mando il libro a chi, se n'udrà lode non di volgo, penserà sorridendo: io volli che fosse scritto.
A. A.
Mantova, 15 febbraio 1895.
I
«Con donne si dee contare di cose d'allegrezza e di cortesia e d'amore…»
IL VALLETTO OSTINATO
Il castellano di Ripalta s'era allevato con amore un valletto di nome Ugo e con desiderio, esercitandolo a cavalcare e ad armeggiare, attendeva il giorno che lo armerebbe cavaliere. Né di quel bene del sire pe 'l valletto ingelosiva madonna Ginevra, poiché la giovinezza di lei fioriva sterile ed il ragazzo, tenuto quasi in conto di figlio, le risparmiava i rimbrotti del marito.
Madonna viveva lieta; e l'amore del marito, le cacce e il conversare colle sue donne e cogli ospiti, le divagavano la vita uguale e solitaria del castello non meno che le faccende casalinghe cui essa accudiva umilmente, con fanciullesca mutabilità. Cosí, come rideva quando le galline, che al solo vederla chiocciando e sbattendo le ali le correvano dietro, si disputavano in frotta avida e litigiosa il becchime che gettava loro, rideva se a diporto il palafreno saltasse imbizzarrito o adombrato, o se nell'arazzo da rammendare le riuscisse peggio che lo strappo il rattoppo: mentre cuciva presso la finestra dalla quale scorgeva l'ampio paesaggio a basso e d'intorno, ella cantava e i villani, giú nella valle, udivano limpide e schiette le cadenze della sua bella voce.
Gioconda natura! Per essa madonna Ginevra era amata dai servi, quantunque fosse anche temuta perché gli occhi del sire vedevano tutto con gli occhi di lei e perché ogni capriccio di lei diventava la volontà del sire: solo Ugo il valletto la serviva baldanzoso e sicuro, e quando fallava sapeva vincerne lo sdegno fingendosi egli sdegnato e mesto; ond'ella finiva con immergergli le dita tra i capelli folti, per ridere. Ugo allora si divincolava e la guardava in un'occhiata.
Veramente molte cose erano permesse ad Ugo: poteva arrampicarsi su per gli alberi dell'orto a inzepparsi di frutta; poteva ordire le piú strane burle al vecchio maggiordomo o assestare un pugno allo scudiero che gli minacciava un pugno; poteva spiare, dietro una porta, l'ancella che si stava spogliando; ché, accusato alla padrona, la padrona rideva, e accusato al padrone, il padrone taceva.
Ma quand'ebbe compiuti i quindici anni il valletto parve mutare costume, e il signore notò lo studio di lui a imitarlo affinché nessuno, neppure madonna Ginevra, lo considerasse ancora un ragazzo. E Ugo sentiva egli stesso mutarsi; sentiva una smania di cose nuove, d'altri svaghi, d'altri luoghi, d'altri pensieri, mentre la vita e la natura che fervevano attorno a lui gli rivelavano cose sconosciute e gli suscitavano sensazioni nuove. E mentre la forza sensuale si sviluppava in lui e per l'istintiva penetrazione della pubescenza egli imparava da tutta la natura il segreto dell'amore umano, quel desiderio peranche indefinito gli avvolgeva il cuore di una insolita tristezza e tenerezza. Amava, già amava, e non sapeva chi amasse e non sapeva d'amare.
Ma risalendo un giorno dalla valle al castello (era di fitto meriggio e sotto la sferza del sole il mondo dormiva un sonno mortale) Ugo a un tratto udí cantare lontana e dall'alto, simile ad un'allodola, madonna Ginevra; e a un tratto l'imagine incerta del suo desiderio e de' suoi sogni acquistò ai suoi occhi sembianza e forma di persona viva: madonna Ginevra!
La sera nel porgere, avanti cena, l'acqua alle mani della padrona, al valletto tremavano le mani; ed egli se n'accorse, ma non chinò lo sguardo perché egli amava da uomo; senza paura, amava, e senza vergogna.
Quante consolazioni nell'avvenire la sua mente innamorata ebbe allora da fantasticare! E secondando i ricordi delle storie, che gli avevano raccontate a veglia, di cavalieri fatti eroi per gloria delle loro dame, e invidiando a sé stesso i pochi anni che gli mancavano alla piena giovinezza, s'imaginava vincitore di tornei in cui madonna l'assisteva sorridendo, o difensore e salvatore di madonna Ginevra in un notturno assalto di nemici.
Per altro, quell'ardore e il compiacimento di quell'ardore patirono presto il freddo dell'ignara incuranza di madonna, la quale aveva due grand'occhi solo per vedere, non per osservare; e poiché egli non fallava piú, tal cura e tal forza metteva nel servirla, essa non aveva neppur piú ragione d'immergergli le dita tra i capelli.
Sino a quando la dama avrebbe ignorate le sue pene?
Co 'l volgere dei mesi l'affetto di lui s'andò come condensando a modi piú virili, di guisa che la sua fantasia ubbidendo ai richiami e cedendo agli impeti dei sensi riscaldati dal primo e precoce calore della gioventú, l'abituava a desiderare nella bella donna le delizie corporali e le gioie della colpa: a poco a poco egli perdette la baldanza, il coraggio, la fede del suo amore; e il timore lo prese che il sire ne scoprisse il segreto e l'intenzione. – Passarono dei mesi; passò un anno. Ma quanto piú gli diminuiva la speranza, tanto piú cresceva in lui la bramosia di essere presto soddisfatto.
Madonna Ginevra era sempre bella e fresca: rosa fresca in tutta la sua bella fioritura. E come spesso, dopo la cena, Ugo sorprendeva afflitto certe occhiate desiose del marito a lei! Con che travaglio percepiva negli occhi e nel riso di madonna gli assensi e le promesse! – Il desiderio sensuale, non piú vago e dimesso ma deciso e tempestoso, affaticava l'animo del valletto non piú riposato nei primi propositi; e il pensiero di rimettersi al futuro gli diveniva un ritegno insufficiente e un'attesa intollerabile. Già si sentiva morire d'amore; avrebbe alla prima buona circostanza rivelata alla dama la sua passione pietosa e sconsolata.
Un mattino, montando il suo cavallo migliore e seguito da scudieri in nuove vesti, il sire di Ripalta partí per un torneo. Quantunque era quello il giorno aspettato dal valletto con penoso e lungo desiderio, tuttavia appena il sire fu scomparso al basso del colle tra le macchie, egli, nell'imminenza della sua felicità se l'assistesse la fortuna, o del suo ultimo malanno se madonna non volesse ascoltarlo o mancasse a lui il coraggio d'ottenere ascolto, provò un turbamento grande di paura. Pensava: «Prima di notte le dirò tutto. Le dirò il bene che le voglio. Ma come comincerò?»
E il sole cadeva ch'egli non aveva ancora trovato il modo acconcio per incominciare. Ma quando, a sera, s'accorse che la padrona era entrata nelle sue stanze, non piú dubitando salí, s'introdusse guardingo, spinse francamente quella porta.
Madonna Ginevra, già sciolti i capelli e un po' discinta, sedeva su la cassapanca: alzati, al rumore, gli occhi sonnacchiosi, riconobbe Ugo e componendosi la veste in fretta, tra sorpresa e sorridente disse: – Vieni, vieni. Che vuoi? Ad Ugo, rinfrancato, venne súbito in mente la dimanda che s'era proposto di far dopo e raccolto che ebbe il fiato bastevole a non restare a mezzo: – Madonna – chiese – , se chierico o cavaliere, borghese o valletto, non importa chi, amasse da gran tempo una bella donna, damigella o dama, contessa o regina, non importa chi, e non avesse cuore di dirglielo, sarebbe savio o stolto?
La dimanda piacque a madonna, lieta nonostante l'assenza del marito, e per burlarsi del ragazzo gli rispose: – Sarebbe stolto. Anche un valletto, purché fosse bello e valente come te, dovrebbe parlare. Chi ama non sia vile; e ogni donna, anche una regina, n'avrebbe almeno almeno compassione.
Ugo con tutta l'anima bevve le parole buone ed esclamò: – Madonna Ginevra, ecco colui! Colui sono io! Quanto ho patito per voi! Aiutatemi, madonna!
La dama non rise; non credé che il ragazzo volesse burlarsi egli di lei perché gli scorse la passione in faccia, e indispettita d'essersi lasciata cogliere e offesa dall'audacia del valletto, gli gridò: – Ah, ma tu sei matto! Che vai cicalando con le tue fole? Che so io de' tuoi amori? Che cosa mi hai chiesto? Che cosa t'ho risposto? Vattene, vattene! Oh come godrà il sire quando glielo dirò! Vattene!
Stordito, gli occhi spalancati e disperati, Ugo non si mosse; pure, nel tumulto della mente, ebbe forza di cercare in un'idea la suprema invocazione alla pietà della dama, l'affermazione estrema del suo amore e una minaccia quasi di vendetta all'acerbità di lei, e disse: – Voi mi sgridate cosí e la colpa è vostra, che m'avete ferito cosí. Perché non mi uccidete? In fe' di Dio, io non mangerò piú finché non mi avrete accontentato; – e con un'angoscia che pareva lo strozzasse uscí di là.
Madonna Ginevra rise forte e pensò: «Oh che cosa gli è venuto in mente a quel ragazzo?»; e, nello spogliarsi, guardandosi, rise e ripeté: «Che cosa gli è venuto in mente?»; poi si distese sotto le lenzuola e, come il marito era lontano, s'addormentò senz'altro pensiero, co 'l riso su le labbra.
Ugo invece, che se avesse pianto avrebbe sfogato tosto il suo rovello, per non piangere si dimenò a lungo per il letto e non riuscí a chiudere occhio prima d'essersi convinto che la prova la quale si era imposta era degna d'un cavaliere innamorato, se era prova che gli metteva in pericolo la vita. Ma al risvegliarsi, la mattina, ebbe fatica e quasi pena a riandare il fatto della sera innanzi; capí d'aver commessa un'imprudenza; credé fino d'aver commesso un grosso errore, fino un'azione puerile; e si provò a dimenticare. Non poteva: in che guisa comparire al cospetto di madonna? E l'amore gli dié ragione; gli rinfocolò la fantasia; gli fece parere eroica la deliberazione presa. Né si levò da letto; e quando furono a cercarlo disse: – Ho un gran peso qua – e segnava lo stomaco – ; non posso piú mangiare.
Il giorno dopo madonna chiese del valletto. – Non ingola nulla – risposero; né egli cedette ad alcuna preghiera o ammonizione. E il terzo dí una serva gli portò una tazza di latte appena munto, spumante, che faceva voglia, e un'altra un ovo ancora caldo, ma egli chiudeva gli occhi e rifiutava; e anche, tardi, il maggiordomo fu a trovarlo e gli porse, dondolandolo per il gambo, un grappolo d'uva primiticcia con acini neri e grossi, vellutati da una bianca nebbiolina, tra altri ancora rossi ed in agresto. Egli lo divorò un momento con gli occhi, resistette e lo respinse.
Allora il maggiordomo venne dove madonna Ginevra, che quel giorno non cantava, ricuciva un vecchio saio, e mentre egli ordinava alcune cose per la stanza, quasi fra sé, disse:
– Tornerà il sire; ma non staremo allegri.
– Perché? – chiese con simulata indifferenza la padrona.
Rispose l'altro: – Ugo morirà: non gli va giú un granello d'uva.
Madonna Ginevra arrossí; si levò, e si recò alla cameruccia del valletto.
Stava il valletto con le pálpebre abbassate perché nel languore dell'inedia tutto ondeggiava dinanzi al suo sguardo; e aveva il viso stanco e smorto smorto. Trasalí ai passi leggeri di madonna, riconoscendola.
– Valletto Ugo, dormi? – ella chiese dolcemente. Egli disse: – Per Dio, madonna, abbiate mercede di me!
A che essa inacerbita di nuovo da tanta ostinazione: – Da me non avrai mai grazia nella maniera che domandi. Questa è la tua ricompensa al bene che ti vuole il sire? È questo l'amore che gli porti? Tornerà…
– Oh se tornasse! – sospirò Ugo, insensato piú che ardito.
E la dama: – Tornerà e s'arrabbierà, e ti romperà le ossa!
– Ma non mangerò – conchiuse Ugo.
La dama uscí co 'l proposito di dire ogni cosa al marito a pena fosse giunto; se non che, mentre cuciva, cominciò a temere che egli la rimproverasse d'avere tentata per capriccio e accarezzata in qualche modo la folle passione del valletto: e a nascondergli la verità non la rimprovererebbe di non averlo sovvenuto con un medico e con medicine e con premure? Non iscorgeva mezzo per disimpacciarsi, quand'ecco s'udí il corno in lontananza e uno scudiero venne ad annunziare che il castellano arrivava in compagnia di piú ospiti.
«Chi sa – rifletté madonna Ginevra – che a vedere il padrone non lo domi la vergogna? Indurrò il sire a impaurirlo.» E quando nel tinello, dove su la tavola, imbandita co 'l piú ricco vasellame, fumavano le vivande, il sire chiamò Ugo, la moglie disse a lui: – È a letto da tre giorni, e non vuole piú toccar cibo. Provatevi voi a rimettergli il giudizio.
Il marito volle andare a vederlo, ed essa lo seguí.
– Che hai? – domandò il sire entrando.
Ugo rispose: – Un peso qua, alla bocca dello stomaco; e non mi va giú niente.
– Non è vero! – ribatté súbito la dama. – Non è vero! Per il male che ha potrebbe mangiare. – Poi rivolta ad Ugo disse: – Ora io dirò al sire perché digiuni da tre giorni. Mangerai?
– Voi potrete ben dire. Io non mangerò – rispose quegli che raccoglieva gli spiriti a vincere, morendo, la battaglia; e il signore, cui piacque quella risposta cosí franca e cui dava sospetto l'aria misteriosa della moglie, già incolpava la moglie d'alcun torto verso Ugo. Ma Ginevra aggiunse:
– Il giorno che partiste, a sera, osò entrare nella mia camera mentre mi spogliavo… – ; onde il sire capí come il torto era proprio del ragazzo e – Perché? – le domandò impaziente. E la dama in vece tornò a chiedere al valletto: – Mangerai?
Il valletto, che era risoluto di morire, negò co 'l capo, sospirando. – Io mi spogliavo – proseguí la dama – e lui venne da me, tutto strano, a domandarmi Imaginate!
– Insomma! – fece il sire.
– Mangerai? – ripeté la dama per l'ultima volta; e per l'ultima volta – No! – ripeté forte Ugo che teneva fissi gli occhi negli occhi di madonna. La quale allora per dir tutto, e tuttavia a stento, riprendeva: – Mi richiese…; – ma il marito senza piú badarle, come nella reticenza comprendesse quanto imaginava, con collera scosse il braccio del valletto e gli gridò bieco: – Che cosa le chiedesti?
Ugo tacque. Da' suoi occhi traspariva una volontà virile che l'amore rendeva ineluttabile: disperato amore, piú forte della morte; e madonna Ginevra ammirando tale fermezza minacciosa insieme e supplichevole e temendo a un punto stesso per sé e pe 'l valletto l'ira del marito che minacciava con quasi brutale veemenza, vinta dalla pietà, dall'ammirazione e forse dall'amore (quel ragazzo era un bel giovane) concepí un'idea provvida e sagace.
– Mi chiese – rispose ella – il vostro falcone pellegrino, che non dareste né a conte, né a principe, né ad amico; e, per averlo, s'è impuntato a digiunare.
Alle parole della donna il credulo marito contenne l'ira; anzi rise e disse: – Oh! se il tuo male è questo, non voglio che tu ne muoia. Mangia, mangia, valletto; e avrai il falcone. – Ed uscí.
Ma la donna prima d'andarsene si fece piú presso ad Ugo, che la speranza aveva ravvivato e colorito in faccia, e disse rapida, giuliva:
– Già che il sire ti vuol contento, anch'io ti vorrò contento. – E meglio che con le parole promise sorridendo con uno sguardo lungo e tenero come una carezza.
Ugo, dunque, mangiò. Ed ebbe il falcone.
IL LEARDO
I
Nella notte, tra 'l gracidare delle rane e lo stridere dei grilli, gli amanti, che la fossa divideva, mescevano brame molte e piú promesse in lieve suono di parole, come di sospiri.
Essa stava a una finestra del castello; egli di qua dalla fossa, al margine ultimo. Cosí ogni notte, perché ser Lapo, l'avaro signore del Farneto, non consentiva l'amore della figlia con quel povero cavaliere che era Raimondo di Santelmo; e all'albeggiare Raimondo inforcava il suo fido e bel leardo, e Giovanna lo accompagnava con gli occhi intenti finché egli spariva per il bosco.
La boscaglia in quell'ora si svegliava e l'indefinita letizia della vita universale al far del giorno invadeva l'animo del cavaliere co 'l canto degli uccelli, l'odore delle erbe e degli alberi, la frescura dell'aria: sussurravano le foglie, stormivano le rame, cinguettavano le passere, chioccolavano i merli, strillavano le gazze: murmuri, palpiti, fremiti; voci e canti ed inni: un inno concorde e solenne di gioia e di grazie della natura universa al sole ed all'amore.
Il cavaliere non affrettava il cavallo. E le sembianze dell'amata, mal certe al suo sguardo durante il colloquio, allora gli s'avvivavano nell'imaginativa sí che rivedeva piú bella la donna; le parole di lei risonavano al suo orecchio piú dolci e piú distinte e, come voleva la letizia dell'ora, egli, che di lei non aveva per anche tócca una mano, ne sognava l'intero possesso con ingannevole gaudio. – Oh le morbide guance di rosa e le carni gigliate e fresche!
Ma la notte, traversando la boscaglia alla volta di Farneto, un'ambascia grave gli pesava su l'animo, e quanto piú disperava di un lieto fine al suo amore tanto piú ardeva dal desiderio di rivedere almeno e di riudire Giovanna cosí, di furto, la notte. E mentre cercava tra le fronde spesse la vista delle stelle, scorgeva delle ombre nere che passavano tra i rami dei cerri e delle querce: delle streghe, che l'accompagnavano con mala intenzione, male augurando, sommessamente, al suo povero amore; sommessamente.
Egli rideva forte, e gli avessero pure additato, le streghe, la chiocciola d'oro dai pulcini tutti d'oro, la quale, al dire della gente, si trovava dentro il bosco, ch'egli avrebbe ben saputo rapirgliela, al demonio!
Poi con desiderio intenso e disperato di Giovanna affrettava il leardo per un sentiero che era segnato dalle sole orme del leardo e che lo guidava al suo amore piú presto e di nascosto.
II
Giovanna del Farneto tanto desiderava per marito Raimondo di Santelmo quanto questi desiderava lei per moglie; e se Raimondo si doleva della sua sorte e minacciava di penetrare nel castello, essa, per gran paura che le fosse ucciso (giorno e notte vigilavano le guardie a custodia del ponte: fonda e larga era la fossa, alta la cinta e ferrate le finestre) gli si prometteva ancora e gli si raccomandava di fidare in lei. Poi una notte lo consigliò cosí:
– Mio padre non vuol maritarmi a voi perché non siete ricco; vorrebbe se quel vostro zio di Monveglio vi donasse delle sue terre: andate dunque dallo zio a pregarlo che finga donarvi delle sue terre, e noi, sposati che saremo, gliele renderemo secondo patto giurato e stipulato. – Piacque il consiglio al cavaliere, il quale, il dí appresso, cavalcò alla volta di Monveglio.
Vi giunse che era tardi, e trovò lo zio molto lieto, come uno che ha cenato bene e cenando ha bevuto vino buono, di quello che rischiara la mente, ravviva lo spirito e intenerisce il core.
– Che volete, mio bel nipote? – domandò. E intesa la richiesta, rispose súbito: – Sí sí, faremo questo patto; e parlerò io a ser Lapo del Farneto, che m'è vecchio amico. – Poi strizzando gli occhi: – Ma di' – chiese – , è molto bella la figliola di ser Lapo?
Raimondo rispose: – Innamorai di lei per udita, e quando la vidi non me ne pentii. Voi la vedrete.
III
Mentre ser Lapo del Farneto numerava delle monete lucenti, che sembravano esser state battute allora allora, e accarezzandole cogli occhi le ammucchiava su la tavola, uno scudiero avvertí la scolta che il signore di Monveglio veniva a trovare il castellano. All'annuncio messer Lapo si alzò puntando le mani sui bracciali del seggiolone, e con quanta fretta gli era consentita dalle deboli forze e dai malanni che gli intorpidivano le membra ripose il tesoro nella cassapanca e diede l'ordine: – Ben venga il vecchio amico!
I due, in rivedersi dopo tanti anni, dissimularono entrambi la sorpresa di un sentimento maligno: d'invidia il signore di Farneto perché egli, scarno, smorto e male in gambe, scorse rubesto, rubizzo e grasso quello di Monveglio; di gioia questi per confronto del suo stato con quello dell'amico. Ma Lapo chiamò la figliola, bramoso che l'altro gli invidiasse almeno un bene ch'egli non aveva; e il signore di Monveglio, vedendo la bella giovane, con gli occhi gaudenti ne scoprí le carni gigliate e fresche; sentí di essa una súbita concupiscenza; dimenticò il nipote e quindi lo ricordò, ma per tradirlo.
– Voi avete una fortuna, che non ho io – disse a ser Lapo quando Giovanna fu uscita. – Che mi valgono i quattrini a me? – Indi chiese: – La maritate?
Arcigno in viso, con tonò aspro, ser Lapo rispose: – Essa è bella, savia e d'alto lignaggio: a chi volete che la dia? – E si dolse del tempo presente, quando non era piú cavaliere degno di sua figlia. – Ma io – aggiunse l'avaro – , non voglio dotarla prima di morire.
Allora parlò il signore di Monveglio, e parlò in guisa che l'altro lo comprese disposto a prendere una moglie senza dote. – Ma non sono piú giovane – lamentava il signore di Monveglio.
– Mia figlia è savia – ribatté ser Lapo. E fu conchiuso il parentado.
Durante la cena i vecchi amici discorsero della loro giovinezza, ilare e rubicondo l'uno, l'altro sempre scuro e sempre astioso. Neppure a ripensare la letizia della sua giovinezza ser Lapo poteva ridere, quasi una colpa o sciagura della virilità amareggiandogli la vecchiaia piena d'acciacchi lo rimordesse fino d'essere stato giovane. Pure dimandava anch'egli – Vi ricordate? – , e narrava bei fatti anch'egli: i due vecchi narravano fatti di liberalità e di cortesia e biasimavano il tempo presente. Ma di quei due uno era traditore e l'avaro, l'altro, era di tale coscienza che non rideva mai.
Questi, dopo la cena, chiamò la figliola e – Sei sposa – le disse; e accennando all'amico: – Messere è il tuo sposo – ; e quegli stringendo la mano della giovane timida e confusa non sentí quant'era fredda.