Loe raamatut: «I rossi e i neri, vol. 1»
PARTE PRIMA
I
Nel quale si discorre del bel tempo e si fa la conoscenza di qualche personaggio.
Era uno dei primi giorni di febbraio, nell'anno di grazia 1857, ed era, a mal grado della stagione, una bella giornata. A Genova le belle giornate, anco nel cuore dell'inverno, sono la cosa più naturale del mondo. Il cielo è sereno; il sole non si contenta di mostrarsi in tutta la sua splendidezza, ma vi scalda sovrammercato; l'aria è tiepida, sarei per dire balsamica. E perchè no? In questa città i fiori durano nei giardini come nelle stufe, solo che vi pigliate la briga di ripararli dal vento. Quando fanno di queste giornate, i genovesi escon dal chiuso e vanno a passeggio, benedicendo alla provvidenza, che ai giorni di pioggia, di vento e di neve, alterna qualche settimana di questi giorni, che di là dalle Alpi ne vede pochi l'Europa nelle sue più famose primavere.
Per le strade e pei vicoli, non essendo giorno di festa, si vedeva il solito viavai: ma un attento osservatore avrebbe facilmente notata l'assenza dello zerbinotto e della signora elegante. Infatti, era un lunedì, e il veglione del teatro Carlo Felice era finito alle sei del mattino. Le belle dormivano; e l'ora dei belli, come la dicono a Genova con frase molto gustosa, non era anche suonata. I belli duravano ancora nel primo sonno, quantunque fossero le undici all'orologio delle Vigne, le undici e un quarto a quel della Posta. Notiamo di passata che gli orologi di Genova non sono punto dissimili da quelli delle altre città. Tutto il mondo è paese.
Il sole (non si sgomentino i lettori, che qui non si fanno descrizioni retoriche) il sole indorava i tetti di lavagna e faceva scintillare co' suoi raggi i vetri delle finestre; s'intende di quelle che erano chiuse, perchè dove c'erano finestre aperte i raggi entravano senza chieder licenza. E noi che per il nostro ufficio di narratori non dobbiamo chiederne mai, ci metteremo a cavalcioni sopra un raggio di sole, come faceva il fantastico Oberon sui raggi di luna, ed entreremo per una finestra, che in quel giorno, a quell'ora, si ritrovava aperta, a ricevere i tiepidi saluti di un'aria ristoratrice.
La casa in cui dobbiamo far entrare il lettore insieme con noi, era una vecchia casa di tre piani, posta in via Luccoli. Sebbene di modesta apparenza, lasciava intendere com'ella fosse stata la dimora di una di quelle famiglie consolari, la cui nobiltà risaliva più su delle Crociate, descritta a caratteri di buone opere e generosi sentimenti di virtù cittadina nel libro d'oro della storia. Più tardi la lunga consuetudine del potere, il fasto, la magnificenza del vivere, diedero origine a più orgogliosa forma di patriziato, e si fabbricarono i sontuosi palazzi, con le ville principesche. Ma noi, rispettando i palazzi che attestano lo splendido uso delle ricchezze, e i vecchi nomi non indegnamente portati da tardi nepoti, corriamo più volentieri con l'animo alle memorie di Genova popolana, anteponendo i modesti ricordi d'Almèria, di Tolemaide, di Caffa, alle pompose tradizioni del Consiglietto, con la flotta francese innanzi al Molo vecchio, o con le soldatesche del Botta Adorno entro le mura di Genova patrizia.
Le pietre nere riquadrate formavano la base e il primo piano della casa accennata; e la cornice sotto il secondo piano, colla sua fila d'archetti del vecchio stile lombardo, era anch'essa di pietra dello stesso colore, venuta dalle cave di Promontorio. Anticamente la casa aveva posseduti i suoi portici; ma da un pezzo il vano tra le colonne si era rimpicciolito ad usci di botteghe, e le colonne bisognava indovinarle sotto l'intonaco profano di secoli più recenti. Gli eruditi diranno a chi fosse appartenuta quella casa, e per qual filiera di vendite fosse caduta in balìa di un mastro Nicola Ceretti di Molassana, antico muratore, fattosi ricco più tardi del suo milioncino, e di un figlio unico, il quale, tranne il nome profumato di Arturo e la naturale differenza d'età, era tutto suo padre.
Ma dei Ceretti non dobbiamo darci pensiero per ora. Siamo ai primi di febbraio dell'anno 1857, ed entriamo con un raggio di sole per una finestra al terzo piano della casa in discorso, la qual finestra ci lascia vedere un mondo di cose nella cameretta a cui ella dà il conforto della luce e dell'aria.
Anzitutto, nel fondo, un letticiuolo, appoggiato con una sponda alla parete; al capezzale un comodino colla sua lastra di marmo ingombra per metà da una catasta di libri, a cui faceva la guardia una candela stearica mezzo consumata, su d'un candeliere che voleva parere di bronzo lavorato. Lì presso un cassettone di noce, ma di quella forma bizzarra, ricca di sporti e d'intagli, che consola i dilettanti d'anticaglie, e anch'esso col suo ripiano ingombro per una parte di libri. Poco distante dalla finestra, e collocato pel buon verso ad avere da sinistra la luce, stava un tavolino, che s'atteggiava a scrivania.
Non dimentichiamo uno specchio appiccato alla parete, presso il vano della finestra, e sopra lo specchio un certo trofeo di spade e sciabole in croce; più lungi, in un angolo, un fucile di guardia nazionale, con la sua baionetta voltata all'ingiù, e con larghe chiazze di ruggine, che attestavano i suoi scarsi servizi, lasciando supporre che il suo padrone andasse più sovente ad onorare di sua presenza la sala di disciplina nel vicolo dei Salvaghi, che non il portone del palazzo municipale.
Non finiremo questa breve descrizione senza accennare due quadri a olio, di mezzana grandezza, che presentavano le figure di un uomo e di una donna. Questa era una signora sui quaranta, d'una appariscente e serena bellezza di forme, quantunque il pittore coscienzioso avesse dovuto correggerne lo splendore con qualche ruga alle tempie, un cerchio turchiniccio intorno agli occhi malinconicamente affondati, e molti capelli grigi tra i neri. Questo ritratto di donna aveva molta somiglianza, nel complesso dei lineamenti, con l'unica persona viva, di sesso mascolino, che veniva passeggiando per la camera.
L'altro ritratto era quello di un bel soldato, con le insegne di colonnello; stupenda testa, con grandi baffi e pizzo tra il biondo e il castagno, spaziosa la fronte, nobile lo sguardo e pieno di bontà. Il pittore, per un tratto di bizzarria non insolito in questo genere d'arte, aveva dipinti gli occhi del colonnello in guisa che parevano sempre guardarvi, da qualunque lato vi foste messo a contemplarlo.
Infatti, il giovine Lorenzo Salvani passeggiava su e giù per la camera, e gli occhi di suo padre erano sempre fissi su lui. L'amore di Lorenzo per suo padre era stato immenso, e pareva a lui, anima di poeta, di non averne perduto l'amore, se, alzando gli occhi al quadro, vedeva sempre il suo buon padre sorridergli.
I lettori non saranno scontenti di noi, che senza tanti preamboli, abbiamo messo loro dinanzi l'inquilino di quella camera, visitata __ex abrupto__ e senza passare per l'uscio. Eglino sanno ora che costui si chiamava Lorenzo Salvani, che era giovine, ed anche poeta. Intendiamoci, per altro; era poeta, e scriveva di molto, ma la sua musa vereconda non aveva ancora gittato una strofa, o una pagina di prosa ai dispregi del pubblico.
Lorenzo aveva venticinque anni, e studiava leggi all'Università. Bene avrebbe potuto strappare la laurea qualche anno prima, se i suoi studi, ch'erano stati altrettanto sodi quanto precoci, non avessero patito una troppo lunga interruzione, durante la quale egli si era addottorato nella disciplina delle armi, alla difesa di Roma, del 1849.
Ritratto non ne faremo, perchè non si capisce mai niente in questa descrizione di bocche e di nasi, che è il forte di certi romanzieri; o piuttosto lo faremo a spizzico, quando ci venga in taglio di accennare a questi particolari. Era di capel bruno, di statura giusta, pallido, con due occhi affondati e grandi come quelli di sua madre. Aveva sempre sulla fronte una grand'aria di malinconia, diradata a tratti da pazzi impeti di allegrezza, così forti e così brevi, da non parere schietta espressione d'una gaia natura. Andava molto volentieri vestito di nero, e colle mani inguantate. Nel momento in cui lo troviamo, nella sua camera e solo, passeggiava in maniche di camicia, con le mani raccolte dietro le spalle, come usava Napoleone il grande, e come doveva esser costume di Alessandro Macedone, se è vero che tutti i grandi uomini si rassomigliano nelle piccole cose.
Uno zibaldone squadernato lo aspettava inutilmente sul tavolino che sapete. Egli già da un'ora andava misurando i sei metri di lunghezza della sua camera; e chi sa quanto avrebbe passeggiato ancora a quel modo, se un leggero batter di nocche sull'uscio non gli avesse rotto il filo delle meditazioni, e se, mentre egli alzava la fronte, l'uscio, che era appena socchiuso, non si fosse aperto tanto da lasciar passare nel vano la più bella testa che Iddio avesse mai posta sugli òmeri di una donna; una di quelle belle teste genovesi, ritratte con tanto amore dai pennelli del Vandyck, piene di vita e di leggiadria, dagli occhi sereni, che promettevano di diventar languidi un giorno, se già non erano a mezzo, per l'ombreggiamento delle lunghe ciglia. Il collo era forse d'una linea troppo lungo, per un sottile ricercatore del bello assoluto; ma il bello relativo ci aveva il conto suo, per dare un ragionevol sostegno ad una abbondanza prodigiosa di capelli neri e lucenti, che la fanciulla stentava ogni mattina a chiudere nel minore spazio possibile.
– Lorenzo, – diss'ella con un bel suono di voce argentina, – cercano di voi.
– Di me? – chiese il giovine, trasognato. – E chi mai?
Per intendere la maraviglia di Lorenzo bisognerà sapere ch'egli non riceveva nessuno. Amici ne aveva pochissimi, piuttosto conoscenti che amici; e se gli occorreva di accennare il numero del suo uscio di strada, non era certamente con aria d'invito. Non usava dimestichezza colla gente, e non ne lasciava prendere; a molti aveva reso servizio, senza chiederne mai a sua volta. Però gli era venuta la fama di carattere chiuso, solitario, ed anche un tantino ombroso; tranne i saluti di necessità, e le fermate di convenienza, non s'indugiava egli con la gente, nè la gente inclinava a trattenerlo per via.
Soltanto l'Assereto, un antico suo compagno di scuola, aveva il privilegio di andare attorno con lui; e allora a vederli erano passeggiate lunghissime, in città, e fuori le porte. Ma i due amici si vedevano di rado. L'Assereto era un giovinotto così affaccendato nella piazza de' Banchi; Lorenzo Salvani, dal canto suo, viveva così immerso ne' suoi studi, che l'amicizia, l'intrinsichezza loro passava quasi inosservata; e il nostro Salvani restava sempre, nel concetto dei giovani, il solitario e l'ombroso di prima.
Lorenzo aveva chiesto adunque chi fosse il nuovo e inaspettato visitatore.
– Un signore, – rispose la fanciulla, – che dice di essere vostro amico. Michele non ha saputo ridirmene il nome; lo ha fatto passare nel salottino, ed io sono venuta ad avvertirvene.
– Grazie, buona Maria! – E lo sguardo del giovine si fece tutto amorevole, per accompagnare quelle tre parole. Così nella voce, come negli occhi, era una espressione ineffabile di tenerezza quasi paterna.
Mentre egli s'era voltato per indossare il soprabito, si sentì sfiorare il volto da qualche cosa, che, descritta in aria la sua curva, venne a cadergli da' piedi. Era un mazzolino di viole mammole, ch'egli si chinò prontamente a raccogliere. Rivòltosi da capo verso l'uscio, Lorenzo Salvani vide ancora la testa di Maria, che lo guardava e rideva.
– Orso! – gli disse la fanciulla, temperando col sorriso il rimprovero. – Non siete venuto neanche a dirmi buon giorno, questa mattina, e non meritate che sia dato a voi in altra maniera.
– Voi sarete sempre migliore di me; – rispose Lorenzo, mentre riponeva il mazzolino tra le risvolte della sottoveste. Sono un orso; è proprio vero.
– Oh, come la pigliate voi? Non lo dico già perchè sia vero; – replicò la fanciulla, mettendosi sul grave. – So bene, io, che lavorate tanto, e pensate ancora di più. —
Quindi levati gli occhi al ritratto della madre di Lorenzo, le scoccò un bacio colla punta delle dita, e disparve.
– Chi è mai quest'importuno? – chiese a sè stesso Lorenzo, imitando senza avvedersene il conte Almaviva nella prima scena del __Barbiere di Siviglia__.
E si mosse, per andare nel salottino.
II
Nel quale si dimostra come da buona pianta abbia a venir sempre buon frutto.
Il primo a dir ciò, sebbene con diversa immagine, è stato Orazio Flacco, in uno di quei versi, che vincono il bronzo al paragone. Verrà il giorno, pur troppo, che in Italia non si saprà più il latino; ma in qualche altro paese non lo avranno dimenticato; i versi del nostro amico Orazio si leggeranno ancora, e si citerà sempre il suo aureo dettato: __fortes nascuntur fortibus et bonis__.
Questo ricordo classico avrà fatto intendere al lettore il nostro proposito. In quella che Lorenzo Salvani va a ricever quell'altro, che ancora ignoriamo chi sia, non sarà male che diciamo qualche cosa intorno alla famiglia del nostro giovine amico.
Il colonnello Salvani, già da due anni dormente il gran sonno, era stato a' suoi tempi uno di quegli uomini che ad una mente eletta e ad un cuor di leone accoppiano una squisita delicatezza di sentire. Grande sventura, essere cosiffattamente dotati dalla natura; perchè queste splendide virtù, con le quali si potrebbe fare il mondo, se fosse ancora da fare, e soprattutto se francasse la spesa di farlo, non riescono in quella vece se non a cozzar le une con le altre, o a renderci sventurati, in un mondo già fatto, anzi così mal fatto come ognun vede. Rigo Salvani, andando molto diritto sulla via del dovere, seguendo il bene e propugnandolo in ogni occasione, aveva avuto di molte amarezze, perfino nella ristretta cerchia de' suoi amici e compagni di lavoro. In politica il cuore è un viscere inutile, spesso anche dannoso; ed egli era così venuto, per una lunga trafila di disinganni, a disdegnare il genere umano, con tutta la migliore intenzione che aveva di amarlo.
In assai giovine età Rigo Salvani aveva preso a congiurare, ed era uno dei più animosi soldati di quella falange sacra, decimata prima dai patiboli di tutti quanti i governi della penisola, poscia dai campi di battaglia, e schernita più tardi da una generazione di sconoscenti, i quali si figurano di aver fatta essi la patria, perchè hanno comperato cartelle del debito pubblico molto sotto alla pari, o perchè hanno messo mano in laute imprese industriali. Ai tempi di Rigo Salvani l'amor di patria non fruttava nulla in quattrini; e neanche in onori, salvo alle volte il cordone dell'ordine riverito di mastro Impicca.
Ma lasciamo da parte queste malinconie. A Bologna, in una di quelle spedizioni di carbonaro, o giù di lì, Rigo Salvani si era invaghito di una nobilissima donna, e l'aveva fatta sua, nè parve che quelle nozze scemassero l'audacia e la costanza del congiurato. Profondamente innamorata di lui, animosa e paziente, Luisa Salvani fu una forza nuova, non già un ostacolo ai propositi dell'intrepido uomo.
Il primo processo lo trovò padre d'un figliuoletto, e la dolcezza degli affetti domestici fu turbata poi dall'esilio. La sua Luisa rimase sola, sposa e vedova ad un tempo, senz'altra consolazione che quella creaturina, di cui ella doveva custodir l'esistenza, innanzi di poterla educare ai nobili esempi paterni.
Così visse Lorenzo Salvani dal 1832 fino al '47, sempre accanto a sua madre, e non vedendo suo padre se non rarissime volte, allorquando l'esule interrompeva i suoi sconsolati viaggi per venire a salutar di soppiatto la moglie e fuggirsene da capo innanzi che la polizia avesse sentore della sua presenza: mesti ritorni e meste dipartite, che poi risplendevano come altrettanti fari luminosi sul mare tenebroso della sua vita raminga.
Nè più riposato per lui fu il tempo succeduto all'esilio; perchè, ritornato del '47 in Italia, Rigo Salvani partecipò ai moti di Genova, che dovevano finire con la promulgazione dello Statuto e con la dichiarazione della guerra santa, come la chiamarono allora; nè valse a mutarle il nome che il papa Pio IX, dopo aver benedetta l'Italia, la maledicesse pentito.
Non è nostro intendimento raccontare quel che operasse allora il Salvani. Uomini come lui non potevano stare inoperosi, o mancare, dovunque fosse da menar le mani; e quando le fortune d'Italia si trovarono ridotte allo stremo sulle sacre mura di Roma, minacciate dai fratelli di Francia, il Salvani era maggiore, e contava le sue quattro ferite.
Era la sera del 29 aprile del '49, e il maggiore occupava coi suoi legionari la porta di San Pancrazio, quando gli venne annunziata la presenza di un giovinetto, il quale chiedeva di lui. Rigo Salvani stava in quel punto scrivendo; però, fatto entrare il visitatore, gli chiese, senza alzar gli occhi dal foglio, chi fosse e che cosa volesse.
L'adolescente, ch'era vestito di rosso, e ad onta della tenera età portava molto fieramente il cappello di feltro a larghe falde con la penna tricolore, salutò militarmente e rispose:
– Sono Lorenzo Salvani. —
Immagini il lettore che senso facesse sull'animo del maggiore quella breve risposta. Rigo Salvani balzò dalla sedia, corse ad abbracciare il figliuolo, e tirandolo con dolce violenza sotto il lume d'una candela, gridò:
– È lui, proprio lui! —
Ma l'ebbrezza di quell'amplesso paterno non fu lunga; il maggiore, lasciata la bruna testa del figlio, che teneva stretta nelle palme, ripigliò con accento di rimprovero:
– E tua madre, disgraziato?
– Mia madre, – rispose l'adolescente, – mi ha data la sua benedizione, trovando giusto che dov'era il padre potesse stare anche il figlio. —
Il maggiore stette un istante a guardare quel sedicenne che ci aveva le risposte così pronte, e che stava lì ritto e rispettoso davanti a lui nella posizione del soldato senz'armi; poscia borbottò tra i denti:
– Infine, ha ragione, ci può stare anche lui. – Abbracciò allora una seconda volta suo figlio, e dopo averselo fatto sedere vicino, e chiestogli le nuove di casa, proseguì:
– E adesso, in che compagnia sei?
– In nessuna, signor maggiore. Desidero di servire sotto il vostro comando, se non vi è discaro.
– Sta bene; e quando sei giunto?
– Oggi stesso; vengo da Civitavecchia, e precedo i signori Francesi, dei quali ho veduto lo sbarco, liberamente operato. —
Dicendo queste ultime parole, l'adolescente batteva de' piedi sul pavimento, in segno di dispetto.
– Chétati! – rispose sorridendo il maggiore. – Non entreranno così liberamente di qua.
– Lo credo; qui ci siete voi, padre mio. E poi, penso che i cittadini di questa repubblica ricorderanno gli esempi dell'antica. Furio Camillo era ben nato da queste parti. —
Lorenzo, sebbene in quell'anno avesse cominciato a studiare filosofia, non aveva già dimenticati i due di rettorica. Parlava volentieri dei Fabii, dei Manlii, dei Quinzii, e d'altri somiglianti semenzai d'uomini prodi. Ancor egli aveva cantato a squarciagola per le vie di Genova:
Fratelli d'Italia,
L'Italia s'è desta;
Dell'elmo di Scipio
S'è cinta la testa.
Ov'è la Vittoria?
Le porga la chioma;
Che schiava di Roma
Iddio la creò.
Rigo Salvani era tutt'occhi a contemplare suo figlio; ne ammirava lo sciolto linguaggio e il piglio marziale. Lorenzo era ancora un ragazzo, ma già in lui si sentiva l'uomo. Le prime schioppettate avevano da compiere la trasformazione, e da porvi il suggello.
– Tu, dunque, sei venuto a tempo; – gli disse il maggiore. – Credo che domani i signori Francesi, ai quali mi sembra che tu porti già un grande amore, saranno alle viste.
– __Hannibal ad portas__. Ma noi, babbo, non istaremo a piagnucolare come la plebe romana dopo la rotta di Canne, e muoveremo loro incontro.
– Se questo sarà il comando dei capi.
– S'intende, signor maggiore. Ma poichè oggi, entrando in Roma, ho già imparato a cantare: __Anneremo in Campidojo – A saluta' er berretto__, non mi spiacerebbe cambiar domattina di musica. A proposito, padre mio, dicono che il primo fuoco fa paura…
– Secondo i casi, ragazzo mio; – rispose il maggiore, che se la spassava ad ascoltare la gaia parlantina del figlio. – Ed anche dipende molto dalla compagnia in cui uno si trova.
– Orbene, padre mio, se non vi spiace, starò vicino a voi, farò di non tremare. Se mi vedrete una brutta cera, ditemelo subito; la vergogna mi farà diventar rosso come questa camicia.
– Te lo darò io, il rimedio contro la commozione del primo fuoco; – disse il maggiore. – Mettiti a cantare la Marsigliese, e ti sentirai un cuor di leone.
– Avete ragione, padre mio; ma io non la canterò certamente in francese.
– E perchè?
– Perchè non mi pare ben fatto cantarla nella stessa lingua di chi viene ad assalirci. Voi avete detto ch'io porto amore ai Francesi, e, sebbene celiando, avete colto nel segno. Io amo molto i Francesi, perchè sono un gran popolo, ed hanno fatto di grandi cose nel mondo; ma la lingua della patria innanzi tutto. Ed io, per far le schioppettate con loro, come dobbiamo, essendo assaliti, vedrò di scordare che hanno fatta la rivoluzione dell'89 e promulgati i diritti dell'uomo.
– Ecco, tu parli come un uomo di Stato, mio buon Lorenzino; – disse Rigo Salvani, accarezzando i neri capegli del figlio. – Ma perchè non vorrai tu cantare la Marsigliese nella sua lingua nativa? È il canto della libertà, e la libertà è patrimonio di tutte le nazioni. D'altra parte, mi dicono che sia impossibile voltarlo in italiano, conservando tutti quei tronchi che sono nell'indole della lingua francese.
– Oh! – rispose Lorenzo con la baldanza spensierata che è propria dei giovani. – Se la difficoltà è tutta nei tronchi, non è cosa da spaventarsene; e poichè l'essenziale è di poterla cantare, io ne sono venuto a capo. Non ci sarà la forza dell'originale; ma la musica supplisce al difetto. Sentite un po'.
E l'adolescente cominciò in questo modo a cantare:
Prodi, orsù; per la terra natia
Il bel dì della gloria spuntò.
Contro noi la tirannide ria
Lo stendardo sanguigno levò.
Udite voi? – L'empie coorti
Van ruggendo per l'arso terren;
Vengono, vengono, sul vostro sen
A sgozzarvi figliuoli e consorti.
All'armi, cittadini
Stretti a drappel moviam!
Corriam, d'un sangue vil
Que' solchi abbeveriam!
– Benissimo! va innanzi: – gridò il maggiore Salvani. – La musica ci si adagia abbastanza bene, in questa tua strofa. Sentiamo l'altra. —
Lorenzo, incuorato dalla lode paterna, proseguì con accento più concitato:
Che vuol mai questa folla di schiavi,
Questa lega di perfidi re?
Per chi mai questi ceppi da ignavi?
Quelle pronte catene perchè?
Forse per noi? – Su, ti disfrena,
O gran tempo represso furor!
Siam noi che pensano nell'imo cor
Di ridurre all'antica catena?
All'armi, cittadin!
Stretti a drappel moviam!
Corriam, d'un sangue vil
Que' solchi abbeveriam!
– Lascio stare le altre, – soggiunse l'adolescente, com'ebbe finito il ritornello, – e vengo subito all'ultima, a quella che ogni buon repubblicano usa cantare in ginocchio.
Santo amor della patria, tu incita,
Tu sostieni la vindice man;
Libertà, libertade gradita,
Co' tuoi figli combatti sul pian,
E volga a noi – i passi suoi
La Vittoria, al tuo forte chiamar;
E i vili veggano, presso a spirar,
La tua gloria e il trionfo de' tuoi.
All'armi, cittadin!
Stretti a drappel moviam!
Corriam, d'un sangue vil
Que' solchi abbeveriam!
– Bene! – gridò il maggiore, stringendo il giovinetto nelle sue braccia. – Tu sei davvero sangue del mio sangue.
– Ah! questo bel legionario è vostro figlio? Me ne rallegro con voi, maggiore Salvani. —
Queste parole erano proferite da un nuovo personaggio, entrato allora allora nella camera. Portava egli pure la tunica rossa e il cappello di feltro nero colla penna dei tre colori, e sebbene non contasse ancora i ventidue anni, aveva già aspetto d'uomo maturo. Il pensiero è quella certa lama, così spesso adoperata a raffronti poetici, che a lungo andare logora la guaina. Il viso pallido, lo sguardo e l'atteggiamento malinconico, la fronte prominente e spaziosa sotto l'onda dei lunghi capelli biondi, mostravano a prima giunta il pensatore; e il pensatore a quell'età non poteva essere se non un poeta.
– Sei tu, amico? – disse il maggiore, muovendo incontro al nuovo venuto. – Eccoti mio figlio, per l'appunto, Lorenzo Salvani: un tuo concittadino, il quale, scommetto, sa tutti i tuoi canti a memoria.
– Bello, e animoso, in verità! – soggiunse quell'altro. – Ed è probabilmente lui, che ha tradotta la Marsigliese.
– L'hai dunque udito?
– Sì, mentre salivo da te. Sentendo il canto famoso in parole italiane, mi sono fermato sul pianerottolo, per non interrompere. È molto difficile voltare quell'inno nella lingua nostra, senza mettersi in guerra dichiarata colla musica. C'è sopra tutto la prosodia del quinto verso e del settimo, che non si acconcia abbastanza al ritmo italiano. Io però mi rallegro con voi, signor Lorenzo Salvani. E a proposito, l'ultima strofa non ce l'avete mica fatta sentire. Sapete bene che la Marsigliese ha un'ultima, ultimissima strofa, dove sono i fanciulli che cantano, come negli inni di Tirteo; __Nous entrerons dans la carrière__…
– Ah sì, dite benissimo; – replicò il giovinetto; – e questi sono i versi che stanno meglio sulle labbra d'un ragazzo par mio. Infatti, ho tradotto anche questi:
Noi verremo secondi a riscossa,
Che i maggior non saranno già più;
Ma là sparse sarannovi l'ossa,
Ad esempio d'antica virtù.
A quelli eroi – sopravvivendo,
O con essi caduti sul pian,
– «Hanno voluto» tutti diran
«Vendicarli, o seguirli morendo».
All'armi, cittadini
Stretti a drappel moviam!
Corriam, d'un sangue vil
Que' solchi abbeveriam!
– Voi non dimostrate di voler aspettare che noi siamo morti, – disse l'altro, quando Lorenzo ebbe finito di cantare, – perchè venite animoso a mettervi in riga con noi. Da bravo, imitate vostro padre; e così possano somigliarvi coloro che ci dovranno vendicare, quando saremo caduti. —
Parole che arieggiavano il pronostico! Un mese dopo, quel giovine pensoso doveva cader ferito alla Villa Corsini, e non morire nemmeno sul campo di battaglia, ma sul letto di un ospedale, tra gli spasimi della gangrena, e le palle di cannone ch'entravano per le finestre a turbar l'agonia del Tirteo genovese.
Quando il nostro adolescente seppe che il suo interlocutore era Goffredo Mameli, l'autore dei __Fratelli d'Italia__ e di tanti altri bei versi che giravano manoscritti per Genova, arrossì un poco della sua sconciatura, e più del coraggio con cui s'era fatto a metterla in mostra.
Per fortuna, un soldato venne ad annunziare l'arrivo del generale Garibaldi, il quale, seguito da parecchi ufficiali, andava visitando le mura. Rigo Salvani e il Mameli uscirono incontro a lui, e Lorenzo si pose sull'orme del padre.
L'eroe di Sant'Antonio e di Rio Grande fece un gran senso nell'animo del giovinetto. Tutto ciò ch'egli aveva udito e letto intorno a quel maraviglioso soldato della libertà, riusciva minore a gran pezza della riverenza che gl'inspirava la vista del grand'uomo dalla camicia rossa, coperto il petto e le spalle dal __poncho__ americano, onde il braccio non poteva uscir fuori del tutto senza un certo movimento dell'òmero e un alzar della mano, che rimarranno caratteristici nella tradizione, come le braccia incrociate sul petto di Napoleone I, o le mani raccolte dietro le reni di Federico il Grande.
A quell'aspetto veramente olimpico, sereno e dolce nella calma, terribile ad un solo aggrottare di sopracciglia, Lorenzo intese d'un subito tutta la possanza di quell'uomo sulle moltitudini; comprese allora soltanto come potessero essere al mondo uomini tali, al cui cenno altri si precipitasse senza esitare dall'alto d'una torre, siccome egli aveva letto del Vecchio della Montagna; con questo solo divario tra i due, che questi adoperava la sua sterminata autorità ad operare il male, laddove il fascino del viso, della voce, del gesto di Garibaldi non doveva esser volto altrimenti che al bene.
Il generale strinse la mano al maggior Salvani e al poeta genovese; indi, come gli fu presentato il volontario sedicenne, gli pose la destra sulla spalla e gli disse con la sua poetica breviloquenza:
– Bravo! Quando tutti i giovani faranno come voi, non ci sarà più dispotismo sulla terra. —
Queste parole non le dimenticò più, il giovinetto Salvani; e gli suonavano così spiccatamente negli orecchi il giorno appresso, che non ebbe neanche bisogno del rimedio di suo padre per vincere la paura delle prime schioppettate. In quello scontro e negli altri che seguirono, si era diportato da valoroso: usciva nel giugno dalle vinte mura di Roma, sconfortato e pieno di amarezze, ma colla coscienza di aver fatto il debito suo, e meritato i filetti da ufficiale, che gli erano stati conferiti dopo la gloriosa giornata di Villa Panfili. Suo padre, poi, entrato maggiore in Roma, ne usciva colonnello.
Tornarono a Genova; Rigo Salvani per ritrarsi tosto in un suo podere presso Montobbio, grossa terra del nostro Appennino, dov'era già la moglie ad attenderlo; Lorenzo per proseguire gli studi all'Università genovese, dopo che egli pure fu andato a passare alcuni giorni tra le carezze di sua madre.
Triste ritorno, davvero: e non bastarono a temperarne l'acerbità gli amplessi della donna gentile, nè il riposo delle domestiche pareti. Roma era caduta: il 30 di agosto il Radetzky entrava in Venezia: l'Austria metteva presidio in Alessandria, dove le sue soldatesche erano precedute dalla musica, che suonava a scherno il __Fratelli d'Italia__; i Francesi intanto restauravano il poter temporale dei papi: le ultime fiamme di quel grande incendio che aveva signoreggiata la penisola si andavano spegnendo tacitamente qua e là: morta la prima grande rivoluzione d'Italia, soldati d'ogni paese e strumenti d'ogni tirannia ne vigilavano mal raffidati il sepolcro.
Lorenzo si pose con tutta l'anima allo studio. Lo sconforto che gli occupava lo spirito gli nutrì quell'amore della solitudine che già rispondeva alle sue fantasie di poeta. Era sempre colla fronte china sui libri, e nelle vacanze, quante ne offriva l'anno scolastico, volava difilato a Montobbio. Colà suo padre faceva una vita che si sarebbe potuta dir lieta, se le miserande fortune della patria non gli avessero avvelenato ogni gioia, e fatto quasi parere un nuovo esilio la pace della famiglia. Scorato, come tanti altri generosi della sua tempra, passava il tempo a leggere di storia; ma, nelle vacanze del figlio, le sue letture si alternavano colle lezioni di scherma, nella quale il colonnello Salvani, italiano del vecchio stampo, era fin dalla sua prima giovinezza diventato maestro.