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Tra cielo e terra: Romanzo

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Tra cielo e terra: Romanzo
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A FRANCESCO BERLINGIERI

Venendo a Te, per dedicarti il mio libro, penso ad una tua bella fantasia giovanile, «Un frate che minia la Divina Commedia»; povero frate che tu hai lasciato senza compagni, mutando il suo buon codice membranaceo nei codici moderni del patrio diritto; povero frate, per cui l’arte aveva ancora «sorrisi e fascini», ma più assai la giovane natura, parlante a lui l’onnipossente linguaggio da quelle stesse pagine ch’egli andava infiorando con le belle immagini fantasiose, ridenti d’italica primavera al genio di Oderisi da Gubbio e di Franco Bolognese. Deposti i pennelli, poggiata la faccia sulla palma della mano, pensa il povero frate, con gli occhi rivolti al poema del profugo Fiorentino «a cui temprâr l’ingegno – e l’amore e lo sdegno». O frate, tu gli hai detto, ammonendolo:

 
O frate, a lui l’esilio
E le pugne dell’alma:
A te l’obblìo degli uomini
E la cristiana calma.
Perchè t’alzi a colloquio
Col Ghibellin? tu piega
La queta fronte, e prega.
 

Ma sì, tardi consigli, come sono su per giù tutti i consigli dell’esperienza! Il male è fatto: il tuo monaco ha riletto dianzi quel diabolico canto V dell’Inferno, donde scoppia tanta passione umana, e dilaga e straripa. Quei due maravigliosi dannati raccontano anche così bene!

 
Per più fiate gli occhi ci sospinse
Quella lettura e scolorocci il viso:
Ma solo un punto fu quel che ci vinse.
 

Povero frate! Satana gli ha dato l’esca. Che ardori nel suo sangue! che visioni nella sua cella! I giorni felici si ripresentano alla sua mente, con immagini e fragranze di baci; la gioventù lo chiama, la terra lo invita; il rimorso lo turba, e il cielo dimenticato un istante gli ridipinge agli occhi la scena terribile dei sicuri castighi. No, non più affetti terreni, non ribellioni, non fughe.

 
Dio, mi salva dal dèmone
Che tutto mi possiede!
Di macere vigilie
Rinforzerò la fede.
Nè più profane pagine
Avran su me l’impero!
Io minierò il Saltero.
 

L’uomo antico era ricomparso tra le mortificazioni dell’asceta; ma l’asceta ha riconosciuto il tentatore, ha resistito, ha vinto. Così tu, fantasticando davanti alle rovine di un vecchio convento, che l’anima tua ripopolava «di larve incappucciate», hai rievocato un momento tipico della vita passata, o, per dire più veramente, hai intravveduto nella vita passata un lampo della coscienza eterna, dell’eterno dissidio e del vincolo eterno tra la terra ed il cielo.

Ho il mio frate ancor io. Non minia, pur troppo: parla il linguaggio aspro e nondimeno attraente che molti ascoltano tuttavia, che molti ascolteranno ancora dopo di noi, perchè tra forme mortali e transitorie reca sempre la nota della immortale verità non mai intieramente chiarita, della immortale domanda non mai pienamente soddisfatta. Egli è voce e coscienza d’una religione storica, che in mezzo a tante cure mondane onde fu troppo infrascata nei secoli scorsi ed è ancora afflitta nel nostro, è pur bastata a dare un corpo di dottrine morali purissime, suggellate dal bel principio in uno stupendo esemplare di dolcezza e di grazia, di virtù, di mansuetudine, di sacrifizio sublime, parlante dalla montagna al popolo di Tiberiade, disputante coi dottori della legge nel tempio di Gerusalemme, odiato ugualmente da Scribi e da Farisei (specie non morta ancora), ugualmente franteso da Giudei e da Romani, dagli uni e dagli altri condannato nella doppia sentenza del sinedrio e del pretorio, epicamente grande nel supplizio del Golgota, redivivo e trionfante nella fede degli umili come promessa infallibile di ricompense celesti, presente in ispirito e in verità dovunque si soffre, dovunque si procede, dovunque si spera di giungere ad una meta, commensale divino degl’infelici, rompente con paterno amore ai pellegrini di Emaus quel pane quotidiano, che a tanti figli d’Adamo sèguita sempre a mancare. Triste cosa, non è vero? e si può bene rimpiangere che i seguaci si siano allontanati di tanto dall’esemplare maraviglioso; riuscendo agli onori del trionfo per collegarsi tosto a mutua difesa coi potenti della terra; non dando ai miseri altro aiuto fuor che di buone parole; sognando per sè l’impero del mondo, ed ottenendo per via da tutti i monarchi, alternamente combattuti e favoriti, uno scampolo di territorio per le loro famiglie, nella patria divisa, assoggettata e tradita. Ma gli errori degli uomini nel corso dei secoli, ed oggi le ineluttabili ragioni della difesa civile, non ci faranno dimenticare il buon principio essenziale di quella religione, che ha pure educato nei cuori il sentimento del divino, prendendolo ovunque le fu dato rintracciarlo, germe prezioso e fecondo, tra la scoria delle superstizioni volgari e tra le perle della filosofia antica, tra i dubbî della scuola e gli stupori della piazza, tra i foschi terrori e le serene speranze di settantaquattro generazioni. E chi sa? l’istesso mio frate, un po’ incalzato e stretto al muro da chi avesse avuto più tempo per ciò, si sarebbe licenziato a parlare più liberamente che non solesse fare dal pergamo ai fedeli cristiani di San Giorgio. Credete in Dio, avrebbe detto, credete in un Dio giusto e buono, come causa prima dell’universo; osservate la legge morale, com’ella per volontà di lui si è rivelata alle genti: praticato il rispetto, l’amore, la carità nel mondo, e lasciate al tempo la cura del resto. Molte foglie cadono ogni autunno dall’albero; molti rami secchi al peso delle nevi invernali, all’azione dei geli, al soffio della tramontana si spezzano: ciò che è vitale, vivrà.

Il mio frate non minia, ti ho detto; nè io son riuscito a miniar lui con arte degna del tema. L’ho tirato giù alla grossa, ma vedendolo bene; e penso che questo si debba sentire da tutti coloro che lo vedranno apparire a suo tempo, nel corso di queste pagine, viva figura di combattente, o larva di promessi rimorsi per due povere creature condotte dal destino all’aspro dissidio tra la passione e il dovere, tra la natura obbedita e la legge violata. Intorno alle quali cose, io credo che il mio pensiero, essendo chiarissimo, non si possa frantendere nè falsare da uomini di parte, credenti o miscredenti che vogliano essere: ma certo non sarà male renderlo più evidente colla giunta di poche altre considerazioni.

La società moderna, per giudizio di alcuni, va bene abbastanza, volgendo apertamente ed infallibilmente al meglio, alla liberazione, alla certezza, alla luce. Non tanto sfoggio di sostantivi, mi raccomando. Spero anch’io che volgerà al meglio, se per merito di qualche evento prodigioso le capiterà di rimettersi in gambe: per ora mi sembra che zoppichi; e guai se lo zoppo fa a correre; vuol esser tombola, non ti pare? La grande rottura, avvenuta da un pezzo, e di questi tempi condotta agli estremi, tra la scienza e la fede, ha tra parecchi buoni effetti il cattivo di lasciar la morale senza guida, senza sostegno, in un momento sociale che più avremmo bisogno di lei; mentre le moltitudini, felicemente sciolte da tanti vincoli molesti, sentono più vivo il gusto della libertà e lo estendono volentieri a tutti i godimenti dell’essere; mentre tutti gli accorti, segnatamente i meglio provveduti, i meglio collocati nel mare magno della vita, dopo aver tremato un pochino di certe raffiche minacciose, si rassegnano alla burrasca, vogando alla galeotta e ripetendo tra sè il motto infame di Luigi XV: «après moi le déluge»; mentre lo stesso fondamento della società, che è la famiglia, non ha più un medesimo pensiero, un medesimo criterio, un medesimo istinto, per tutte le persone che la compongono. Nel modo di vivere, di sentire, d’intendere, di curare la conservazione delle tradizioni, degli averi, delle virtù private e domestiche, principio delle pubbliche e civili, noi non sembriamo già più i figli dei nostri padri: gran soluzione di continuità, che dovrebbe farci pensare! Così la famiglia si disunisce, un po’ per debolezza sua, molto per colpa de’ suoi capi, che non l’hanno più per santuario, come gente civile, ma per rifugio, come selvaggi primitivi. L’uomo va per un verso, e la donna per l’altro, secondo gli umori, i gusti, le vanità; crescano i figli come vogliono e possono; e padri e madri e figliuoli con molti bisogni, perchè con molti appetiti; senza ideali, perchè senz’ombra d’idee.

Restaurare nel civile consorzio il senso morale parrà necessario a chi pensa; e necessario veder cominciare la restaurazione dai capi, dai capi della famiglia, dai capi della società, donde l’autorità deriva, donde gli esempi si spargono. Ma noi non faremo niente senza virtù private, senza idealità che le informino, scaldandone la buona semente nei cuori. Tanto io credo, «e creder credo il vero». Per ritornare al libro che ti offro, esso sarà giudicato come vorrà essere; anzi diciamo pure, pronosticando, che non sarà giudicato affatto. Viviamo in un paese di gente savia e prudente, che aspetta di fuori sentenze ed oracoli, mode, predizioni del tempo ed almanacchi. Mi preme soltanto che il libro sia sentito da coloro che lo leggeranno. Da ventimila, dice l’amico editore, sperando: da venti, dico io, già molto ambizioso, se penso ai venticinque di cui si contentava il Manzoni: nel fatto, levando tutti gli zeri, me ne bastano due.

Eravamo in due all’Acqua Novella, te ne rammenti? C’è là, in un angolo felice della nostra Liguria occidentale, il più antico e il più recente mio ricordo campestre. Vidi da bambino ed amai quella voltata in discesa dalla balza di Bergeggi a Spotorno, con le rovine dell’èremo di Sant’Antonino, piantato nel vivo della rupe ferrigna, sotto i ciuffi degli arbusti che gli fanno ombra dal ciglio sfaldato del gran masso imminente. Era allora il mio sogno d’essere il padrone dell’èremo, di restaurarlo, di farmi frate là dentro, frate di un ordine mio, molto benedettino per la copia dei libri, molto templario per la quantità dei conversi; gaudenti essi della vita materiale, gaudente io della felicità intellettuale, in quella grata solitudine, difesa dai venti freddi, con quel lembo di cielo opalino, con quella lista di mare turchino davanti, dimenticando tutto l’altro dello spazio e del tempo, ignorando l’ora degli altri, aspettando la mia senza troppo curarmene. Veramente, l’orologio non era lontano; orologio solare, sul terrazzo di una casa verdognola, trecento passi più in là, nel bel mezzo di un orto; con quella sua leggenda: «ultima necat» che fu la prima frase latina capitata davanti a’ miei occhi, e che mi dava sempre tanto da pensare, tutte le volte che passavo da quelle parti. Quando fui in grado da intenderla, amai compirne l’idea, premettendole un «vulnerant omnes». Ma per allora non era il caso di filosofarci su; ed io non filosofavo, sentendo il desiderio di quella pace, sognandola tutta per me.

 

Era un sogno, e finì come finiscono i sogni. Ma i bei sogni si ricordano volentieri; ed io più volentieri l’ho ricordato, tornando or non è molto con te alla tua bella Spotorno, bianca lucente sulla spiaggia lunga, tra la voltata di Bergeggi e il monte Orsini, aspra guardia di Noli. Ad un certo punto, e di comune accordo, abbiamo fatta fermar la carrozza; io per contemplare il mio èremo, tu per farmi bere un sorso della fontana lì presso, l’Acqua Novella, zampillante da una gran vasca quadrata, sul margine della strada maestra. O acqua ben nomata, veramente fresca, ristoratrice e pura, come tutte le cose novelle! Io non sogno più solamente il mio vecchio èremo e la mia vecchia meridiana; sogno ancora l’Acqua Novella e quel buon tratto di strada quieta, che abbiamo fatta a piedi con tanta allegrezza, mentre i cavalli ci seguitavano al passo. E penso ancora, nel mio sogno, che l’uomo più felice della terra debba essere un certo guardiano di strada ferrata, che ha il suo casotto in quelle vicinanze, col suo orticello, i suoi fagiuoli e il suo gran fico brogiotto, accanto allo sbocco della galleria di Bergeggi. Poveraccio! e forse egli sogna a sua volta un trasloco, una promozione, che lo sbalzi guardia eccentrica o guardia di sala in qualche stazione importante, donde gli sia facile di mandare a scuola le quattro o cinque creaturine che senza fatica, quasi senza un pensiero al mondo, gli sono rampollate là dentro.

Son tutti così, i miei bravi cantonieri di strada ferrata. Ricordo ancora quello di Varigotti, conosciuto tanti anni fa. Aveva anche lui una bella fontana daccanto, anzi una vera cascata d’acqua, che piombava dalla balza rossastra, sotto la chiesuola abbandonata di San Lorenzo; aveva un orticello, con pèschi, fichi e fagiuoli, ch’erano una maraviglia a vederli; aveva il gran mare turchino davanti, e tutt’intorno, da ogni piega del terreno, da ogni borro, da ogni fenditura della rupe, occhieggiavano a lui tra lucide foglie di smeraldo i bei limoni dal color dell’oro. Per esser felice, non gli mancava neanche una moglie, giovanissima, bella e savia, amante del lavoro e di lui. Ma quello ci aveva il mal del paese; voleva lasciare quel sorriso di cielo e di mare, quel profumo, quel tepore, quella gloria, per ritornarsene al suo nido natale, o non troppo discosto, tra Bussoleno e Modane, sotto le Alpi nevose, a sentir cantare gli aquiloni e scrosciar le valanghe. Barattava male, e non fu difficile contentarlo. Sarà felice, ora? Ah, penso che Gabriello Chiabrera fu ben ispirato, il giorno che sul portone della sua casa fece scolpir l’oraziano: «Nihil est ab omni parte beatum».

Ma se una felicità compiuta non si ritrova in nessun luogo, neanche là dove io l’avevo sognata, bene mi sarà lecito di desiderare che la vita sia più ricca d’ideale, e che un’acqua novella, se pure non ci si debba vivere accanto con oraziana serenità, rinfreschi e purifichi le nuove generazioni; che il sentimento del divino, ingenito nella coscienza umana, si accordi un giorno colla critica non più arrogante di facili dispregi, colla scienza non più infatuata di sollecite deduzioni, e venga in buon punto a rinvigorire di nuovi succhi la povera morale intristita. Questo è il mio sogno dell’età matura, e credo che questo sia pure il tuo. Tu hai, a buon conto, una famiglia nata di te; vuoi che abbia i tuoi stessi ideali, riflettendo alcun che di quelli che tu stesso derivi dai tuoi vecchi; ai quali con animo reverente mando un augurio e un saluto filiale ancor io.

Comunque esso sia riuscito per l’arte, il mio libro è morale. Non già come un trattato; credo anzi che ci corra molt’acqua, e tutt’altro che novella, di mezzo. Ma esso è morale, nondimeno, come può essere tale un romanzo; cioè a dire una rappresentazione della vita reale, aspersa d’una certa idealità, che è poi la nota personale fatalmente recata dall’artista nella cosa veduta, nella cosa sentita ed espressa.

Ritorneremo col bel tempo all’Acqua Novella e al vecchio èremo diroccato. Tu ama intanto il tuo

Anton Giulio Barrili.

Capitolo Primo.
Addio, bel mare!

Gli avevano fatta un’ingiustizia, saltandolo nelle promozioni; perciò, a mala pena sbarcato, aveva mandata la sua dimissione al ministro. Per la via gerarchica, s’intende; e il capo del suo dipartimento marittimo, alla Spezia, si era degnato di esortarlo a pensarci su, almeno un paio di giorni. Per non fargli dispiacere col mostrarsi sconoscente alla cortesia del superiore, aveva accettato il consiglio; ma, quarantott’ore dopo, si era ripresentato al suo illustre capo, pregandolo di dar corso alla lettera.

Tra gli uguali, qualche amico sincero aveva tentato dissuaderlo, arrischiandosi a dirgli che commetteva un errore; ma egli non aveva voluto convenirne. Altri gli dicevano: «Fai bene; è stata un’ingiustizia; le ingiustizie non si sopportano». Ed egli rispondeva con un vivo cenno di assenso, quasi di ringraziamento, come uno che si senta compreso, congedandosi con una poderosa stretta di mano da tutti quei vecchi compagni, ai quali lasciava un gradino vuoto su quella scala di Giacobbe che conduce al paradiso del viceammiragliato.

Era sicuro del fatto suo; la risoluzione gli pareva buona, per il caso presente e per i casi futuri. Infatti, che cosa sperare da quel ministro, che era stato suo comandante in una memorabile crociera e che aveva mostrato in parecchie occasioni di non poterlo soffrire? Effetto di una ruggine antica, per una manovra fatta da lui, di suo capo, che il comandante non aveva ordinata, che anzi aveva biasimata. Un po’ troppo presto, per altro: lo scandaglio, la mattina dopo, aveva dimostrato a tutti che seguendo ciecamente gli ordini del comandante si sarebbe rimasti incagliati. Quattro palmi di sàgola avevano dato ragione all’inferiore; e il superiore se l’era legata al dito, quantunque l’inferiore si fosse studiato con ogni maggior cura di non lasciar trasparire il sentimento della propria superiorità. Una promozione, dopo quel giorno malaugurato, era venuta per tutt’e due, l’uno giungendo al grado di tenente di vascello, l’altro al grado di contrammiraglio. Due anni ancora, e il contrammiraglio diventava ministro. Il ministro si era slegato finalmente il dito, saltando nelle prime promozioni il tenente di vascello.

Lagnarsi? È presto detto. In che modo? Aspettare che cascasse il ministro; sì, fra due o tre anni, e intanto divorarsi l’affronto. No, niente aspettare; perciò aveva mandata la sua dimissione. Cosa amaramente spiacevole per lui, quanto edificante per tutti, la sua dimissione era stata accettata a volo. Brutto momento, vedersi così di punto in bianco fuori dell’uscio! Ma c’è «la buona compagnia che l’uom francheggia»; e questa, nei brutti momenti, consola.

Ahimè, non del tutto. A lui una pena sorda restava nel profondo dell’essere. Amava il mare; il bel mare, così pieno di misteri, così magnifico nella collera, così augusto nella calma, che pare abbia un’anima, e grande, meravigliosamente grande, grande almeno sei volte quella dell’umanità tutta quanta; il buon mare che mette in comunione tutte le creature viventi, assai più ed assai meglio che non facciano tante strade ferrate e tanti telegrafi. In questi dotti congegni c’è sempre l’arte di un mondo piccino, piccino come tutte le trovate degli uomini; c’è sempre l’idea di sentirsi passare in una cruna d’ago, assottigliati, stiacciati, tanagliati dagli attriti continui del passo. E poi, che cosa sono le invenzioni dell’uomo, ristrette ad un solo ufficio, ordinate ad una sola utilità, in confronto di quella superficie azzurra, pianura liquida e senza solco, che palpita e porta, mobile, gloriosa e superba, che dà moto e gioia a tanti organismi animati, colore agli occhi, calore agli spiriti, essendo ad un tempo la via e la vita?

Tutto è nuovo su quella via, l’abbiate pure cento volte percorsa; ve la fanno parer sempre nuova i mille diversi aspetti delle cose, nella vastità sconfinata degli orizzonti, nella infinita varietà delle tinte, mezze tinte e sfumature, dell’aria e dell’acqua. Il punto a cui volgete la prora è di giorno una striscia di azzurro, di grigio, di roseo, sull’ultimo lembo del mare, una striscia tenue che non vi offre il colore stridente nè i contorni aspri del vero; nella notte, poi, è un punto di fuoco, che getta sulle acque un raggio luminoso; più spesso, e di giorno e di notte, è l’invisibile, il nulla, ma con la sublime certezza di vedere, di trovar qualche cosa, al momento prefisso, sulla via che vi dimostrano le stelle, che vi traccia infallibilmente un computo aritmetico. E intanto il lontano fa pensare; l’occhio intravvede l’infinito; l’anima sente Dio; nè ci sono professori di calcolo per rimpicciolirvi quello con la figura di un otto coricato, nè filosofi del malanno per dirvi che questo è un sogno, una idiosincrasia naturale, una concrezione storica del vostro pensiero.

Con che ansia, adolescente allievo del collegio di marina, aveva aspettato il giorno del suo primo imbarco! Con che passione aveva fatto il suo primo viaggio, quindici anni addietro! Lo aveva sentito cantare e sospirare, fremere, urlare e ruggire, quel mostro immane dai grandi occhi verdi e dal dorso di spume! E lo aveva ammirato nella molteplicità degli aspetti, soavi e terribili, graziosi e feroci, sempre nuovi e stupendi; lo aveva amato nella salubre vivezza delle fragranze, nella dolce giocondità dei ritmici cullamenti. E dopo tante ammirazioni, dopo tanti amori, lo aveva lasciato! Ma sì, che volete? gli avevano fatta un’ingiustizia. Le ingiustizie non si sopportano, o si mostra di averle meritate; nel qual caso non sono più ingiustizie, ne convenite? Triste cosa, per altro! Aveva sempre sognato una guerra, da far le sue prove anche lui, da onorare l’Italia, questa lunga penisola che pare una gran nave imbozzata attraverso il Mediterraneo, e che non dovrebbe starci, perdio, come un pontone, come una fregata in disarmo. Quella guerra non l’aveva certamente invocata; il valoroso non invoca i pericoli, che non sono solamente per sè, ma per tutti; li aspetta, e si prepara ad affrontarli.

Aspettando la guerra, preparandosi a quella, il soldato serve la patria. E perchè non l’aspettava egli ancora, passando sopra ad una cattiveria di ministro? Infine, gli uomini passano, la patria resta. Verissimo, questo; ma è verissimo ugualmente che son tutte parole. La patria che resta è sorda, cieca e muta; non vi sente, non vi vede, non vi conforta per nulla, non vi consola affatto, non vi vendica di quell’altra che passa, agitandosi intorno a voi, standovi sotto, accanto e sopra, che vi giudica senza criterio, ammirandovi di fuga quando il caso dà a voi di far bene e a lei di non poter fare altrimenti, disprezzandovi quando ne può avere un pretesto, deridendovi spesso e volentieri, ne abbia o non ne abbia ragione, solo che si presenti un appiglio. La patria grande, la vera, dopo tutto, si serve con dignità. Levate la dignità al soldato, e non gli resta più nulla; c’è la morte nell’anima, e il servire è vergogna.

Per altro, non credeva di dover tanto soffrire, obbedendo alla voce della propria coscienza. Fu una triste giornata quella in cui gli annunziarono che la dimissione del tenente Sospello era stata accettata. Ah, non voleva stare neanche un giorno alla berlina delle condoglianze. Le sue valigie erano fatte, in attesa dell’evento. Se ne andava subito subito; e lontano, molto lontano dal mare, che non voleva vedere mai più. Alla terra de’ suoi padri, alle Alpi, avrebbe chiesto il rifugio; possedeva ancora una bicocca, lassù. Di vecchi non c’era più nessuno, ad aspettarlo: restava una sorella maggiore, nobile e santa creatura, che tant’anni prima avrebbe desiderato di chiudersi in un monastero, ma non aveva osato farlo, per non lasciar solo del tutto il suo vecchio babbo. Morto quello, non aveva potuto lasciar solo e vuoto il vecchio palazzo, dove cinque generazioni di Sospelli di Vaussana erano passate, e dove era naturale che ella restasse per custodire il posto alla settima, se mai il fratello Maurizio si risolvesse di continuare la stirpe.

 

Buona e cara Albertina! Egli andava a farle compagnia nella triste casa; e qual compagnia! Lei, fastidita del mondo anche prima di conoscerlo, certamente per qualche intima ragione si era appartata a quel modo, rinunziando alle gioie della vita; se pure la vita ne ha. Anch’egli, vecchio scapolo, che aveva sognato d’impalmare la gloria, offeso un giorno nella sua dignità, rinunziava a tutti i sogni di una legittima ambizione, per andarsi a rinchiudere nella casa dei suoi maggiori, come un povero alcione ferito va a posar l’ala sanguinolenta sul nido abbandonato.

Maurizio aveva già scritto alla sorella, annunziandole la sua dimissione come un proposito irrevocabile: ma egli non intendeva già d’impoltronire nella sua bicocca montanina; non voleva finir cacciatore, nè giuocatore beone, come tanti gentiluomini campagnuoli. Possedeva una ricca libreria; l’avrebbe al bisogno accresciuta, per dedicarsi ad un’opera di polso. Aveva sempre vagheggiato il pensiero di scrivere un libro delle guerre marittime d’Italia, ma condotto con una certa larghezza di disegno, da appagar tutti i gusti, da rispondere a tutti i bisogni intellettuali, ordinato e preciso come una storia, vivo e animato come un romanzo, il libro del marinaio italiano, il libro che mancava ancora, per dare una idea chiara e compiuta delle antiche navigazioni e degli antichi commerci, argomenti di emulazione e cause di guerra tra i popoli; per descrivere i costumi marinareschi, le imprese audaci, le trasformazioni successive della strategìa e della tattica navale nel gran bacino mediterraneo. Certo, per condurre a termine un’opera come quella, non gli sarebbero bastati i libri che possedeva. Ma il primo anno lo avrebbe speso a tracciare il quadro; poi avrebbe veduto, si sarebbe destreggiato via via secondo il bisogno, cercando altri libri, viaggiando per città e biblioteche; ottima occasione per isgranchirsi, per non fare la ruggine. Ed era ancora una bella vita per un uomo di trentadue anni; e aveva tempo davanti a sè per colorire degnamente il quadro ideato.

Il suo attendente, congedandosi da lui alla stazione di Spezia, gli aveva dato il buon viaggio con le lagrime agli occhi.

– Grazie, Susini, e addio; siamo uomini; – gli rispose Maurizio. – Scrivimi, se ti occorrerà qualche cosa; ed anche quando non ti occorrerà nulla; riceverò sempre le tue lettere con molto piacere.

– E lei, signor tenente, non avrà mai bisogno di nulla, da un povero marinaio?

– Sì, spesso sentirò che mi mancherai, bravo Susini. Intanto, ti prego, appena sarà di ritorno, mi saluterai il Duilio. —

Aveva il cuor gonfio, il signor Maurizio, e incominciava a tremargli la voce.

– Ah, signor tenente! – mormorò il marinaio, singhiozzando. – È stata una grande ingiustizia.

– No, sai? t’inganni. Non si fanno ingiustizie, in servizio. Ci possono essere degli equivoci, dei malintesi; ma ingiustizie no, mai; – replicò il signor Maurizio, che aveva ancora la disciplina negli occhi e non voleva finir la carriera dando lo scandalo di dir male o di lasciar dir male dei superiori. – Se ti sembro commosso, pensa che ne ho qualche ragione. Non si abbandona il mare senza uno schianto dell’anima. Un giorno la sentirai anche tu, Susini mio, la nostalgia del mare.

– Io no, signor tenente, con sua licenza non avrò da sentirla. Non si ricorda che sono della Maddalena?

– È vero, sì, e invecchierai vedendolo ogni giorno; e quando sarai morto lo sentirai ancora da tutte le parti brontolare alla spiaggia; che bella cosa! – concluse sospirando il tenente. – Ma senti, fischia la macchina, e non vuol più saperne dei nostri discorsi. Qua la mano, mio vecchio, e addio! —

Il treno si metteva in moto, e il marinaio ebbe appena il tempo di baciare la mano che il suo tenente gli offriva per l’ultima volta.

– Non lo vuole ammettere; – borbottò egli, allontanandosi dal marciapiede d’asfalto, come il treno fu scomparso nel buio della notte; – ma tutti lo dicono a una voce: è stata un’ingiustizia. Per colpa di quei signori laggiù, la marina italiana ha perso ancor uno dei suoi manovrieri. E buono, poi, buono come il pane di Voltri; gentile come una ragazza di quindici anni, che non gli si è sentito mai uscir di bocca una mala parola, neanche nelle ore che scapperebbe la pazienza ai santi. —

La notte, senza lume di luna, era buia, e l’entrare del treno nelle centomila gallerie delle Cinque Terre e l’uscirne non facevano divario alla vista. Maurizio, nondimeno, sentiva il mare vicino, lo sentiva alle acute fragranze e al romper dei marosi contro le rupi. Lo rivide sull’alba, il vecchio amico brontolone; lo rivide di là dal monte di Portofino, farsi a mano a mano più luminoso e più bello, a Recco, a Nervi, a Genova, e giù giù per tutta la quieta Riviera di Ponente, dove si aprono cinquanta seni azzurreggianti tra il verde, e su lembi sottili di candide spiagge cinquanta paesi si distendono al sole. Quanti porti e rade, e golfi e calanche, di cui Maurizio conosceva gli approdi! A Genova era vissuto parecchi anni collegiale, e tante volte c’era tornato ufficiale. Nella rada di Vado, ancoraggio sicuro, era andato una volta a rifugio colla sua cannoniera, cacciato per due giorni da un fortunale di libeccio. Quella costiera della Cornice tutta frastagliata da balze ferrigne, coi suoi fondi di turchino carico listato di smeraldo e sormontato di bianche creste spumose, come l’aveva in pratica! Ed era sempre là, il suo mare, ad ogni uscita di galleria, il suo mare azzurro, scintillante, superbo, il buon mare, il bel mare, a cui aveva tutto sacrificato per tanti anni, perfino l’amore, il grande, il forte, il supremo bisogno dei cuori.

Non aveva egli dunque amato mai? Sì, aveva amato, ed anche incominciando per tempo; ma anche per tempo si era fermato. A quattordici anni aveva preso una cotta famosa per una sua cuginetta, splendidissima e formosissima bionda. Per moglie non sarebbe andata, avendo perfino un anno o due più di lui: ma chi bada a queste differenze, quando cantano gli anni adolescenti nel cuore? Quella stupenda creatura egli l’aveva veduta da bambino, e avevano giuocato insieme a marito e moglie: il «te ne rammenti?» era stato proferito con gusto al nuovo incontro, quando la cuginetta era venuta coi parenti a Genova, per salutar lui collegiale promosso agli esami finali e già presso all’imbarco desiderato. Ah, il bel giuoco di cui si ricordavano ridendo, ed anche arrossendo un pochino! Ma egli arrossiva anche d’un altro pensiero, che tanta bellezza fiorente gli aveva fatto nascere subitamente nell’anima. Perchè non si sarebbe ripigliata da senno quella condizione di marito e moglie che nove anni prima si era stabilita per giuoco? Ed egli già stava mulinando, in quei giorni di baldoria per le strade di Genova; studiava il modo di girare la frase, per dire alla cuginetta: aspettami due o tre anni, quanti i nostri parenti stimeranno che bastino, per… Ma la frase non gli veniva mai bene, come avrebbe voluto. E frattanto, una domenica all’Acquasola, dov’erano andati a sentir la musica, quella splendidissima e formosissima bionda che tutti ammiravano, gli aveva detto di schianto:

– Sapete che non siete punto belli voi altri, con la vostra feluca? —

Il «voi altri» andava agli ufficiali di marina. Maurizio non era ancora che un allievo, e non portava la feluca; ma l’avrebbe portata ben presto, nelle circostanze solenni. Perciò s’impermalì un pochettino, sentendo quella eresia, e guardò la cuginetta con aria di persona offesa.