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Loe raamatut: «La plebe, parte I», lehekülg 11

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– Io credo alla teoria di Lavater, la quale se non ha tutte le rigorose deduzioni della scienza, ha i meravigliosi indovinamenti d'una ispirazione e d'un istinto. L'anima parla, anche malgrado la volontà, colle sembianze della faccia, coll'espressione dello sguardo, colle forme del corpo onde s'è vestita; e l'arte dell'uomo nel mondo è appunto di soffocare quel linguaggio, o dissimularlo, o fargli dire il contrario della verità. Ma non tutti, non sempre, riescono a questo violentamento della propria natura. Un sussulto, un atto, uno sguardo, rivelano ad un punto all'osservatore il nascosto essere dell'anima, ed in un minuto contraddicono alla finzione già perfino fatta abitudine di anni e di anni. Ho incontrato col mio lo sguardo di re Carlo Alberto; io, uno zero sulla terra, ho tenuti fissi i miei occhi in quelli del rappresentante della maggior potenza terrena; ed ho tanto orgoglio da credere che, meglio forse di tanti altri, per la ventura di averlo colto in uno di quei momenti in cui anche al più in sull'avviso cade la maschera, io ho letto nella sua anima. Stimo aver io travisto un istante i pensieri ed i propositi che si agitano nell'intimo essere di quel re taciturno.

«Massimo d'Azeglio ha ragione. Quell'uomo non è il tiranno che noi liberali accusiamo, non è il traditore che maledicono nelle loro conventicole i carbonari: è uno schiavo esso stesso morso dalle strettoie delle circostanze, che copre colla pallidezza ascetica del suo volto e colla clamide di re le sue interne riluttanze e le ribellioni soffocate della sua natura. Non è un Tiberio, quale Tommaseo lo battezzò; è piuttosto una specie di Bruto primo incoronato.

«Quell'uomo soffre e pensa. Il pensiero ed il dolore nei re li fanno più acconci a comprendere ed amare i popoli. Quel principe ha una fede e un'ambizione. Vuole che il suo nome non passi inosservato fra la schiera dei regnanti di cui recita la litania lo scolaretto che ha mandato a memoria il trattatello di storia patria, ma che obliano le povere plebi memori soltanto di chi ha fatto loro molto bene o molto male; e crede che colla preghiera potrà ottenere da Dio le fortunate vicende onde conseguire il suo scopo. Quali mezzi trascegliere non sa, e forse non giunge sinora a vederne alcuno ad arrivo di sua mano. Esita ed oscilla forse innanzi a due grandissimi còmpiti: far la nazione e risuscitar l'Italia; o farsi il riformatore del suo popolo e lasciare al re venturo un paese più ricco, una popolazione più omogenea, una società meglio ordinata. Forse gli mancano la forza e l'intelligenza sia per l'uno che per l'altro di questi sommi propositi; e la turba di cortigiani, di mediocrità ignoranti e prosuntuose, di uomini del passato che si assiepano intorno al suo trono, non gli lascia scorgere nè la possibilità nè i modi per affrontare l'una o l'altra, o tuttedue codeste imprese. Vuole e disvuole; ora si rincora, ora si stanca e s'accascia; tenta tenersi preparato per questo e per quello; rinuncia ad ogni cosa; riprende lo sperare e l'agire; ma tace e tutto rinserra nel profondo dell'animo.

«Quell'indole incerta si lascia in balìa degli avvenimenti: forse egli non si deciderà mai e morrà senz'aver fatto nulla, dopo aver vagheggiato tutto, mantenendosi in quella timidità d'atti malgrado la temeraria audacia dei pensieri, se la forza delle circostanze o l'influenza d'una potente volontà non vengono ad esercitare un impulso su di lui. Bisognerebbe quest'impulso produrlo e farsi collaboratori, a sua stessa insaputa, dei suoi segreti, non anco ben precisi intendimenti.

«Il più agevol modo sarebbe quello d'una potente personalità, d'una grande intelligenza che lo accostasse, gli leggesse per entro, prestasse alle sue aspirazioni, forse ancora troppo vaghe, la precisione ed il vigore di concetti politici, lo persuadesse della possibile attuabilità di essi, lo dominasse coll'influsso della verità e coll'autorevolezza del genio. Ma dove trovarla questa eminente intelligenza speciale? Io non la so per ora vedere in Italia. Gioberti è un altissimo e vastissimo intelletto; nella sua un po' confusa filosofia si hanno degli sprazzi luminosissimi di vero; il suo Primato è un'esercitazione rettorica in cui rivive la potenza dei grandi scrittori italiani del cinquecento, in cui la vena immaginosa e ridondante dello stile va fino al paradosso, ma in cui non si mostra per nulla il politico pratico ed effettivo. Questa qualità ha di meglio Cesare Balbo, ma è troppo rimesso e senza le audacie prudenti di nuovi principii. Massimo d'Azeglio stesso è un buon scrittore, un egregio patriota, ma non discerno ancora in lui quelle qualità, che mi sembrano opportune, di operosità intellettiva infaticabile, di prontezza e continuità fecondissima di spedienti, di tenacità e d'unità di pensiero, pure colla varietà infinita delle capacità e dei modi, a seconda delle circostanze, degli uomini, dei casi, il quale, sempre presente a se stesso, tutto volge a benefizio, tutto intende all'ottenimento del suo fine; e su tutto codesto quell'influsso inesplicabile, quel fascino di superiorità che si fa riconoscere da chicchessia, e che anche i malvolenti obbliga a sottostare al predominio del genio. Forse – e voglio sperarlo per la nostra patria5 – quest'uomo esiste nella massa dei nostri concittadini: ma chi sa additarlo? E donde potrebbe il re trarselo ai suoi fianchi consigliatore, ispiratore e ministro?

«Se non l'influsso d'un uomo, rimane allora che il concorso delle circostanze sia quello che mostri la via, che dia la spinta per essa all'animo esitante del nostro re. Possiamo noi crearle queste circostanze? Massimo d'Azeglio, secondo me, ha ragione: noi lo possiamo. E quando dico noi, intendo dire non soltanto i congiurati in nome della libertà, carbonari od altri, non solamente i Piemontesi e Liguri, non solo gli appartenenti alla classe mezzana che sono abbastanza istrutti da apprezzare che cosa sia nazionalità e libertà e da capire che non possedono nè l'una nè l'altra; ma intendo tutti quanti sono italiani da un estremo all'altro della penisola.

«Io sono d'accordo col semplice, ma vero e grandioso concetto di Massimo d'Azeglio: congiura universale, pubblica, aperta, in favore del bene e del progresso. Agire sopra un uomo solo che ha il potere, sarebbe più semplice e più speditivo; ma ce ne mancano i mezzi: agire sopra tutta la massa della nazione è più lungo, ma più sicuramente efficace ancora. Quest'opera ammette, include e comprende un'infinita varietà di mezzi, che tutti poi si raccolgono in una sola parola – una santa parola, amici miei: – Educazione popolare. Chiunque diminuirà non sia pure che d'un centellino l'ignoranza della nostra plebe, avrà lavorato pel bene, per la libertà e per l'emancipazione d'Italia, più certo che non noi coi generosi giuramenti delle nostre segrete congreghe.

Mario Tiburzio accennò parlare; Maurilio fece segno non l'interrompesse, e continuando con più calore, soggiunse:

– Certo l'opera è più umile, ma è di tanto più fruttuosa di bene, poichè possiamo essere certi, quand'anche il propostoci fine da noi non si ottenga, che infiniti vantaggi resteranno nel popolo. Val cento mila volte più una scuola aperta nell'ultimo dei villaggi, che una insurrezione anche vittoriosa. Noi prepareremo un popolo conoscitore de' suoi diritti e scientemente desioso di libertà. Con un popolo tale sarà patriota anche il principe; e se per la lentezza dei progressi Carlo Alberto morrà senza aver potuto sguainar la spada contro l'Austria, legherà a suo figlio la vendetta del suo nome ed il debito della santa guerra.

«Nella nostra insurrezione credete voi d'avere il popolo dalla nostra parte? La parola popolo ha mille sensi; e noi siamo troppo usi ad intendere per essa quelli soltanto che partecipano dei nostri sentimenti e delle nostre opinioni. Io voglio significare l'universalità di quanti sono cittadini, fra cui il maggior numero non si merita ancora che il titolo di plebe. Questa plebe non l'abbiamo con noi; ben disse Massimo d'Azeglio. I nostri interessi patriotici e liberali si agitano al di fuori della sfera di quella misera gente e non la toccano. Ben altra è la quistione che incombe con tirannica pressura su quei diseredati: la questione del pane, la sicurezza della esistenza delle loro famiglie.

«Questa massa di popolazione ha in sè una forza latente di cui è inconscia essa stessa; e da tal forza soltanto noi potremo aver i mezzi da vincere le monarchie e lo straniero e l'attuale ordinamento politico; ma allorquando soltanto questa massa si gettasse volonterosa, confidente, spinta da un evidente suo vantaggio con noi. Invece che vantaggio possiamo noi arrecarle? Che cosa prometterle che poi siamo in grado di mantenere? La libertà? Ma se ella è in tali condizioni di mente da non capire che cosa sia. L'indipendenza della nazione? Sa ella forse che cosa sia una nazione? Domandate al villano piemontese, al cafone napolitano s'egli sia italiano. L'unità della patria? Ma per lui la patria è il campanile del villaggio, è la fangosa strada della sua officina. Come volete ch'egli abbia un amore platonico per quelle sublimi idee che ci commovono, noi che abbiamo studiato? La plebe vi domanderà, prima di scendere ad urtarsi contro il trono cui la tradizione se non altro le ha mostrato a rispettare: – Avrò meno miseria e men lavoro? – Se voi le rispondete affermativamente, mentite; ed ove questa menzogna la persuada, ne sarete puniti di poi tremendamente. Ma il vero è che nè anche se voi le affermaste questo suo riscatto dalla miseria, la plebe onesta non vi crederebbe, e non avreste con voi che la bordaglia ribelle ad ogni autorità, mantenuta nel dovere soltanto dal rigore delle leggi, la quale non vedrebbe in un rivolgimento che la guerra ai ricchi, e non farebbe altro che danneggiare e disonorare la vostra causa.

«La plebe dunque non l'avremo con noi, non bisogna nemmanco pensarci; e senza di essa noi siamo debolissimi nemici alle forze della monarchia…

– Avremo anche la plebe: interruppe Mario. Le cose che voi mi dite, Maurilio, credete voi che io non le abbia pensate? Ho cercato d'aver alleata – e dirò anzi complice – anche quella parte di popolo. In essa pure serpeggia il malcontento, ed il suo malessere presta favorevole occasione alla nostra propaganda. Quando si sta male, torna un vantaggio ogni cambiamento. Vi ha un uomo qui che si afferma – e me ne diede prove incontrastabili – avere sopra la plebe di questa città direttamente o indirettamente autorità grandissima ed impero sicuro. Con quest'uomo mi son posto in istretti rapporti. Sotto certe condizioni egli ci promette il suo appoggio.

– Chi è quest'uomo? Domandò vivamente Maurilio, a cui traverso la mente balenò un sospetto.

– È un essere misterioso che pur vivendo in mezzo alla più elegante società ha strette attinenze coi più bassi fondi della plebe. Nei salotti lo chiamano il dottore Luigi Quercia, nelle taverne dei più miseri cenciosi è conosciuto col nomignolo di Medichino.

– Lui! Esclamò Maurilio. Gian-Luigi?

– Voi lo conoscete?

– Lo conosco.

Maurilio curvò il capo e stette in silenzio, con atteggio di abbandono, come subitamente oppresso da una prepotente invasione di varii e tumultuosi innumeri pensieri.

Tiburzio continuava:

– Nella plebe, specialmente fra certe classi di operai, si intromisero e serpeggiano e già vastamente si dilatarono alcune segrete associazioni simili a queste nostre che hanno per iscopo la indipendenza della patria e la libertà del genere umano. Le associazioni plebee hanno un fine più speciale ai loro interessi: quello di abolir la miseria, di assicurare a tutti che vivono su questa terra i mezzi della loro sussistenza, di por fine agli stenti ed alle privazioni dolorose di tanta parte dell'umanità. Per giungere a codesto, una cosa hanno certa i guidatori di quelle società segrete: che bisogna intanto distruggere il presente regime politico, il quale grava con tutto il suo peso sulle classi povere e ne rende immutabili le sciagurate condizioni. Noi abbiamo quindi questa forza della plebe che incomincia a sobbollire nell'imo del corpo sociale e prepara la sua esplosione. Perchè non ci serviremmo di essa? Come ci siamo accordati tutti quanti siamo amanti di libertà in Italia per unire tutte le nostre forze in una medesimezza d'azione, perchè non ci uniremmo altresì con quella parte di popolo, che giustamente, disse Maurilio, ci può accrescere di tanto le posse contro la monarchia? Ho pensato che questo era non solo un diritto, ma un dovere che avevamo. La plebe recherà a noi la forza del suo numero e delle sue braccia: noi daremo ad essa nel nuovo assetto politico ciò che vuole giustizia, migliori condizioni economiche e sociali. Mi sono accontato con quest'uomo che vi ho detto, – uno strano personaggio in vero, e di una potenza straordinaria d'animo e di parola – e se non è tuttavia conchiuso fra noi l'accordo, siamo prossimi, e confido che non mancheremo di stringerlo.

– Quest'uomo vi ha fatte delle condizioni, avete detto.

– Sì.

– Possiamo saper quali?

– Di due sorta. Alcune personali: accoglierlo lui fra i capi dell'impresa; ottenuto prospero successo, a lui uno dei primi posti nel nuovo ordinamento politico. Certo è un'audace ambizione che parla: ma egli richiede codesto qual guarentigia che saranno mantenuti i patti e procurati gl'interessi della classe ch'ei rappresenta. Non gli si può contraddire del tutto. Alcune altre condizioni sono politiche e sociali: che si darà il diritto di suffragio a tutta la plebe; che si faranno leggi regolatrici del lavoro e del compenso da darvisi, intese a migliorare lo stato degli operai in faccia al capitale; che lo Stato guarentirà sulle imposte prese dai patrimonii dei ricchi la sussistenza dei poveretti che non hanno pane nè mezzi da guadagnarsene; che dei beni di manomorta, e d'una parte di quelli posseduti ora dai ricchi, i quali si vedrebbero togliere tutto ciò che oltrepassa un certo limite d'agiatezza, di tutti questi beni si farebbe un cumulo, una proprietà comune, sociale con cui si provvederebbe ai varii bisogni della povera gente…

– Queste condizioni sono gravi, sono gravissime: disse Romualdo. Le sono prese ad imprestito ai socialisti della vicina Francia, i quali vogliono niente meno che la distruzione della società attuale.

– E sono misere utopie, proruppe Maurilio, che non hanno germe di buon frutto, che possono raggirare pur troppo le menti inesperte della plebe, ma che se mai poste in atto non farebbero capo che alla miseria ed alla rovina universale. Le condizioni economiche e sociali del popolo non si migliorano col violento rimedio delle rivolture. Suscitate questa misera gente che s'accalca nei bassi fondi sociali, scatenatela contro i ricchi; non avrete che un uragano, il quale dopo esser passato non vi lascierà che desolazione e rovine. La plebe avrà vendicato tutti i suoi stenti passati, non avrà nulla creato per impedire i futuri; anzi se li avrà accresciuti. Tutti gli accennati, e tutti quelli che pone innanzi il socialismo francese, sono mezzi fallaci, che mancano di possibilità effettiva, che urtano nei canoni assoluti, e non impunemente violabili, della scienza economica. La quistione sociale pende senza dubbio e inesorabile, sul secolo XIX; ma non è da sciogliersi colla spada d'Alessandro guidata dai sofismi dei comunisti. È il progresso lento e graduato delle istituzioni, è la diffusione dei lumi, è l'aumento cercato e ben diretto della prosperità pubblica, è l'applicazione giusta ed onesta delle buone teorie che regolano la produzione e la distribuzione delle ricchezze; è lo sviluppo del sentimento cristiano della fraternità, del sentimento civile della solidarietà umana, i quali devono ottenere il riscatto delle plebi. Guai, se gettiamo quest'ardente quistione sui serragli dell'insurrezione nelle strade, guai, se facciamo appello alla cieca forza! Sapete che cosa ci risponderà? Le più colpevoli cupidigie, le più inique passioni. Quell'uomo che con voi, Mario, intraprese gli accordi, sapete che cosa rappresenta, che cos'è? È l'invidia di chi non ha verso di chi ha: è la feroce smania di vendicarsi di non essere stato nulla: è l'agonia di imporsi prepotentemente ad una società che vi ha disprezzato, o peggio schiacciato col suo peso passando, come si fa d'un vil verme della terra; è la tirannia del volgo che anela a distruggere quella delle alte classi, per mettersi in sua vece e sfruttare a sua volta il mondo a suo profitto. Fra le due tirannie è meno perniciosa ancora l'esistente.

In questo momento s'udì un fischio particolare suonar nella strada.

– Silenzio! Disse Giovanni Selva; il nostro sibilo…

– A quest'ora! Esclamò Vanardi inquieto. È presto l'una dopo mezzanotte.

– Gli è Benda sicuramente: riprese Giovanni, e corso alla finestra, ne aprì le invetrate. Un vento freddo si cacciò nella camera, fece oscillare benchè difesa dal tubo di vetro la fiamma della lampada, e cacciò un brivido nelle ossa di Maurilio, che tutto si accoccolò presso il camino.

Selva si curvò fuori della finestra. La nebbia era più folta che mai, e nevicava sempre. Un alto silenzio regnava per la notte, le cui tenebre erano rotte appena da qualche raro lampione municipale nella strada, il quale pareva una macchia rossigna nel denso della nebbia.

– Chi va là? Domandò Giovanni.

– Io: rispose la voce un po' alterata di Francesco Benda. Gettami giù la chiave del portone da via che è chiuso. Verrò su: ho bisogno di parlarvi.

– Subito: disse Giovanni ritraendosi dalla finestra per andare a prendere la chiave appesa ad un chiodo insieme colle pipe presso al camino.

– Gli è proprio Benda: diceva intanto Selva agli amici. Quel bravo ragazzo non ha voluto affatto mancare al convegno, sapendo che non si trattava di giuggiole. Giunge a proposito, per dire il suo parere ancor egli.

Selva gettò la chiave in istrada, avviluppatala in una pezzuola bianca; cinque minuti dopo Francesco Benda entrava nella stanza dove stavano raccolti gli amici.

CAPITOLO XIV

Maurilio, appena udito della venuta di Benda, si era stranamente cambiato. Il suo volto si era fatto scuro, le sue guancie pallide, il suo sguardo che brillava vivo per intelligenza s'era spento. Accosciato sopra lo scalino del focolare, egli pareva fuggito via col pensiero di quel luogo e di quel momento le mille miglia lontano. Un'altra preoccupazione sembrava averlo assalito; tutto un altro ordine d'idee avergli presa la mente. Serrava quasi convulsamente le pallide labbra, contraeva i muscoli delle mascelle, come sotto la pressione d'un intimo affanno; e tratto tratto alcune lievi e fugacissime fiamme di rossore gli passavano sul volto e sulla fronte.

Quando Francesco Benda entrò, Maurilio non gli gettò che un ratto sguardo, il quale nulla vide se non che l'acconciatura elegante da ballo in cui il giovane appariva, gettato via il suo pastrano impellicciato. Forse a Maurilio parve che intorno a sè il nuovo arrivato recasse alquanto di quell'ambiente profumato di festa e d'eleganza donde veniva. Forse nel chiudere degli occhi come egli fece, apparve a Maurilio la splendida visione del luogo che Francesco aveva pur allora abbandonato, e in quel luogo pieno di luce, di profumi e d'armonia, la più splendida visione di una forma superba di divina bellezza. Chi avesse potuto cogliere le parole che la subita emozione fece mormorare a Maurilio fra le labbra serrate, avrebbe udito quest'esse:

– Egli viene di là dov'essa era! E' l'ha vista sino adesso! Egli osa parlarle; egli lo può… Egli è ricco, egli è bello!.. Ed io invece?.. Io?..

Ma se Maurilio avesse un po' più attentamente esaminato il volto dell'amico, avrebbe visto che uno straordinario e profondo abbattimento era avvenuto nelle sembianze di Francesco, sì liete e benigne allorquando egli avevagli parlato sullo scalone dell'Accademia Filarmonica.

L'incarnato delle guancie era sparito, le sopracciglia erano corrugate, i lineamenti contratti, lo sguardo acceso, ma di una fiamma che pareva furore; perfino quell'aria di bontà, che dissi affatto naturale alle belle sembianze del giovane, aveva dato luogo ad un'espressione di sdegno profondo. Si vedeva ch'egli era in preda ad un'emozione gravissima cui si sforzava di padroneggiare e dissimulare, ma che tutto lo possedeva.

Strinse con vivacità febbrile le mani degli amici, da quella di Maurilio in fuori, il quale non mosse, come gli altri, all'incontro di lui, e prima che alcuno avesse campo ad interrogarlo, disse con voce di cui invano tentava frenare la concitazione:

– Sono qua ancor io… Tardi non è vero?.. Ma che volete? Certe schiavitù di usi sociali… E poi ben sapete che qualunque cosa decidiate io sarò sempre con voi. L'avevo detto a Selva… Però ad un punto la vergogna ed il rimorso mi colsero… Ebbi bisogno di partecipare alle vostre risoluzioni… ebbi bisogno di vedervi… di venirvi a stringere la mano… di ritemprarmi ai forti propositi col vostro contatto… Là donde vengo, in quella affatturata congrega che è il mondo elegante, si respira un'aura corruttrice che vi snerva a vi accascia… Per esso ho troppo sinora trascurato voi e la grand'opera vostra e i miei doveri di cittadino. Perdonatemi. Eccomi ora tutto a voi. Che cosa fu deciso? Siamo noi finalmente alle opere? Di parole ne abbiamo già dette troppe. È tempo di fatti, mi sembra. Orsù ditemi che mi tocchi di fare; assegnatemi qualunque còmpito, vedrete se io vi mancherò.

Parlava a balzi, vibrato, come uomo in cui il sangue batte in sussulto nelle vene e il cuore palpita violento.

Giovanni Selva in poche parole lo informò di quanto in tutta la serata si fosse detto, e di quanto stavasi pur allora discutendo.

– Mario Tiburzio ha ragione: esclamò Francesco Benda con violenza. Questa schiavitù è troppo vergognosa oramai a sopportare. Qualunque cosa si faccia, ma si scuota il giogo. Vengano in aiuto, non che le masse della plebe, ma le legioni dell'inferno, che saranno le bene accolte. Abbasso questo regime di privilegi; abbasso questa nobiltà superba che ne oltraggia; abbasso questa prepotenza di militari e di cortigiani, di carabinieri e di parassiti del popolo che ne umiliano, e, vivendo di noi, si credono dappiù di noi e si arrogano il diritto di calpestarci. Io do il mio suffragio a Mario Tiburzio. Finiamola pur una volta.

Maurilio si alzò dal suo posto e venne pian piano verso Francesco, guardandolo attentamente. Vide l'emozione profonda e nuova dell'amico, e ne suppose la causa. Quando fu rimpetto a Benda, gli mise una mano sulla spalla e gli disse con accento pieno d'amorevole interesse:

– A te è capitato pur mo' qualche scontrosa faccenda. Tu hai avuto ad urtarti con questa oltracotanza, cui sì vivamente proclami ora intollerabile…

– Ebben sì: proruppe Francesco. A me accadde il peggio oltraggio e la più scellerata prepotenza onde possa esser fatto segno un uomo onorevole…

Si fece rosso in volto come bragia, gli occhi suoi balenarono d'un'ardentissima fiamma e le vene della fronte gli divennero turgide.

– Udite, udite tutti, e rispondetemi se simile infame affronto si possa lavare altro che col sangue… Un impertinente di nobile… non ha guari… adess'adesso… in presenza d'un migliaio di persone… di signore e di cavalieri… mi ha percosso qui, su questa guancia col suo guanto…

Le lagrime gl'inumidirono gli occhi, si coprì colle mani la faccia, mandò un gemito e si lasciò cadere sulla seggiola vicina in preda al suo fierissimo turbamento.

I suoi amici, da Mario e da Maurilio in fuori, gettarono un grido di stupore e d'indignazione.

– Chi è questo scellerato? Domandò Giovanni Selva.

– Come avvenne codesto? Disse Romualdo.

– Perchè? A qual occasione? Interrogò Vanardi.

Benda ricacciò indietro quelle lagrime di sdegno che s'arrabbiava di sentir colare, premette sulle occhiaie e sulle guancie le sue mani contratte, levò il viso più fortemente sdegnoso di prima e disse con voce tremante dall'ira la più profonda:

– Chi è? Non conoscete voi tutti il brillante marchesino di Baldissero? Quell'impertinente che si vanta di trattare cavalli, cani e uomini del popolo nella stessa maniera, collo scudiscio?.. Il mondo, e' si vuol fatto tutto per questa razza di gente. Noi abbiamo da essere i loro servi, i loro giuocatoli; Carabinieri e polizia son lì per mantenerci in questa bella parte… Hanno il sangue azzurro loro!.. A loro tutto è permesso. Noi non abbiamo che da curvarci e lasciarci percuotere… Giuraddio!.. È tempo che ciò finisca!.. Quel giovinastro incominciò per oltraggiarmi fieramente con parole e col contegno. Non chiedetemene i particolari. Gli risposi – e non potevo a meno – che era un incivile. Si volse verso me, non in furore, ma colla calma d'un uomo che castiga il suo botolo che gli ha disobbedito, e col guanto che teneva nella mano snudata, mi colpì sul viso. L'atto era per me così inaspettato che non potei nemmanco ripararmi il colpo…

Il povero Francesco dirugginò i denti e si battè coi pugni chiusi la fronte.

– Sì, continuò egli con voce ansimante, sì fui percosso sul viso là, in quella tanta luce, innanzi a quei tanti sguardi. Oh che cosa avreste fatto voi altri se una tanta vergogna vi fosse stata inflitta? Io mi sentii girare la testa; una nebbia scura mi venne innanzi agli occhi, con un scintillio tramezzo d'infuocate faville; negli orecchi avevo un ronzio che mi pareva composto di mille sogghigni di scherno; non vidi più distintamente per un istante innanzi a me che quella faccia impertinente che ghignava colle labbra tirate. Lo afferrai pel collo. Un grido di voci femminili si alzò intorno a me. Fra queste voci ne distinsi una che ha su me un assoluto impero. Ciò mi tolse la forza e mi fece rientrare in me. Che avvenisse allora, non so bene. S'intromise della gente; pronunziai e ricevetti in iscambio delle parole di disfida; mi ricordo aver visto il conte Sanluca che conduceva seco il marchesino da una parte, mentre il dott. Quercia trascinava me dall'altra. Non sentivo più in me che una gran confusione. Mi pareva di sentire su me lo sguardo sprezzoso di certi occhi superbi, e non osavo più levare i miei. Quercia mi condusse in un salottino appartato.

« – E adesso che cosa volete fare? Mi domandò.

« – Voglio ampia soddisfazione: risposi. Appena sia giorno voglio battermi con quell'indegno. Oh! lo ammazzerò.

«Quercia mi propose di farmi da secondo e di combinare le cose relative ad un serio e sollecito duello. Lo ringraziai di tutto cuore. Volevo partire di colà, dove lo spazzo mi pareva m'abbruciasse i piedi. Il dottore me ne sconsigliò.

« – Perchè cedere così il campo? diss'egli. Sarebbe quasi un confessare il vostro torto e la vostra sconfitta. Il marchesino non partirà, egli, ma scorrerà a mostrare per le sale il trionfo della sua impertinenza. Rinfrancate anche voi il vostro aspetto, prendete l'aria più calma e più sicura che possiate e venite di nuovo in mezzo a quella turba a sfidare audacemente colla vostra presenza le mormorazioni e gli scherni. Li farete tacere, ed è tanto di guadagnato. Se alcuno v'interroga sull'accaduto, preparatevi un buon motto da rispondere, in cui si contenga un epigramma pel signor marchese, e quando v'incontrate con esso, fissatelo fermamente in viso, sforzandovi a frenare la collera, senza essere troppo provocante, ma guardandovi bene dal chinar gli occhi innanzi ai suoi.

«Compresi che Quercia aveva ragione. Mi feci calmo per quanto potei, e tornai nelle sale affollate. Innanzi a me sentivo interrompersi i discorsi o finire in bisbiglio al mio passaggio; alcuni timorosi mi sfuggirono; altri si mostravano molto stupiti della mia audacia. Vi fu chi mi consigliò a partirmene di tutta fretta.

« – Non sapete che il vostro è un caso serio? Mi si disse. Avete portato la mano sopra un dignitario di Corte in un luogo dove c'è di presenza S. M., e che quindi è diventato come il Palazzo Reale: oh! non v'è da scherzare.

«Che cosa importava a me della presenza di S. M.! Era il marchese che primo era trasceso ad eccessi. Io non aveva fatto che difendermi. Fossi anche stato davvero nel palazzo del re, anche nella sua camera medesima sotto i suoi occhi, se un prepotente mi avesse oltraggiato di quella guisa, avrei avuto ogni diritto di propulsare l'offesa e nessuno, per Dio, avrebbe potuto frenarmi.

«Alcuni pochi mi vennero a stringere la mano. Nella gran sala vidi da lungi il mio avversario: era col suo amico Sanluca e collo zio di quest'ultimo il conte Barranchi, il comandante generale dei Carabinieri e capo della polizia. Parlavano animatamente: certo del fatto intravvenuto. Baldissero rideva con fatua insolenza; Sanluca narrava con calore cose che parevano destare una forte sorpresa e una maggiore indegnazione nel Generale dei Carabinieri. Al vedermi il marchesino fece un brusco movimento tosto represso, e il suo riso si ghiacciò sulle labbra. Sanluca, accortosi del cambiamento dell'amico, ne seguì la direzione dello sguardo e trovò me a capo della sala, che guardavo, lascio a voi pensare come. Disse alcune parole all'orecchio dello zio, accennando cogli occhi al luogo dove io era. Il conte Barranchi volse verso di me la sua faccia scura da poliziotto; vidi nel suo sguardo una minaccia; mi piantai fermo coi piedi dove mi trovavo, e mi promisi che non mi sarei mosso di là, finchè quei cotali fossero stati a guardarmi.

«Il Generale disse qualche paroletta a Sanluca, il quale si affrettò ad allontanarsi. Non cessavo di tener gli occhi fissi sul conte e sul marchese; quest'ultimo ostentava di non far la menoma attenzione a me: lo zio di Sanluca mi fulminava colle sue più tremende occhiate. Poco stante vidi il nipote tornar presso allo zio insieme con un ufficiale dei Carabinieri in gran montura. Il conte Barranchi disse a quest'ultimo poche ed asciutte parole che parevano un comando, accennando a me con un moto della testa. L'ufficiale volse gli occhi nella mia direzione, fece un inchino come per dire che aveva compreso ed avrebbe obbedito, e si allontanò. Bene avevo capito che si trattava di me, ma che cosa mi si volesse, non sapevo indovinare. Due minuti dopo l'ufficiale dei carabinieri essendosi fatto strada in mezzo alla gente, giungeva presso di me.

« – È lei l'avvocato Benda? Mi domandava col piglio altezzoso di un superiore che parla ad un subalterno.

5.Maurilio aveva ragione. Quest'uomo esisteva già nelle file della nazione: ed era lo allora ignoto – anzi, peggio che ignoto, malvisto – Camillo Cavour. Se questi fosse stato ministro di Carlo Alberto a quei tempi, chi sa quante cose a benefizio del Piemonte prima, dell'Italia poi non si sarebbero allora compiute!
Vanusepiirang:
12+
Ilmumiskuupäev Litres'is:
30 juuni 2017
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560 lk 1 illustratsioon
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