Loe raamatut: «La plebe, parte II»
CAPITOLO I
Ad un lembo estremo della città, verso il fiume, delle cui acque si serviva per forza motrice, siedeva la fiorente officina di lavori di ferro dei signori Giacomo Benda e comp.
Verso la strada, fiancheggiata dai viali di olmi che cingevano da ogni parte Torino, sorgeva la casa in cui abitavano la famiglia del principale ed alcuni dei primi capi-officina, de' quali due erano a parte, secondo una certa misura, nei guadagni dell'impresa.
Attraversato un cortile, nel cui mezzo eravi uno strato di erba ed alcuni alberi che nella bella stagione rallegravan la vista col verde delle loro fronde, trovavasi il vasto, oblungo, affumicato casamento in cui erano le varie officine che tutto il giorno mandavano per gli alti camini il denso fumo del coke e per le numerose e larghe finestrone l'incessante rumore del lavoro.
Alla destra di questo cortile stavano le rimesse ampie e ben costrutte, dove, insieme con i diversi carri necessari allo stabilimento pel trasporto delle merci, eranvi pure una modesta ma comoda carrozza per la famiglia, un elegante tilbury, che il ricco industriale aveva regalato al suo figliuolo avvocato, unico di maschi, ed una tromba idraulica, opportuna cautela pei casi d'incendio.
Di faccia si trovavano le scuderie, nelle quali, oltre i cavalli forti e robusti da attaccarsi ai carri di trasporto, facevano bella mostra di sè colle loro fine e svelte forme alcuni cavalli di prezzo che servivano al giovane avvocato da sella e pel tilbury.
Per ora non esamineremo la officina. Mentre noi ci intromettiamo in questi locali sono presto le quattro mattutine di una fredda notte d'inverno, in cui lenta ed abbondante fiocca sopra Torino la neve. Il casamento dei laboratorii dorme, per dir così, in una compiuta oscurità sotto la guardia di due mastini che, abbaiando ad ogni menomo rumore, girano per la neve, la quale copre il selciato del cortile. Avremo forse occasione di entrare colà dentro di poi per andarvi ad assistere ad alcune delle scene del nostro racconto.
Anche la casa di abitazione della famiglia Benda è avvolta nell'oscurità, eccetto che due fiochi raggi di luce filtrano da due finestre, trammezzo alle imposte rabbattute. Una di queste finestre è al pian terreno presso al portone, ed è quella della stanza del portinaio; l'altra è al piano superiore verso l'angolo della casa, a destra di chi vi accede.
Un giovane di belle forme avviluppato in un pastrano impellicciato viene pel viale verso la casa di cui ho detto. La sua andatura dinota in lui un forte turbamento morale. Ora cammina a passi speditissimi, come uomo cui preme giungere dov'è diretto; ora invece il suo piede si rallenta come di chi si reca in alcun luogo di troppo mala voglia; ed ora si arresta del tutto tenendo le scarpine lucide da ballo, di cui è calzato, nella fredda umidità della neve senza punto badarci. Tronche parole ed esclamazioni gli escono tratto tratto dalle labbra frementi, a dinotare come una qualche soverchia passione gli occupi l'animo; e gesti violenti, quasi di minaccia, accompagnano le sue voci interrotte.
A seconda che egli si veniva avvicinando alla casa, le esitazioni parevano crescere. Chi gli fosse stato presso avrebbe potuto udirlo ad un punto pronunziare le seguenti parole, fissando il suo sguardo sulla casa che oramai gli si mostrava distintamente, anche nello scuro di quella notte invernale, fra le roste assecchite degli alberi:
– Potessi rientrare senza che mia madre mi udisse! Con qual fronte vederla? Come avere il coraggio di darle tranquillamente il saluto ed il bacio? Essa certo mi leggerà nel viso il mio turbamento; e che cosa dirle? Povera madre mia! Se sapesse la verità!.. E se mai domani mi succedesse disgrazia!..
Si fermò sui due piedi, sentendo la sua passione, che era un complesso di varii sentimenti, tutta fondersi in una potente commozione che gli mandava le lagrime agli occhi.
– Ella mi ama tanto!.. Ed anche mio padre!.. Ah, se voglio aver coraggio, bisogna che non li veda…
In quella vennero a ferirgli lo sguardo i due raggi di luce che partivano dalle finestre che ho detto.
Egli fissò i suoi occhi rimbamboliti su quella del primo piano, con una espressione d'immenso affetto. Era la finestra della camera di sua madre.
– La mi aspetta come sempre!.. S'io non sono rientrato in casa, la buona mamma non può riposar tranquilla… E s'io non avessi da rientrar più mai?!..
Un brivido gli corse per tutto il corpo; stette un poco immobile ove si trovava, come senza risoluzione di sorta; poi si passò le mani sulla faccia quasi per condurre l'usata calma sui suoi lineamenti conturbati, e disse seco stesso:
– Andiamo; farò di tutto per non farmi sentire, e s'ella pure mi ode, allora, viso fermo, e metterò l'espressione della mia fisionomia in conto della stanchezza, del sonno e d'una leggiera indisposizione.
Camminò risolutamente verso la casa; giunto al portone, trasse fuori di tasca la chiave ed aprì con ogni maggior cautela per non far rumore, quindi per lo sportello s'intromise chetamente; ma i cani abbaiarono ed il portiere che vegliava si mosse.
– Chi va là? Gridò egli con voce stentorea dall'interno della sua stanza che si trovava a destra del portone, e tosto dopo la sua grande e grossa persona comparve sul passo dell'uscio, tutto avvolta in un vecchio, lungo pastranone, con una lucerna da una mano ed un buon randello dall'altra.
– Zitto Bastiano: disse il giovane entrato, nel riconoscere il quale i cani già si erano acchetati e gli facevano festa; non far rumore, sono io.
– Che? Gli è Lei sor avvocato? A piedi e tutto solo! E la carrozza?
– Ah! la carrozza… Esclamò il giovane, come ricordandosi allora di cosa che avesse affatto dimenticata. L'ho lasciata là in piazza ad aspettarmi. Avevo bisogno di prender aria, e son venuto a piedi.
– Biagio non sa dunque niente ch'Ella sia qui?.. Ed è capace di star là fino a mezzogiorno.
– È vero… Povero Biagio! Disse il giovane con tono di rincrescimento. Sì che la notte è fredda! Non ci ho pensato… Vuoi farmi un piacere Bastiano?
– Comandi.
– Corri in Piazza S. Carlo e cerca di quel povero diavolo: digli come io sia già rientrato e fallo venire a casa.
– Subito.
– Mi rincresce farti prendere questo freddo…
– Che? La mi burla. Tanto tanto ero deciso di star su tutta notte per aspettar che la carrozza rientrasse affine di aprire il portone. Correrò per la strada e mi scalderà ancor di più che non a stare accoccolato presso il mio caminetto.
– Da bravo!.. E per iscalducciarti di meglio, to' qualche cosa da berne un bicchierino.
Pose in mano del portinaio che riluttava un bello scudo d'argento.
– Ma no: esclamava Bastiano. Si figuri se gli occorre, sor Francesco… Sor avvocato, voglio dire.
– Chiamami pure semplicemente Francesco; mi è più caro…
– O sor Francesco, o sor avvocato, per Lei, come per tutta la sua famiglia, già lo sa, io mi getterei nel fuoco al menomo cenno, altro che andare a scalpitare un po' di neve…
E voleva respingere ancora la moneta che il padroncino lo costrinse a ritenere.
– Come la vuole, e grazie mille. Vado a farle lume su per la scala e poi corro laggiù.
– Vai, vai pure. Io monterò su per la scaletta piano piano, e su nella stanza di passaggio troverò preparato lume e zolfini.
Il portinaio entrò nella sua loggia, depose la lanterna, si calcò in testa un cappellaccio e tirato su il bavero del suo pastranone, una pipa accesa in bocca, il suo buon randello in mano, uscì del portone e chiuso dietro sè lo sportello con un colpo che rimbombò per tutta la casa.
– Il grossolano! Borbottò fra i denti Francesco, che con passo leggerissimo saliva su della scaletta di servizio, cercando di fare il meno rumore che si potesse. Se mia madre non mi avesse udito entrare, ecco che questo fracasso la mette in sull'avviso, od almeno nella curiosità di sapere chi sia venuto. Come fare a sottrarmi alla sua vista?
Seguitò a salire colle stesse cautele. Quando fu sul pianerottolo, benchè fosse scuro, andò, pratico qual egli era, ad una mensola appoggiata alla parete in un angolo, e vi prese il lume che si trovava colà preparato secondo suo ordine, non volendo egli che nessuno dei servi stesse a vegliare per lui. Ma nel punto ch'egli era per soffregare il fiammifero, udì nell'interno dell'appartamento una porta e poi un'altra, che s'aprivano pianamente, e un passo lievissimo che veniva a quella volta. Il sangue gli diede un rimescolo.
– Ecco mia madre! Diss'egli restando lì collo zolfino dall'una mano e colla candela dall'altra, senza più muovere.
Pensò di fuggirsene cheto cheto allo scuro per non lasciarsi cogliere a quel posto; ma poi subito avvisò che la madre, poichè dubitava che fosse il figliuolo quello che era entrato, sarebbe andata a cercare di lui anche nelle camere che gli servivano da quartiere. E poi, ove anche si fosse allora sottratto alla vista di lei, la povera madre, credendolo non ancora venuto, avrebbe continuato a vegliare aspettandolo, e quando la carrozza sarebbe giunta che inquietudine per essa a sapere che la era tornata vuota, che il figliuolo avrebbe già dovuto essere in casa, ed ella non l'aveva visto, ed egli non erasi recato, come n'aveva l'abitudine, a darle il bacio del ritorno! Decise di affrontare il pericolo. L'uscio da cui s'era sentito venire il rumore di passi, prima che Francesco avesse acceso il lume, si aprì, e comparve una donna che recava un candeliere. Ma, non avendo essa riparata colla mano la fiammella della candela, il buffo dell'aria fredda che dal pianerottolo, per il battente aperto, si gettò nell'appartamento, glie la spense nell'atto medesimo che la donna si affacciava all'uscio.
In quel fugacissimo istante in cui la candela accesa aveva gettato il suo chiarore nel pianerottolo, prima di spegnersi, la madre aveva travisto dritta in mezzo alla stanza l'ombra d'un uomo. Camminò verso quella parte colle mani tese innanzi a sè, come per afferrare quella diletta persona.
– Sei tu Francesco? Diss'ella.
Il giovane esitò un momentino. Si rallegrò quasi che intanto la madre non potesse scorgerne subito i tratti del viso, e stette un poco per preparare la sua voce ad una calma tale che nulla nulla lasciasse sospettare.
Ma la donna non ottenendo così tosto risposta, ridomandò più sollecita ancora:
– Sei tu?
Francesco si sforzò di dare alla sua voce un accento scherzoso:
– No, mamma, non sono io, sono un ladro.
La madre era arrivata a toccarne i panni. Lo strinse fra le sue braccia e lo baciò con ardore:
– Cattivo! Diss'ella. Ve' come sei tutto bagnato, e come son fredde le tue guancie!.. Ora capisco perchè non ho sentito entrar la carrozza. Tu sei venuto a piedi? Ma che pazzia la è codesta! A rischio di pigliarti una costipazione…
– Oibò!.. Anzi uscendo dall'ambiente soffocante del ballo, avevo bisogno di prendere un po' d'aria.
– Baie! baie! Colà dentro un caldo da fondere e fuori un freddo da gelare… Roba da restar lì proprio come un sorbetto!.. Ed io che ti tengo qui in novelle, allo scuro ed all'aria ghiaccia della notte!.. Vieni, vieni meco nella mia stanza che ci ho acceso un bel fuoco a cui potrai scaldarti. L'ho fatto accendere, il fuoco, anche nella tua camera, e ci sono andata io stessa parecchie volte a tenerlo su animato; ma poichè ti ho colto lì in sull'entrare, mi è più caro che tu venga a riscaldarti al mio camino. Ci ho costì una cuccuma di caffè che ti aspetta ed un pentolino di brodo: tu piglierai quello che più ti talenta.
E così dicendo, l'amorosa madre aveva preso per la mano il suo Francesco e l'aveva seco tratto nella propria camera, facendogli attraversare, prima un corridoio, poi una specie d'anticamera, quindi una stanza da mangiare ed una sala.
Nella camera da letto della madre splendeva entro il camino allegramente il fuoco vivace, e sopra un tavolino da lavoro, presso il camino medesimo, una lampada col coprilume mandava quel mite chiarore di cui alcuni raggi trapelando pei cristalli della finestra, erano stati visti da Francesco al di fuori.
Questa camera, chi sapesse osservarla, era tutta una manifestazione del carattere e delle condizioni di chi l'abitava. La ricchezza dei mobili e degli arredi cominciava per dire la prosperità delle fortune; ma l'assembramento di cose disparate e una certa mancanza di gusto nell'assortire le varie parti della masserizia, mostravano che l'abitudine di godere dei vantaggi e delle sontuosità della ricchezza non era da lungo tempo acquistata, non era uguale a quella di chi è nato in essa dopo varie generazioni di suoi maggiori che già ne fruivano, e si è allevato, come nel suo ambiente naturale, in mezzo agli sfarzi ed agli sbarbagli delle eleganze sociali. A canto a mobili di prezzo costosissimo, adorni di intarsiature di legni di valore e di fregi di bronzo dorato, vedevansi arnesi ed utensili di domestico uso, rozzi e volgari, un arcolaio, un aspo, una rocca sul filatoio con suvvi il pennecchio, una cesta comune di vimini con dentrovi pannolini alla rinfusa da cucire, un cuscinetto per lavoro da pochi quattrini, uno scaldino da piedi logoro e di forma antiquata; poi appiccata alla parete, sopra il letto, fra gli arazzi dell'elegante cortinaggio, l'incisione grossolana d'una immagine miracolosa di Madonna e un acquasantino di cristallo con una palma ed un rosario a grani di legno. Nella parete in faccia al letto, in una brillante cornice rindorata di fresco un ritratto d'uomo di età matura, che è quello del marito, ai due lati due altri ritratti d'un bambino e d'una bambina, che erano del figliuolo Francesco e della figliuola Maria quando ancora in età infantile. Questi ritratti lucevano di molto per vernice e colori, ma chiamarli opere d'arte era un adularli soverchiamente; pur tuttavia alla buona madre, che di arte non se ne intendeva e non si curava nulla, erano le cose più care del mondo. In questi oggetti era tutta rappresentata la storia di quella eccellente creatura: la storia e gli affetti. Questi si concentravano tutti nella famiglia, quella si contava in due parole.
Era nata nella povera, onestissima famiglia d'un impiegato. Doveva, pel decoro, tenere le apparenze da madamigella, ed era più povera d'un'operaia: portava il cappellino e la veste di mussolina la domenica, e molte volte non aveva nè anco pane asciutto a colezione. Non aveva imparato di nulla che importasse oltre i lavori femminili: nè storia, nè geografia, nè manco la propria lingua; appena era se sapeva scrivere senza troppo rispetto all'ortografia ed alla sintassi, ma aveva preso per due mesi lezioni di danza le quali non le avevano fatto imparare che a far la riverenza con tutte le regole dell'arte. Era però instancabile nel lavoro: tutti i punti di cucito che v'era da dare per la numerosa famiglia erano dati dalla sua mano alacre e sempre in moto; lei filare, lei far calze, lei stirare, lei rammendare, lei tutto. Era la più virtuosa delle ragazze senza spirito; e non era brutta. Si meritava la felice sorte d'un buon matrimonio, e l'azzardo, che non è sempre ingiusto, glie lo fece ottenere. Un amico comune mise in relazione la famiglia dell'impiegato e il signor Giacomo Benda, scapolo oramai in sulla maturanza degli anni, al quale l'età crescente cominciava a rendere uggiosa la vita da solo, faticoso il lavoro ed arida l'occupazione di guadagnar denaro soltanto per sè. Il signor Benda, non più giovane, ma non vecchio ancora, onestissimo e ricco, era il partito il più lusinghiero che potesse desiderarsi per madamigella Teresa e per la sua famiglia. Figuratevi se fu accettato! La fortunata madama Benda si trovò dall'oggi al domani ricca sfondolata; e non salì in superbia, e non si piacque dello spendere a capriccio e fuor di luogo, e non volle procurarsi tutti i sollazzi che dà il mondo in cambio di denari, sollazzi dai quali ella era stata scevra sino allora.
Fu madre, ed il marito e i due figliuoli (Francesco e Maria) che n'ebbe, occuparono tutto il suo cuore. Aveva presa l'abitudine di lavorar molto, e non la smise. Poteva servirsi dell'opera di quante fanti e mercenarie volesse; preferiva far tutto colle sue mani, e cuciva ancora, e stirava, e faceva calze, e filava persino, come prima. Le cose fatte da sè trovava meglio fatte ed erano più presto compite: ed aveva ogni ragione, e del suo parere erano anche gli altri, suo marito pel primo, al quale rincresceva sì alquanto di veder sua moglie lavorare come una proletaria o poco meno, e ne la rampognava di belle volte, ma che intanto non trovava mai le cose ammodo se donna Teresa non ci aveva posto mano. Aveva molta religione: la religione delle donnicciuole e degli animi pusilli è vero, la religione un po' idolatra delle minutezze del culto esteriore; ma anche in codesto le impedivano di essere gretta e intollerante, due cose: la profonda bontà dell'animo e l'amoroso rispetto che aveva pel marito un po' libero pensatore. Come aveva continuato a levarsi la mattina all'alba ed a lavorare della guisa che faceva quando era povera, così aveva continuato a prestare poca attenzione al suo vestire. Altrettanto ci teneva che la sua figliuola Maria fosse elegante, altrettanto si dava poco pensiero di sè; e doveva essere la figlia, o il figliuolo, o il marito a costringerla di vestire nelle volute circostanze secondo le condizioni della famiglia. Ora che ci viene innanzi, ella ci appare avvolta a bardosso d'una guarnacca scura, con suvvi un giaco di grosso panno ed al collo un fazzoletto di cotone male attorcigliato, così che, in vece della signora del luogo, uom la prenderebbe facilmente per l'ultima delle fanti della casa.
La signora Teresa, appena entrata in istanza, si affrettò a levare dalle spalle del figliuolo l'umido pastrano, e traendolo amorosamente verso una poltrona che si trovava in faccia al fuoco divampante, ve lo fece sedere.
– Costì: diss'ella, e rasciugati un po' i piedi a questa bella fiamma. Ve' che giudizio, per un tempaccio simile far sì lunga strada a piedi con di scarpe come queste, sottili come una pellicola d'aglio.
E Francesco di rimbalzo, sforzandosi sempre a parer gaio e scherzoso:
– E ve' da parte tua, mamma, che giudizio a star levata tutta notte a questa stagione, per che cosa? Per aspettare un figliuolo che non ha più i lattaiuoli e il quale s'è andato a divertire.
– Oh! io, la è un altro paio di maniche… Prima di tutto io non posso fare diversamente… Che cosa varrebbe che mi mettessi a letto? Tanto e tanto nè potrei chiuder occhio, nè manco starmene ferma e tranquilla. Che cosa vuoi? Le son cose che le capisce soltanto una madre. Finchè tutti quelli della mia piccola famiglia, non sono rientrati nel nostro domestico tetto; finchè non li so tranquillamente coricati tutti, io non posso aver quiete. È una cosa puerile, assurda, tutto quello che vuoi; ma mille paure mi assalgono. Mi pare che qualche brutto avvenimento li può cogliere; che la disgrazia può approfittarsi di ciò che non siamo uniti per piombare addosso a quello che manca.
Queste parole della madre erano troppo corrispondenti alla verità del caso avvenuto a Francesco, cui egli voleva ad ogni patto nascondere alla povera donna, perchè il giovane non fosse assalito da una subita dolorosa emozione. Si volse in là per nascondere alla madre il turbamento della sua faccia, ma tanto non potè reprimere il suo affanno che un doloroso sospiro non gli uscisse dalle labbra.
Alla signora Teresa non isfuggì questo sospiro.
– Che cos'hai? diss'ella vivacemente, levando la testa e lo sguardo sul volto del figliuolo.
– Io?.. Nulla. Che cosa vuoi che abbia? Sono stanco, assonnato… To', poichè vedo la cuccuma lì, prenderei volentieri un po' di caffè.
Il coprilume della lampada impediva che sul volto di Francesco percotesse tanta luce da distinguerne la pallidezza; poi la buona donna, volendo affrettarsi a soddisfare il desiderio del figliuolo, si precipitò verso il camino a mettere la polvere del caffè nella cuccuma in cui l'acqua bolliva. Per quella volta il giovane ottenne ancora il suo intento.
– Ti sei tu ben divertito a codesta festa? domandava intanto la madre, curva sul fuoco, curando che il caffè bollisse a dovere senza traboccar nelle ceneri.
– Sì, sì, molto: rispose Francesco, cercando sempre di dare alla voce il suo tono naturale.
– C'era molta gente, non è vero? E che lusso neh? Ci saranno state tutte le belle signore di Torino.
– Sicuro… Una confusione di gente da non poter trovar luogo nè da stare, nè da respirare.
– A proposito di bellezze, c'era ella quella nobilissima signorina che fu compagna di Maria nel poco tempo che tua sorella stette nel convitto del Sacro Cuore, madamigella?.. Com'è già che si chiama?
Francesco ebbe una lieve contrazione del viso che indicava quanto quella domanda lo turbasse: non ebbe forza a rispondere di subito. La madre, credendo che il figliuolo non avesse compreso di chi ella voleva parlare, si volse indietro del capo, mentre seguitava a star curva presso il fuoco e soggiunse:
– Sai bene quel fior di bellezza, la nipote del marchese di Baldissero?
Francesco fece uno sforzo su se medesimo, e rispose come se gli si parlasse d'una cosa indifferente.
– Sì, sì: madamigella Virginia di Castelletto. La ci era… – Si fermò un istante e gli sfuggì un lieve sospiro, poi soggiunse: – … E più bella che mai.
La madre si alzò colla caffettiera in mano, versò in una chicchera il liquido fumante, e messovi dentro lo zucchero, venne presso al giovane agitando il cucchiarino.
– To', Cecchino, e dimmi se l'ho saputo fare al solito secondo il tuo gusto.
– Eccellentissimo: disse il figliuolo, appena ne ebbe preso un sorso: eccellentissimo come sempre.
Bevette, poi rimise la tazza nelle mani della madre; mentre questa andò a riporla sopra la tavola di marmo d'una mensola, Francesco s'alzò da sedere, si passò la mano sulla fronte, ed afferrato il suo mantello, se lo gettò sull'avanbraccio sinistro.
– Addio mamma, diss'egli, mettiti a letto e fa di dormir bene.
– Vai già? Domandò la signora Teresa che, posata in fretta la tazza, si volse vivacemente verso il figliuolo.
– Sono stanco, ho bisogno di riposare ancor io… Dàmmi un bacio, mamma.
Nel dire queste parole, la voce del giovane tremò un pochino. Teresa se ne accorse, fe' rattamente saltar via di sopra la lampada il coprilume e d'un balzo fu presso il figliuolo, le sue mani sulle spalle di lui, il volto innanzi al volto, gli occhi entro gli occhi. Vide allora il pallore di Francesco, vide i tratti accusare un turbamento interno che invano e' si sforzava nascondere, vide la nube di mestizia che ne copriva la bella fronte, ordinariamente così serena, seggio della sincerità.
– Tu hai qualche cosa, Francesco? Di certo t'è capitato alcun che? Oh che cos'hai?
Il giovane scosse il capo in segno negativo, non fidandosi abbastanza della fermezza della sua voce.
– Forse non ti senti bene?
Francesco avvisò che fra i motivi d'inquietudine per la buona madre, questo della salute era ancora minore d'assai di quello che sarebbe stato il conoscere la verità, e tostamente si decise di accettare la scappatoia che così gli veniva offerta.
– Gli è ciò: diss'egli. Non mi sento del tutto bene… Ma l'è una cosa da nulla, si affrettò a soggiungere. Il gran caldo di quelle sale, la luce soverchia, i profumi mi hanno dato un po' alla testa.
– Santa Madonna della Consolata! Esclamò la buona madre tutto già l'animo sottosopra. Ecco! Hai voluto venirne a piedi, ti sarai presa una costipazione…
– Ma no, ma no…
– Ed io che invece di lasciarti andare subito a coricare ti tengo qui!.. Presto presto che prendo lo scaldaletto e ti vado a metter sotto le coltri.
Il figliuolo volle dissentire, pregò la madre di rimanersi nella camera sua e di non farne nulla; ma ogni sua parola fu inutile, Teresa pose nello scaldaletto tutta la bragia che c'era nel suo camino, spinse Francesco nella camera ove dormiva, lo sollecitò aiutandolo a spogliarsi, e non lo lasciò più, finchè non lo vide colle coltri fin sopra le orecchie.
Prima di ritirarsi, e Francesco la pregava di andare a letto ancor essa senza ritardo, ch'egli si sentiva un gran sonno, Teresa depose un bacio amorosissimo sulla fronte del figliuolo, e gli disse:
– Dormi bene; se hai bisogno di qualche cosa, suona che io sarò qui subito.
– Sì, sì, grazie; ma non avrò bisogno di nulla. Dormi bene anche tu mamma. Fra poche ore sarò guarito.
La madre uscì su queste parole.
Francesco le tenne dietro collo sguardo pieno di amore, e quando essa ebbe chiuso l'uscio alle sue spalle il giovane sorse a sedere sul letto.
– Fra poche ore: diss'egli. Chi sa che cosa sarà di me?
Stette così un poco, immobile, sovrappreso dal tristo pensiero, poi sentendosi intirizzire dal freddo della notte, si riscosse, saltò giù dal letto ed acceso un lume si vestì di fretta. In quel punto rientrava la carrozza ch'egli aveva mandato a cercare dal portiere. Francesco guardò l'ora: erano le cinque meno un quarto.
– Ho più di due ore per provvedere alle mie cose: diss'egli.
Sedette alla sua scrivania e scrisse due lettere, una per suo padre, l'altra per la madre. S'interruppe assai volte nell'opera sotto l'assalto d'una profonda emozione. Chiese loro con calda supplicazione perdono del dolore che avrebbe cagionato, se egli fosse stato soccombente nel duello a cui stava per recarsi; il pensiero di questo dolore essergli amarissimo, disse, ed avrebbe egli in quel punto dato qualunque cosa per loro poterlo risparmiare, ma al triste passo essere indotto da ineluttabile necessità, a cui senza disdoro non avrebbe potuto sottrarsi: villanamente insultato da un prepotente, sarebbe stato indegno d'esser loro figliuolo, di portare il nome onorato di suo padre, se non avesse propulsato l'iniquo oltraggio. Nella lotta a cui stava per recarsi e cui certo avrebbero condannato i sentimenti religiosi di sua madre, evidentemente lo assisteva la ragione, e Iddio pietoso non l'avrebbe abbandonato.
Quando ebbe finite queste lettere rimase alquanto col capo reclinato e chiuso fra le palme delle mani, i gomiti appoggiati alla tavola. Una maggior tranquillità entrò in lui. Pensò che al cimento nè la sua mano, nè la sua voce non dovevano tremare; bagnò d'acqua fresca un tovagliolo e si inumidì la fronte e le tempia; si atteggiò innanzi allo specchio per provarci l'aspetto e le mosse che avrebbe dovuto avere in presenza dell'avversario; impugnò una pistola e tolse di mira l'immagine sua entro la lucida lastra, per avvezzarsi a guardar freddamente la bocca nera dell'arma rivolta minacciosamente verso la sua testa; poi sorrise di sè, gettò la pistola sul letto e passeggiò un poco per la stanza con piede riguardoso, a capo chino. Ad un punto gli parve udire un lieve rumore nelle camere vicine; il suo cuore gli fece indovinare ratto che cosa fosse; fu d'un balzo presso il lume e lo spense; poi stette immobile, trattenendo il fiato, ma col cuore che gli batteva. Era la buona madre inquieta, che veniva con passo leggiero ad origliare all'uscio se il diletto figliuolo dormisse. Teresa socchiuse la porta ed ascoltò attentamente un istante; non vide nulla nell'oscurità della stanza, non udì il menomo rumore; esitò un momento, vogliosa di accostarsi al letto del figliuolo e vederlo, timorosa di turbargli il sonno salutare; vinse il timore e la si allontanò chetamente come la era venuta.
– Quanto mi ama! Esclamò Francesco, giungendo le mani con un fervido accesso di riconoscenza. Povera madre mia!
Pochi momenti dopo il giovane vestì il pastrano, si pose in testa il cappello e pigliate le due lettere che aveva scritte, discese con passo guardingo nel cortile, passando per la medesima scaletta per cui era salito. Nell'officina, nelle scuderie, nella casa, tutto era ancora chiuso, scuro e muto. Francesco picchiò all'uscio della loggia del portiere e chiamò a voce contenuta ma vibrata:
– Bastiano!
Il grosso uomo che abbiamo già veduto non tardò a rispondere all'appello, e venne fuori avvolto nel suo pastranone.
– Fa il piacere, gli disse il giovane, apri lo sportello. Ci devono venire due amici a cercarmi e non voglio che abbiano a picchiare.
Bastiano obbedì senza la menoma osservazione, quantunque trovasse strana la venuta di visitatori sì mattinieri. Francesco fece avvivare il fuoco nella stanza del portinaio e sedutosi presso il camino stette aspettando. Il portiere notò la preoccupazione del giovane, ma non osò interrogarlo. Il sospetto però che qualche cosa di disaggradevole fosse avvenuto o minacciasse di avvenire al padroncino lo assalse. Suonavano le sette all'orologio dell'officina, quando una carrozza si fermò sul viale dirimpetto al portone della casa, e tosto dopo il dottor Quercia entrava nell'andito dove Bastiano, mandatovi dal padrone, stava col lume in mano per guidarlo nel camerino in cui Francesco aspettava.
Non ebbero ad attendere gran tempo che giunse correndo Giovanni Selva.
– Andiamo: disse Francesco alzandosi con risoluzione.
– Ho pensato di venire colla mia carrozza: disse Gian-Luigi; e credo che la ci può servire.
– Avete fatto benissimo.
I tre giovani uscirono. Bastiano era lì sul passo dell'uscio, col lume in mano, irrequieto, dubbioso, con ansiosa curiosità. Francesco, passandogli innanzi, prese a quel brav'uomo una mano e glie la strinse.
– Addio Bastiano: gli disse con accento in cui c'era più affetto che non nelle occasioni ordinarie.
Il vecchio e fidato servitore sentì un certo rimescolo, che gli parve un funesto presentimento. Volle parlare e non seppe che cosa dire; volle trattenere il padroncino e non osò; stette lì intento a guardarlo mentre attraversava le file degli alberi del viale e saliva coi suoi due compagni nella carrozza. Questa era già partita, e il buon Bastiano era ancora là piantato.
– Mah! Diss'egli poi togliendosi da quel luogo e crollando la testa: tutto ciò mi ha un'aria grandemente sospetta.
Una pallida luce incominciava a diffondersi pel grigiastro orizzonte e su per la campagna coperta di neve: questa cadeva tuttavia a lenti fiocchi e tutto era silenzioso come la tomba.
L'ombra d'un uomo, che nessuno aveva scorto, si staccò da una pianta dietro cui si nascondeva; fece alcuni passi sollecitamente per il viale, e mandò un fischio: due altre ombre si staccarono dai tronchi degli alberi, e vennero a raggiungere quella prima; queste due ultime avevano la montura di carabiniere.