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Loe raamatut: «La plebe, parte III», lehekülg 37

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– Francesco! Francesco! esclamò essa con infinito spasimo dovendo lasciar ricadere a terra il corpo diletto ed accasciandosi essa stessa sopra di lui.

Ma gli altri avevano seguitata la povera madre e furono solleciti in soccorso di lei. Giacomo coll'animo troppo oppresso da tutto quel precipizio di avvenimenti, scemato eziandio il vigor fisico dalla lotta testè sostenuta e dalle ricevutevi percosse, non ci valse e dovette lasciarsi cader seduto sopra una seggiola dove, rompendo in pianto come un ragazzo – egli così risoluto, forte e robusto di volontà e di fibra – si nascose tra le palme la faccia.

Giovanni Selva e Luigi Quercia che pareva il destino volesse presenti sempre ad ogni grave circostanza della famiglia Benda, sollevarono Francesco tuttavia svenuto, e lo trasportarono sul letto.

Teresa si rialzò di terra stando sulle ginocchia e protese le mani che tremavano verso il figliuolo.

– O mio Dio! gemette: Madonna della Consolata, Santa Vergine dei dolori, rendetemi il figliuol mio!..

Quercia disfece la fasciatura di Francesco per esaminarne la ferita. Il sangue n'era uscito in abbondanza ed era gran ventura che esso avesse versato al di fuori, invece che diffusosi nell'interno; nè questa era la sola ventura che in quell'infelice precipitare di dolorosi avvenimenti avesse pur tuttavia toccato al ferito. Gian-Luigi fece ad un punto un atto vivace di gradevole sorpresa: afferrò un lume e si chinò sulla denudata ferita ad esaminarla; e' non s'era ingannato, fra le labbra sanguinose della trafittura stava a fior di pelle la palla di piombo che fino allora non avevano potuto estrarre ed avevano anzi giudicato imprudente di andar cercando; ritenuta nelle carni di qualche muscolo, allo sforzo fatto dal giacente per levarsi e camminare, al colpo da lui battuto in terra nella sua caduta, se ne era staccata ed usciva da sè naturalmente fuor della ferita. Quercia non ebbe che da prenderla colle sue dita medesime. Ciò che ognuno avrebbe creduto di mortale effetto pel trafitto, poteva così invece divenire mezzo di sua salvezza.

Gian-Luigi mostrò il proiettile alla madre di Francesco, la quale rimaneva ancora in terra inginocchiata, palpitante in un'ansia tremendissima.

– Si rassicuri: le disse. Io non ho mai creduto finora poterle dare con sincerità delle buone speranze come in questo momento. Faccia conto che suo figlio ha passata una crisi pericolosissima, che accenna volgere ad ottimo risultamento. Lo salveremo.

Teresa mandò un grido di gioia sovrumano, balzò in piedi con nuovo vigore subitamente riacquistato, si gettò al collo di chi le diceva quelle benedette parole, e lo abbracciò con èmpito di vivissimo affetto; anche il padre di Francesco levò dalle palme il volto inondato di lagrime, per mandare un'esclamazione di gioia; Maria si accostò pianamente a Luigi, gli prese quasi di soppiatto una mano e glie la strinse con forza.

Il grido della madre e l'esclamazione paterna parvero aver forza di ridestare gli spiriti di Francesco, che aperti gli occhi, girò tutt'intorno uno sguardo semispento e smemorato.

– Siamo salvi, siamo tutti salvi: gli disse la madre con ineffabile espressione di tenerezza e di gaudio infiniti.

Francesco che forse voleva fare un'interrogazione, mosse le labbra come per parlare; ma Quercia che gli rifaceva la fasciatura alla ferita, disse con amorevole autorevolezza:

– Zitto, zitto per adesso, e non pronunziate pure una parola… Come sieno volte le cose ve lo diremo tosto che sarete in grado di ascoltarne la narrazione; per ora vi basti sapere che nulla avvenne di male, che tutto è finito e che nissun pericolo sovrasta più di nessuna fatta.

Ma l'occhio di Francesco seguitava a girarsi qua e là irrequieto.

– Ho capito: soggiunse Quercia: voi volete vedere vostra sorella… La venga qui, madamigella Maria, e ponga la sua nella mano del fratello.

Maria s'accostò e fece splendere il suo pallido sorriso innanzi al giacente che vedendola, sentendosene stringere la destra, mostrò colle sembianze del volto essere l'animo suo rasserenatosi e tranquillo.

In quella ecco dal cortile giungere sino colà il suono d'un gran fracasso e insieme un alto grido mandato da centinaia e centinaia di persone sorprese, commosse, spaventate. I tetti degli opificii erano rovinati, affondandosi in una voragine di fuoco; e le fiamme, non ostante gli sforzi di chi le combatteva, erano giunte ad appigliarsi al fenile. Questo rumore richiamò alla mente di tutti l'incendio che in mezzo a tante e sì diverse e vive commozioni parevano aver dimenticato. Lasciando il ferito alle cure della famiglia, i giovani, e Quercia primo, corsero a prestare l'opera loro contro l'incendio.

La truppa aveva arrestati parecchi dei riottosi, non senza averne ferito qualcheduno colle baionette; i principali socii della cocca avevano però trovato modo di scappolarsela; non così Marcaccio e Tanasio: quest'ultimo concio pei dì delle feste dal randello di Bastiano, era stato dal portiere medesimo afferrato pel colletto mentre voleva sgattaiolare trascinandosi carpone per la stanza, e dato in mano ai primi carabinieri che s'erano presentati, colla raccomandazione di essere il più matricolato mariuolo della specie e il principale fra gl'istigatori e i caporioni del tumulto. Ora tutti gli arrestati, feriti e non, stavano in mezzo al cortile, solidamente legati da non poter fare pure un moto, ad aspettare che i carabinieri, finita ogni altra bisogna, per cui era ancora necessaria colà la loro presenza, li menassero in carcere.

Due ore dopo i fatti qui addietro narrati il fuoco era non ispento, ma circoscritto almanco, ed ogni pericolo per la casa di abitazione cessato. Quercia, che nell'adoperarsi contro l'incendio, aveva dato prove di tal coraggio, forza e sangue freddo da mandarne meravigliati tutti quelli che l'avevano visto, così bene che il comandante dei carabinieri, il maggiore di fanteria, il capitano dei bersaglieri e il capo delle guardie a fuoco glie ne avevano manifestato la più entusiastica ammirazione e s'erano proposti di rendere il dovuto omaggio nel loro rapporto al merito ed al valore di lui; Quercia, dico, verso mezzanotte, si presentò alla famiglia Benda a toglierne commiato. Il disordine accresciuto del suo abbigliamento, il fumo e la polvere ond'era lordo, i panni ed i capelli suoi perfino, riarsi dalle fiamme, indicavano abbastanza qual parte di rilievo avesse egli presa in quella lotta contro l'incendio, cui ora veniva ad annunziare essere domato per l'affatto. Gli opificii e le rimesse erano affatto distrutti; i cavalli dalle aperte scuderie erano fuggiti per la campagna folli di terrore e forse non si sarebbero più riavuti; il danno era gravissimo, ma in paragone a quello che avrebbe potuto essere, che aveva minacciato di avverarsi, poteva dirsi tuttavia che la sorte, impietositasi poscia, avesse voluto risparmiare la colpita famiglia. La cassa di ferro del gabinetto di sor Giacomo, abbandonata dai malandrini nella fuga, era stata ricuperata intatta.

A Francesco, assalito ora da febbre gagliarda e cui vegliavano tutti i congiunti, i quali volevano stare riuniti, quasi timorosi che separandosi non avessero da rivedersi più, si ministrava di quando in quando un cucchiaio di pozione calmante, mentre sul capo gli si tenevano pannolini immollati d'acqua fresca, che erano le sole cose cui Quercia avesse detto essere da farsi per allora.

Luigi esortò tutti a porsi a letto e prendere un po' di riposo. Giacomo ne aveva assoluto bisogno, e dovette cedere: Maria e Teresa non vollero muoversi di là, e si prepararono a passar la notte, avvicendandosi or l'una or l'altra al capezzale del giacente, e riposandosi negl'intervalli sopra il lettuccio da sedere. Quercia si partì di là coperto, accompagnato dalle benedizioni e dalla riconoscenza di quella famiglia, avendo più a fondo ribadito nell'anima ingenua di Maria un funesto, fatalissimo amore. Si partì in apparenza commosso, e ognuno avrebbe detto, vedendolo, che il suo cuore eziandio era pieno di turbamento, di tenerezza e d'affetto. Maria lo credette per cosa sicura.

S'avviò egli lentamente a piedi, giù del viale, per ritornare in città. Siccome nello sbaraglio aveva perso pastrano e cappello gli erano stati forniti un cappello ed un mantello di Francesco; egli s'avviluppò bene per difendersi dal freddo notturno di quell'ora dopo le dodici, e fatti pochi passi s'arrestò un istante a gettare uno sguardo su quella casa da cui era uscito allor allora. Una strana espressione si dipinse sul suo volto, cui sarebbe stato difficilissimo il definire: era come un'ironia, quasi uno scherno e insieme un lampo fugace di contentezza. Crollò il capo e tornò ad avviarsi. L'incendio che finiva di consumarsi fra le muraglie annerite degli opifizi e tratto tratto mandava ancora una fiammata, diffondeva pel cielo fatto nebbioso, sui rami secchi degli alberi coperti di neve, sul terreno in cui la neve indurita dal gelo suonava e scricchiolava sotto i piedi, dei riflessi di luce rossigna d'un effetto pieno di cupa tristezza. Al fracasso di poche ore prima era succeduto un alto silenzio, rotto di quando in quando da qualche voce delle guardie a fuoco che ancora vegliavano a guarentigia e tuttavia volgevano di tempo in tempo il getto d'acqua delle trombe idrauliche su qualche punto della fabbrica incendiata.

Tutto era finito. Quella sera fatale preparata con tanto lavorìo, aspettata con tanta ansia, su cui Luigi aveva fondato tante speranze delle quali una parte aveva ancora conservata non ostante l'avverso volgere degli avvenimenti: quella sera era passata, e che cosa ne aveva egli raccoltato? Nulla. Aveva compiutamente fallito in ogni suo disegno, come in ogni desiderio. Che cosa gli restava da fare? Come conchiudere quella sua sorte ch'e' sentiva minacciata? Sparire per tornar poi un giorno? Rinunciare per sempre e sprofondarsi nell'oblio? Lottare ancora, resistere con maggiore audacia di prima ai sospetti del mondo?

Di botto egli ruppe in un riso secco, metallico, vibrante di malvagia ironia, quale la potente fantasia di Goethe dovette udire suonare al suo pensiero dall'evocato demone dello scherno.

– Strano, strano: esclamò egli: strano e supremamente burlesco, come ogni episodio di questa gran commedia che è la esistenza umana. Commedia? Una miserabile farsa affè di Dio! Quel matto d'un azzardo, che gioca ai birilli cogli uomini, ha vinto, contro la mia intelligenza e contro la mia pretesa libera volontà, una partita di frode in cui sono rimasto bellamente deluso. Ho creduto di accavallare come un Titano monte su monte per dar l'assalto all'Olimpo, e non sono riuscito che a rammontare un mucchio di miserabili pietre da fare alla sassaiuola; avevo sognato di trovarmi a capo d'una plebe in furore, che colla potenza irrefrenabile del numero tutto abbatte e distrugge, ed ho dovuto oppormi io stesso e star contro a quattro arfasatti e scellerati d'ubbriaconi cui si fanno alzar le berze collo scudiscio. La macchina di guerra, che avevo sognato terribile e cui volevo rivolgere contro le più potenti istituzioni sociali, eccola cambiatasi in un miseruzzo di razzo che va appunto ad appiccare il fuoco ad una meschina di casuola privata che avevo pensato far salva. Erostrato fallito, invece che il tempio di Diana, non sono riuscito che ad appiccar fuoco ad una capanna; parodia di Catilina non ho manco potuto far tremare il Senato e ispirare la rettorica d'un Cicerone; rimango un vile assassino qual prima, che deve nascondersi nelle tenebre e cercare coll'arte della dissimulazione o colla fuga uno scampo. La maschera che già mi cadeva, di cui sento già tanto uggiosa impazienza, bisogna riassicurarmela sopra il viso.

Ripetè quel suo ghigno mefistofelico; ma chi l'avesse potuto vedere avrebbe notato nella contrazione delle sue sembianze l'indizio manifesto d'una ira dolorosa che gli tormentava l'animo.

– E tutto con pari successo: riprese a dire fra sè. Quella famiglia Benda ho le maggiori ragioni del mondo per voler sempre più ricca, e ne scemo con vistosissimi danni le sostanze; Francesco, morendo, mi recherebbe un considerevole vantaggio e la sorte fa di me lo stromento per salvarlo dalla tomba… Io non posso adunque più comandare a nulla, nè agli uomini, nè agli avvenimenti?

Tacque un istante, camminando a capo basso, sempre più cupo nel volto.

– Che cosa farò io della cocca? Non ho potuto servirmene come avevo immaginato, non posso nemmanco infrangerla e liberarmene… Sì, questa vita mi pesa. – Ah mi pesa altresì e più ancora questa misteriosa essenza che è dentro di me. Se credessi ad un'altra vita al di là della tomba, vorrei precipitarmi a vedere che cosa ella è, non fosse altro che per vaghezza di mutamento, che per trarmi all'impaccio dei problemi insolubili che vanamente agito nella mia coscienza e nella mia natura; ma colla morte piombare nel nulla!.. Non esser più, nulla, per nulla, in nulla!.. No, quest'organismo e quel non so che ond'è animato, hanno tuttavia una vitalità che ha bisogno di provarsi e di essere… Se tentassi di rientrare nella carreggiata della vita comune?

Come a mostrargli la impossibilità di siffatto proposito, una nuova idea, che pareva non aver pure la menoma attinenza con quelle che ne occupavano la meditazione, balzò in mezzo alla sua mente, e lo fece riscuotersi come ferito d'improvviso dalla punta acuta d'uno spillo.

– E i diamanti di Candida? si domandò egli ad un tratto. Bisogna bene che domattina glie li restituisca. Glie l'ho promesso… e non ho più che queste poche ore di notte per riaverli… Andiamo.

Innanzi ad un fatto materiale e preciso da compiersi, la sua risoluzione tornò in lui, ogni nebbia di vago pensiero, ogni fantasticheria disparve; sulla sua faccia apparì l'espressione d'una volontà forte, ferma e potrebbe anche dirsi feroce, e il suo passo divenne più sollecito e più franco. Dieci minuti dopo, il medichino entrava in Cafarnao, dove già erano radunati ad aspettarlo i capi supremi della cocca, meno l'ebreo Jacob Arom.

Erano tutti mortificati come segugi dopo una caccia infelice, che temono lo staffile del canattiere. L'impresa era riuscita male: s'era fatto molto danno, ma all'associazione s'era recato poco vantaggio: il bottino non era stato sì abbondante da rimeritare dell'audacia adoperata; la cassa di ferro dovuta abbandonar nella fuga era un grave rammarico, un vivo dolore per l'animo di quella brava gente, e sopratutto per quello sensitivo di Graffigna; quantunque i capi fossero riusciti a porsi in salvo, tuttavia parecchi fra gl'inferiori associati della cocca erano stati presi dalla forza pubblica; la qual cosa era pur sempre per tutti la minaccia d'un pericolo. Ognuno di coloro era stretto da un terribile giuramento a non parlare; a dar rincalzo agli effetti di questa obbligazione morale si aggiungeva bene la paura di una buona stilettata promessa a chi tradisse il menomo dei segreti dell'associazione, promessa che si sapeva sarebbe stata scrupolosamente mantenuta, quando il caso avvenisse: ma pur tuttavia una parola è così presto sfuggita, e per quei curiosoni della Polizia una parola può essere un bandolo atto a disfare tutta una matassa: insomma una triste preoccupazione, un disagio gravava sull'animo di quei valentuomini. Meno tranquillo degli altri era in cuor suo Graffigna, che temeva la collera del medichino, per avere così audacemente disobbedito ai segreti ordini che gli aveva dato intorno ai Benda; e il mariuolo s'era preparata una furba ed eloquente difesa, in cui provava inconfutabilmente ch'egli non ci aveva pur l'ombra d'una colpa, che le cose dovevano andare di quella guisa, e che le erano appunto avvenute non ostante ogni suo sforzo per impedirle: ma egli si sarebbe pienamente e tosto assicurato e risparmiatasi la fatica di comporre nella sua mente quell'arringa, quando avesse potuto leggere nell'interno del medichino che questi quella notte medesima aveva bisogno di lui.

La conferenza fra il medichino e i suoi complici fu piena di glaciale riserbo. Non un rimprovero, non un'osservazione neppure uscì dalle labbra del capo supremo. Si verificò l'ammontare delle somme derubate da Graffigna e da Stracciaferro e se ne stabilì la divisione in parti acconcie, secondo il grado ed il merito, fra i varii membri dell'associazione che avevano preso parte al fatto: quindi Gian-Luigi disse asciuttamente:

– Per ora non abbiamo nulla più da dirci. Separiamoci.

E come tutti si mossero per partire, egli soggiunse con un tono quasi di comando:

– Voi Graffigna e Stracciaferro fermatevi.

I due interpellati ristettero.

– Ci siamo alla ripassata: pensò Graffigna che si tenne pronto a sfoderare il suo discorsetto di difesa; ma non ebbe alcun bisogno di esso, perchè fu di tutt'altro argomento che il loro capo li trattenne a voce bassa, concitata, quasi fremente. E questo argomento dovette riuscire moltissimo aggradevole a Graffigna, perchè i suoi occhietti, che sembravano forati col succhiello, si diedero a brillare d'una fiamma allegra e vivacissima.

– Ah finalmente! esclamò egli battendo insieme le palme delle mani, quando il medichino ebbe posto termine al suo dire: questo sì che mi va!

– La va anche a me! bofonchiò Stracciaferro colla sua voce rauca, rotando intorno uno sguardo feroce.

Tosto dopo uscirono tutti tre, e l'uno mantenendo una certa distanza dall'altro, volsero i passi verso una comune direzione – che era quella della casa di Nariccia.

CAPITOLO XXX

Erano le due circa dopo la mezzanotte. Torino dormiva immersa nel più alto silenzio e la strada stretta e tortuosa in cui sorgeva la casa di Nariccia era d'ogni altra più deserta, più scura, più abbandonata, più taciturna. Tre uomini s'arrestarono alla porta da via della casa nominata: il più piccolo e sottile di corpo fra essi trasse fuor di tasca una chiave bene inoliata ed aprì senza il menomo rumore l'uscio pesante che chiudeva quella porta; poi chetamente entrarono nell'andito i tre individui, primo uno di spigliata corporatura, alto di persona, di portamento elegante e quasi direi autorevole, secondo un omaccione di forme colossali, pesante nell'andatura, dalle sembianze e dai panni della più abbietta plebe, ultimo l'omiciattolo che pareva avere ne' piedi scarpe di feltro, tanto era senza rumore il suo passo guardingo. Quest'omiciattolo perchè la serratura dell'uscio non venisse chiusa, fece entrare a forza un picciol cuneo di legno nell'apertura per cui scattava la stanghetta a molla, poi rabbattè pianamente l'imposta sullo stipite. Inoltratisi di pochi passi nell'andito, il medesimo piccol uomo trasse di sotto ai panni una lanterna di quelle chiamate occhio di bove, la cui luce però poteva accecarsi mercè il giro d'una lastra che serviva a coprire il vetro, l'accese e passò innanzi a rischiarare i passi dei suoi compagni.

– Un momento: disse con voce sorda l'uomo dalle sembianze signorili.

Gli altri due si fermarono. Colui che aveva parlato trasse fuori una maschera di seta nera e se la pose sulla faccia; la qual cosa vedendo, quel piccolo dal corpo sottile disse a mezza voce, quasi parlando a sè stesso:

– Eh! ancorchè vedano le nostre bellezze quei due che stanno qui su, non avranno più tanta salute domani da andare a dire altrui chi fu a far loro visita stanotte.

Ed un orribile sogghigno sulle sue labbra tirate completò l'orribile significato di quelle sue parole. L'uomo che s'era messo la maschera non disse verbo. Ah! ben lo sapeva ancor egli che gl'infelici, ai cui occhi egli stava per comparire come uno spettro in quell'ora tremenda, non avrebbero di poi sciolto la lingua mai più; ma pure, in questa, come in altre simili orribili imprese, a cui aveva già preso parte pur troppo, egli non voleva che le sue vittime potessero vedere il suo volto, quasi sperasse con ciò che, non riconoscendolo, non potessero accusarlo al Giudice Eterno, innanzi a cui stavano per comparire. Quand'ebbe assicurato ben bene alle sue orecchie i cordoni della maschera, che lasciava scoperta soltanto la fronte – una pallida fronte solcata in mezzo da una ruga profonda, – quell'uomo fece silenziosamente cenno ai compagni proseguissero il cammino. L'omiciattolo entrò innanzi facendo lume col raggio della cieca lanterna rivolta a terra; salirono col passo guardingo e sospeso sino al secondo piano e s'arrestarono innanzi all'uscio chiovato di ferro del quartiere abitato dall'usuraio Nariccia. Colà quel medesimo della lanterna trasse dalle tasche un piccol mazzo di chiavi nuove, il cui ferro lucente rimandò con vivo riflesso il raggio che l'uomo fece cadere sopra loro dall'occhio di bue per sceglierne due fra esse: queste così trascelte mise egli nelle toppe di quell'uscio pesante, e col meno rumore che fosse possibile aprì una dopo l'altra le due serrature chiuse a doppia mandata. Il battente allora chetamente sospinto cedette alla mano; ma non s'aprì di più della larghezza di quattro dita; chè un altro ostacolo lo trattenne: era una forte catena di ferro passata traverso l'uscio e tenuta fra due ganci infissi nelle imposte.

L'omiciattolo mandò fra i denti una bestemmia, a cui fece eco un'altra peggiore vomitata dall'omaccione; quello dalla maschera nera si avanzò.

– A codesto non avevi pensato tu: diss'egli a voce sommessa con tono di rampogna, e il piccolo a cui era rivolta la parola rispose:

– Signor no; ma non monta… Non è quest'io che sia preso mai alla sprovveduta.

E tratta sollecitamente di tasca una finissima lima, si pose a segare con essa uno degli anelli di quella catena con tanta abilità quanta può dare una consumata perizia. In dieci minuti l'anello era rotto e l'uscio spalancato. I tre individui s'intromisero in quel quartiere come tre ombre. Questa volta l'uomo dalla maschera entrò l'ultimo, e chiuse dietro di sè con attenzione il battente dell'uscio.

Nariccia, dopo quell'ultima volta che Gian-Luigi l'aveva visto, recandogli in pegno i diamanti della contessa di Staffarda, avea sentito accrescersi il suo malessere, e poco o punto giovamento glie ne avea recato il farmaco di cui il medichino gli aveva scritto la ricetta. In quel giorno che era da poche ore finito, egli era stato più male che mai: aveva avuto delle vertigini, delle soffocazioni, dei granchi alle braccia ed alle gambe, una debolezza di corpo ed una confusione di mente, come non aveva provato mai. Postosi in letto di buon'ora, non aveva fatto che girarsi agitato di qua e di là fra le coltri fino passata mezzanotte, ed erasi finalmente addormentato da poco di un sonno pesante, irrequieto, tormentato, pieno di brutti sogni, affannato dall'incubo che lo faceva gemicolare dormendo. La sua vecchia fante, Dorotea, aveva offertogli di andare per un medico, di fargli dell'infusione di camomilla, di passar dallo speziale e richiederlo di qualche farmaco che gli potesse giovare; ma Nariccia non aveva voluto nulla, e le aveva comandato di lasciarlo tranquillo; la donna era andata a coricarsi e non aveva tardato ad addormirsi della grossa.

L'usuraio dormiva adunque, ma come se una parte dell'anima sua stesse vegliando per avvertirlo quando qualche pericolo s'avvicinasse a minacciarlo, l'anello della catena che sbarrava l'uscio d'entrata era appena infrantosi, ch'egli si svegliò in sussulto, nè più nè meno che se una mano estranea lo avesse riscosso, e si levò a sedere sul letto, tendendo ansiosamente le orecchie. Non udì nulla, ma pure il suo istinto avvertiva la presenza d'un nemico. Fece a rassicurarsi da se stesso: le sue buone serrature erano ben chiuse, ed erano tali che grimaldello nessuno valeva ad aprirle, la grossa catena di ferro passata traverso i battenti dell'uscio, questo in complesso così forte che ad abbatterlo sarebbe stata necessaria una catapulta. Eppure la sua inquietudine non cessava. A forza di stare coll'animo sospeso e l'orecchio tirato, gli parve d'udire un fruscio nel corridoio che menava alla sua stanza; afferrò con mano sollecita un mazzo di fiammiferi che aveva sul tavolino da notte e ne soffregò uno per accendere il lume. Forse non era che un topo; forse non era che uno di quei lievi rumori di cui non si può conoscer la causa, che si sentono la notte nei luoghi abitati, scricchiolar di legno nei mobili, o un soffio d'aria traverso una fessura, od uno staccarsi della tappezzeria dalla parete; ma ad ogni modo voleva vederci chiaro.

– Sacr…! aveva detto l'omiciattolo che colla lanterna in mano precedeva i compagni nel corridoio, camminando con piede leggerissimo e cauteloso; quel birbone indemoniato di Nariccia, mio buon amico, è già sveglio… Converrà far presto a stringergli il gorgozzule, od egli si mette a gracchiare da far saltar fuori tutti i casigliani.

Acceso il lume, Nariccia tornò a sentire più spiccato e preciso il rumore. Non era più un'illusione questa volta, nè poteva avervi dubbio di sorta: era un passo; il pavimento del corridoio cedeva sotto il piede pesante dell'omaccione dalle forme erculee.

L'avaro spaventato gettò le gambe giù della sponda del letto per levarsi, e intanto con quanto ne aveva in gola si mise a gridare:

– Dorotea! Dorotea!.. C'è i ladri… Chiamate aiuto… Accorr'uomo! Accorr'uomo!

L'uscio della stanza si aprì rapidamente, l'omiciattolo guizzò dentro, e d'un balzo, prima che Nariccia avesse tempo a porre i piedi per terra, gli fu sopra e lo serrò alla gola. L'avaro lo aveva riconosciuto.

– Graffigna! aveva esclamato: ah misericordia!..

Non aveva potuto soggiungere altro, perchè la mano dell'assassino, prendendolo alla strozza, non gli lasciava più varco nemmanco al respiro. Gli occhi spaventati dell'avaro che si empivano di sangue avevano visto entrare tacitamente, quasi con una cupa solennità, dietro l'omiciattolo, il colosso dalle forme pesanti e il personaggio dalla maschera nera; la disperazione, la stessa immensità del grandissimo terrore diede alle membra di Nariccia una forza straordinaria, quale non avrebbe pensato neppur egli di avere; liberò il suo collo dalla stretta della mano assassina, e facendosi a sua volta offensore, piantò le unghie nella faccia da animal rosicchiante del piccol uomo che lo aveva assalito. Questi per difendersi dovette lasciar cadere a terra la lanterna cieca che teneva ancora tra mano; dovette indietrare così che urtando in una seggiola la mandò a gambe in aria sullo spazzo, mentre Nariccia riacquistato l'uso della voce, se ne serviva gridando forte quanto più poteva:

– Dorotea! Dorotea!.. Aiuto!.. Ai ladri! Agli assassini!..

L'uomo mascherato che, avvolto in un mantello, s'era fermo in sul limitare, guardando traverso i buchi della larva con occhi che parevan di fuoco, veri tizzoni d'inferno, s'avanzò d'un passo, e disse con voce secca e tono di comando:

– Troppo rumore; bisogna finirla.

L'usuraio si riscosse tutto a quella voce.

– Che! esclamò egli: siete voi?.. Gli è Lei?.. Ah la riconosco alla voce, dottore… Lei non lascierà che si faccia male ad un povero vecchio… e suo amico.

– Brigante d'un ladro: bofonchiava con voce di falsetto l'omiciattolo alle prese con Nariccia, soffiando forte nella fatica di quella lotta che non avrebbe mai più creduto avrebbe trovato sì aspra: tu riconosci troppo la gente, e capirai che codesto ci secca al non pisoltra.

L'omaccione moveva in aiuto del suo compagno, quando si precipitava nella stanza la vecchia Dorotea. Svegliata dalle grida del padrone e dal rumore della lotta, in quel primo istante di confusione che succede a chi si desta improvviso, ella non sceglieva il miglior partito che le si presentasse, quale sarebbe stato di aprir la finestra e gridare per aiuto, ma sbalordita, senza rendersi pur conto esattamente di ciò che succedesse, corse dove la si chiamava, incappando nelle mani dell'omaccione, il quale senza punto esitazioni nè indugi, afferratala con violenza, la ridusse per sempre al silenzio.

Ma mentre così compivasi la trista sorte della povera Dorotea, l'omiciattolo continuando nel conflitto con Nariccia, non riusciva, malgrado ogni suo sforzo, a vincerlo, nè a farlo tacere: egli si volse quindi al personaggio dalla maschera, dicendogli:

– La mi venga a prestare un colpo di mano… questo corbaccio impossibile azzittirlo.

L'individuo mascherato ebbe un momento d'esitazione; la sua mossa anzi espresse la più viva delle ripugnanze, ma la superò tosto e s'avvicinò con passo frettoloso ai due lottanti.

– Per carità: diceva l'usuraio colla voce arrangolata; mi lascino la vita… Dottore, per amor di Dio, la vita… No… non l'ho riconosciuta… non ho riconosciuto nessuno… Non dirò nulla… Lo giuro sull'anima mia… Mi dicano quello che vogliono… Darò loro tutto… tutto darò loro… ma mi lascino la vita…

La maschera nera stava sopra ai due che lottavano. Quell'uomo trasse giù la falda del mantello che aveva gettata sopra una spalla, e fece così libero alle mosse il suo braccio destro; il mantello aveva affibbiato dinanzi sotto il risvolto del colletto. Di mezzo alle pieghe del panno cadente uscì ratta una mano in cui brillava qualche cosa di lucente; e il misero Nariccia vide sul suo capo un raggio della luce rossigna della candela ch'egli aveva accesa, riflettersi sopra una lama di pugnale. Con uno sforzo supremo rigettò l'omiciattolo che più accanitamente gli si stringeva addosso, la destra protese con violenza contro il nuovo aggressore ed afferrò dove poteva; un'angoscia d'agonia gli spremeva da tutte le membra un sudore gelato. Il colpo s'abbassò; ma il misero assassinato non n'era ancora côlto, che questo colpo erasi fatto inutile; gli occhi in cui parevasi travasato il sangue torsero convulsamente le pupille, le guancie, divenute d'un rosso cupo, quasi violaceo, si contrassero orribilmente, la bocca piegò tutta a sinistra con una smorfia orribile a vedersi; un suono gutturale uscì da quelle labbra annerite, e Nariccia, come una massa di piombo, precipitò lungo e disteso all'indietro, trascinandosi seco l'omicciatolo di nuovo a lui avvinghiatosi, lacerando e portando seco nella mano stretta come una morsa d'acciaio il bavero del mantello che aveva afferrato all'uomo dalla maschera. Il colpo di pugnale misurato al capo, sviato per questa guisa, cadeva nell'attaccatura del collo alle spalle producendovi soltanto una ferita poco profonda; ma ciò che non aveva potuto fare la lama omicida, l'aveva fatto quel colpo apoplettico, cui Quercia aveva riconosciuto pochi giorni prima minacciare l'esistenza dell'avaro.

Vanusepiirang:
12+
Ilmumiskuupäev Litres'is:
30 juuni 2017
Objętość:
680 lk 1 illustratsioon
Õiguste omanik:
Public Domain