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Loe raamatut: «Tre racconti», lehekülg 14

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X

Anna scrisse al signor X… essere determinazione di Maria di rimaner per allora ragazza.

A questa risposta fu tanta l'afflizione del giovane innamorato che il padre volle tentare ancora di smuovere la giovinetta dalla presa risoluzione; e il giorno dopo si presentò alla casa di Anna, supplicando lo si lasciasse parlare colla fanciulla. La madre di Guido ben rispose che questo era affatto inutile, nè le pareva di tutta convenienza; ma l'altro insistendo caldamente, perchè non si sospettasse della sincerità della data risposta, Anna finì per acconsentire al domandato colloquio.

Quando furono in presenza e soli il signor X… e Maria, il primo cominciò a domandare alla ragazza se proprio secondo il volere di lei era la fattagli risposta, ed essa ciò affermando con fredda dignità.

“Ma perchè?” interrogò il signor X… con calore. “Quale ragione può ella avere… Oh mi dica liberamente tutto! E se io potrò mai far cosa che la possa far cambiare di risoluzione, qualunque ella sia, si accerti che la farò ad ogni costo.”

“La ragione,” rispose tranquillamente la fanciulla, “è questa sola: che io sto bene così come mi trovo e non amo cambiare di condizione e di stato.”

Questa ragione non era tale da appagare il padre del giovane innamorato, epperò insistette con più forza, soggiungendo che si trattava della vita d'un uomo, che suo figlio era a tale che, privo di lei, non voleva viver più; conservasse per carità, per amor di Dio, l'unico figliuolo ad un padre oramai vecchio; non avrebbe dovuto pentirsene a nissun modo, avrebbe avuto dall'amore del giovane, dalla riconoscenza di lui che la supplicava il più ampio compenso.

Il povero padre s'era commosso sino alle lagrime, e ad aggiunger forza alle sue preghiere accennava volersi mettere in ginocchio innanzi alla ragazza; essa ne lo trattenne.

“Io sento per suo figlio la maggior compassione; ma non devo tuttavia ingannarlo… Suo figlio, non l'amo; e non mi pare nè prudente nè onesto dare a chi non s'ama la nostra vita e prendere la sua.”

“Lo amerà dipoi…”

“E se no? Non conviene giuocare l'esistenza di due individui sull'incerta posta d'un avvenire poco probabile. Pare a lei che suo figlio medesimo avrebbe ad esser felice quando non si sentisse amato come certo desidera, com'è suo diritto, come n'è ben degno?”

“Ciò vuol dire ch'ella ama qualchedun altro!”

Maria volse al suo interlocutore la fronte sicura e lo sguardo limpidissimo, senza traccia del menomo turbamento.

“No,” diss'ella, “nè so pure se amerò mai uomo al mondo. Ma questo è certo che non darò la mia mano se non a chi abbia già saputo acquistarsi tutto il mio cuore.”

Fece un inchino per significare che il colloquio aveva da esser finito e nulla più era da dirsi fra loro due. Il signor X… se ne partì disperato: e mentre usciva per una porta, si precipitava da un'altra nel salotto Guido, il quale, colla febbre addosso, aveva udito, origliando, i tenuti discorsi.

“Maria!” esclamò egli correndo presso la fanciulla e pigliandole una mano che baciò con passione. “Maria, tu sei un angelo.”

Essa tolse via lentamente la mano da quella di Guido, guardando con istupore lo acceso volto di lui.

“Perchè mi dici tu codesto?” domandò con accento di gelato riserbo.

Guido rimase impacciato, non sapendo più nè che rispondere, nè che si fare. Maria tenne alquanto fissi su di lui gli occhi suoi con una certa curiosità scrutatrice senza aggiunger altro; poi s'avviò lentamente: ma quando fu all'uscio, e già aveva la mano sulla gruccia della serratura, si volse indietro e disse:

“Tu hai ascoltato il mio colloquio con quel signore?”

“Sì,” rispose Guido, abbassando il capo vergognoso.

“Hai fatto molto male:” pronunziò Maria col tono d'un precettore che rampogna un allievo, e sparì, tra i battenti dell'uscio; ma se Guido avesse levato gli occhi a quel punto, avrebbe visto sulle labbra di lei un certo sorrisetto, che non indicava disdegno e che era forse meno indifferente del solito.

Pochi giorni dopo, il signor X… partiva con suo figlio per un lungo viaggio, nell'intento di svagare l'addolorato giovane.

Guido lo annunziò a Maria, la quale, come al solito, lavorava alla finestra del salotto.

“Ah!” fece la fanciulla con tutta tranquillità: “poveretto!”

“Tu lo compatisci?” esclamò con gelosia l'artista che teneva fisso lo sguardo sui lineamenti della fanciulla.

“Sì; lo vedevo tutti i giorni là davanti con una faccia così sofferente e così mesta che, davvero, a non averne compassione, bisognerebbe esser peggio che insensibili.”

“Hai ragione. Anch'io lo compatisco e dimolto. Ma ne sai tu il perchè?”

“Perchè?” domandò Maria alzando gli occhi dal lavoro e fissandoli in volto a Guido.

Questi aveva il cuore che gli palpitava forte forte, e le labbra che gli tremavano nel rispondere.

“Perchè t'ama non riamato…”

Si tacque di subito, come se a proseguire gli mancassero la voce e la forza.

Maria non disse nulla; riabbassò il suo sguardo, e la mano corse spedita come prima sul suo lavoro.

XI

A un tratto Guido fu colto da un nuovo ardore pel lavoro, e per l'arte sua, cui da tempo veniva trascurando. Tutto il giorno oramai se ne stava chiuso nello studio; compariva appena alle ore del desinare; non usciva di casa, non riceveva più nemmeno i suoi amici, di nulla piacendosi che d'esser solo all'opera colla sua ispirazione, innanzi alla massa di creta che veniva plasmando. Colà si provava ad eseguire quella creazione che da un pezzo tentava la sua fantasia; imperocchè essa ora imperiosamente domandava di venire effettuata, ed egli obbediva modellandola in una statua di donna. Come avete indovinato di certo, in quella statua, alla bellezza corporea d'una Venere, l'artista aveva congiunto la leggiadria di volto e l'espressione di superba nobiltà che erano in Maria.

A costei Guido non aveva pur fatto cenno di ciò. I lineamenti di lei aveva egli sì bene stampati nella mente, che non gli occorreva vederseli innanzi per ritrarli. Al corpo medesimo aveva dato l'atteggiamento e la mossa dell'adorata fanciulla; nè aveva voluto per esso avere alcun modello, parendogli questa una profanazione; ma tutto veniva facendo col riprodurre nella creta quell'immagine splendida di fisiche perfezioni che stava incessante innanzi alla sua fantasia d'artista.

Quando la statua era oramai presso al termine, avvenne che un giorno la serva di casa, avendo da recarsi nello studio di Guido, ci entrasse mentre lo scultore stava lavorando, ed essendo egli in uno de' suoi momenti di più fervore nell'opera, non pensasse a smettere ed a coprire, come di solito, il lavoro col panno.

La serva, finito il suo compito, era per ripartirne, quando, per caso, alzò gli occhi sopra la statua, e mandò un'esclamazione di meraviglia.

“Madonna santa! Ma quella è la signorina.”

Guido si riscosse, saltò giù con impeto dallo sgabello su cui era salito, e si precipitò sulla serva, a cui tappò colla mano la bocca.

“Taci!” gridò egli. “Tu non l'hai a dire. Tu non hai visto nulla. Hai capito?”

E la meschinella, tutta spaventata:

“No, no, stia tranquillo; non parlo.”

Ma Guido, calmatosi, guardava con amore l'opera sua.

“Ti par'egli adunque che questa statua le rassomigli?”

“Eccome! Se la fosse di color carnicino e coi capelli d'oro come la signorina, si direbbe che la è essa medesima, e che vive.”

A Guido parve in quel momento che quella femminuccia parlasse meglio d'ogni persona al mondo; volle ringraziarla, pensò darle una mancia, e recò la mano al taschino; ma non ne fece nulla, trattenne anche la parola, e lasciatala partire, tornò con nuova alacrità al lavoro.

È facile indovinare come fosse troppo difficil cosa per quella donna il tacere; onde non erano trascorse ventiquattr'ore che, dopo mille preghiere di non tradirla, mille proteste di non voler dire, essa aveva contato a Maria ciò che aveva visto, e ciò che erale intravvenuto nello studio di Guido.

La fanciulla, incredula del fatto per un poco, aveva cominciato per sorriderne come d'una piacevolezza qualunque.

“Eh via! Davvero?” aveva domandato con meraviglia. “Oh che idea gli è mai venuta? È una strana bizzarria.”

Quindi una specie di preoccupazione l'aveva fatta diventar seria; e sul suo volto, allo stupore e all'ilarità era succeduta l'espressione d'una scontentezza, quasi di suscettività offesa.

Senza voler più dire una parola alla serva, ella s'era ritirata nella sua camera, e là le si aggiravano per la mente poco men che molesti questi pensieri:

“Perchè ha egli voluto riprodurre le mie sembianze?.. Ne aveva egli diritto?.. E non dirmene nulla!.. E ora, ogni momento, egli ha colà sotto gli occhi la mia immagine… Oh me ne spiace… E perchè me ne spiace? Che cosa me ne deve importare? A me, alla mia persona, che cosa fa codesto? Ebbene sì, mi fa… Gli è come se avesse una parte di me…”

Un nuovo pensiero sopraggiuntole la fece arrossire.

“Conviene adunque ch'egli mi abbia ben bene esaminata, bene studiata per poter così ottimamente ritrarre le mie sembianze a memoria!”

Si sentì prendere da una confusione che non aveva mai provata.

“Ciò non va bene… Glielo dirò… Mentre si sta lì, senza un sospetto al mondo, esserci uno sguardo che vi scruta, vi divisa uno per uno ogni tratto, ogni mossa… No, no, non mi piace… E mi piace tanto meno ch'egli si tenga quella statua. Che cosa sono io per lui da voler egli possedere la mia immagine? che glie ne importa?”

Ma qui la sua mente fu certo invasa da altre idee, poichè ella chinò il capo, stette riflessiva, e una leggiera fiamma di rossore le salì alle guancie.

Rimasta un poco di questa guisa, meditando, levò quindi la testa con risoluzione e disse:

“Voglio vederla codesta meraviglia.”

Chiamò la serva.

“Quando Guido sia uscito,” le disse “venite tosto ad avvisarmene.”

Lo studio dello scultore era a pian terreno nel cortile, e dal quartiere dei mezzanini, abitato dalla famiglia, scendevasi in esso per una scala interna a chiocciola. Maria non era entrata in quel vasto stanzone che pochissime volte, e perchè raramente le accadeva di doverci andare, e perchè provava una tal qual ripugnanza a metter piede là dentro.

Ora, quando la serva venne a dirle esser Guido partito, la fanciulla si diresse risolutamente verso la scaletta a chiocciola, col suo passo franco e leggiero. La donna accennò di seguirla.

“No;” le comandò Maria con accento che non ammetteva replica: “tu sta' qui.”

Scese la scala, sollevò la tenda di grosso pannolano che pendeva innanzi all'uscio ed entrò.

Cosa strana, e che non capiva ella medesima, e che non le era capitata da un pezzo, il suo cuore palpitava per un'inesplicabile emozione.

Nello studio entravano da due alte e larghe finestre splendide cascate di raggi di sole. Alle pareti dipinte di color grigio, si vedevano appese tutto all'intorno braccia, gambe, mani, piedi, torsi, capi modellati in gesso sui capolavori dell'antichità. Una copia, grande come l'originale, del famoso Fauno della villa Albani si contorceva in un angolo; un Mercurio di Gian Bologna si slanciava verso il cielo da un'altra parte; una Venere dei Medici pareva volere scaldar la sua nudità a quel sole, il quale tracciava traverso la stanza due ampie striscie luminose tutte piene di atomi brillanti; mentre un Apollo del Belvedere sorgeva in tutta la sua maestosa bellezza di dio che s'è vendicato.

Maria stette là in mezzo, press'a poco come un timido che entri in un'adunanza dove persone ed usi sieno a lui affatto sconosciuti. Le parve una voce intima le dicesse, quello non esser luogo da lei; la sua curiosità essere poco meno che una sconvenienza; dover ella tosto di là allontanarsi.

Nel mezzo dello stanzone, là dove meglio batteva la luce, sorgeva una mole sopra uno di quei piedistalli di legno che girano su d'un pernio, dei quali si servono gli scultori per modellare la creta; e codesta mole era accuratamente tutta coperta da una gran tela inumidita.

Maria pensò tosto che quella esser doveva la statua colle sembianze di lei, per veder la quale soltanto era essa colà venuta; ma ebbe una certa peritanza, non che a scoprirla, pure ad accostarsele. La guardò un poco, così come ella appariva, sotto quel mistero di pieghe cui le faceva intorno il panno gittatovi su; e poscia ne sviò lentamente gli occhi a mirare, un dopo l'altro, i vari pezzi di scoltura che ornavano lo studio. Ella non aveva ancora mai sentito nè cercato quel diletto che provasi dalle persone di gusto artistico nella contemplazione delle bellezze dell'arte. Ora in presenza della pura leggiadria dell'Apollo antico, dell'eleganza di quel Mercurio che vola, della grazia della Psiche del Canova, del sentimento della Preghiera di Pampaloni, provò ella come una rivelazione, come un subito ammaestramento a un linguaggio sublime, sino allora ignorato.

Prima di tutto una specie di turbamento s'impadronì di lei; quella tal voce segreta le sussurrava ancora che di là si partisse, non mirassero gli occhi suoi quegli oggetti; ma la casta bellezza di quelle forme aveva pure un fàscino a cui la non poteva resistere… Quali pensieri le passassero per la mente, chi li può dire? Non seppe esprimerli mai neppure ella medesima. Certo è che sulle sue sembianze passavano avvicendandosi, e come rincorrendosi, le tracce di mille sentimenti, di mille affetti i quali parevano agitarsi e combatter tra loro nel contendersi l'animo di lei, e poi, cessando tutti a un tratto, lasciarla ripiombare nell'assopimento della sua primiera apatia.

Se non che la vista d'un altro oggetto venne a suscitarle nuove sensazioni e nuovi pensieri.

In un angolo dello stanzone presso ad una stufa di ghisa che alzava il suo tubo contro la parete, stava spiegato, come per formare un ripostiglio, un paravento, e sopra questo, un abito e uno scialle di donna buttati là a casaccio.

Perchè quella vista riscosse la indifferente Maria? Essa tenea su que' panni gli occhi fissi, conturbati, come all'aspetto d'una subita minaccia. A chi apparteneva quella roba? C'era forse una donna nascosta là dietro, la quale l'avesse sino allora osservata, mentre Maria si credeva sola? Quest'idea la fece arrossire. Si alzò con coraggio e camminò risoluta verso quel paravento. Dietro non c'era nessuno; ma palesi e numerose ci si vedevano le traccie di passaggio e dimora di donne. Uno specchio alla parete, con un tavolino dinanzi, pettini, forcine da capelli, spille e spilloni da appuntare i panni, qualche nastrino, un guanto femminile, vasettini di pomata. Era difatti colà dove si ritiravano a spogliarsi e rivestirsi le modelle.

Che cosa mai passò per la testa alla fanciulla? Il suo volto prese un'espressione di mal talento, di dispetto insieme e d'ironia. I suoi occhi caddero per caso sullo specchio, e vedendovisi colle sopracciglia corrugate e una specie di corruccio in tutta la fisonomia, ebbe sdegno di sè medesima, arrossì, poi sorrise lievemente, come si fa dei capricci d'un bambino, e venne fuori di là.

Si trovò dinanzi nuovamente la tela che ricopriva il lavoro di Guido. Sentì più di prima dispiacere che là fossero ritratte le sue sembianze. Andò presso la statua, salì sopra lo sgabello di cui si serviva lo scultore medesimo per lavorarci, e si diede a levar via il panno che ricopriva la creta. Quando la testa le apparve, Maria gettò un grido di meraviglia e di ammirazione. Questa testa era davvero la sua, quei tratti erano i suoi, ma animati dalla dolcezza amorevole d'un sorriso quale Maria non s'era mai visto nell'immagine che glie ne rifletteva lo specchio, quale non si credeva nemmen capace di poter abbozzare colle sue labbra.

Lasciando ancora velato il resto del corpo, ella stette lì a contemplare quella testa con tanta grazia modellata, piena di tanta vita, meravigliosa di tanta bellezza. Le pareva che a lei si rivelasse come una sorella, la quale col suo sorriso le manifestasse un intenso amore e le penetrasse nell'anima.

Giunse le mani ed esclamò con tutta ingenuità:

“Oh cara!.. E sono io?”

Tacque vergognosa e si guardò intorno, quasi temendo che alcuno l'avesse potuta udire; poi un dubbio gliene venne.

“No, no, è impossibile ch'io sia tanto bella!”

Saltò giù lesta e corse dietro il paravento a mirarsi nello specchio. Il rossore ne animava le guancie; non era mai sembrata così leggiadra a sè medesima. Si provò a far quel sorriso amoroso che aggiungeva tanta malía al volto del suo ritratto; e dopo due o tre tentativi le parve non se ne discostasse di troppo. Tornò alla contemplazione della statua.

“Ma questo è uno stupendo lavoro” diceva a sè medesima. “Io non avrei mai creduto che mano d'uomo fosse capace di tanto… Ed è Guido?.. Egli è dunque un genio?.. Ed è a me che s'è rivolto il suo pensiero?.. Oh come doveva avermi presente ai suoi occhi!.. Ma per ricordare così particolarmente i tratti di qualcheduno, bisogna proprio averli ben impressi nella mente… e forse anco nel cuore… vediamo un po'… se io avessi da ricordarmi i suoi… di Guido?”

Si concentrò un momento.

“Eh via! Appena è se mi sono presenti i tratti principali della sua fisonomia… È una bella figura, franca, aperta, intelligente, con qualche cosa di dolce insieme, lo so; ma poi?.. Ah rassomiglia molto a sua madre; e le care sembianze d'Anna le ho sì contemplate frequenti volte con tanta soavità d'emozione!.. Come le trovavo leggiadre!.. E davvero le son tali!.. Eppure se le avessi da riprodurre, da descriver soltanto, io nol saprei… Bene avrei saputo ciò fare di quelle della povera nonna: sì che le avevo presenti al mio pensiero sempre quelle là!.. Ma ancor esse ora si sono un po' sbiadite nella mia memoria; e l'amavo pur tanto la mia nonna; e l'amo!..”

Questa parola che cadde quasi inavvertita dalle sue labbra fece su Maria un indicibile effetto quando se la udì suonare all'orecchio. Si riscosse: fu per lei come un lampo che illumini a un tratto l'oscurità in cui alcuno sia avvolto, e gli faccia scorgere dove si trova; fu come una voce estranea, la quale, a chi cerchi la soluzione d'un enigma, ne dica ad un punto il motto. Chinò la testa e stette un poco meditando.

Poscia la curiosità la punse di vedere intiera l'opera di Guido. Risalendo sullo sgabello, tolse via del tutto i panni che la coprivano. La figura di donna era rappresentata senza alcun velo… Maria se ne adontò ed arrossì, come se offeso sentisse il suo pudore. Le tornò subitamente il pensiero di quelle donne che venivano e che forse avevano visto quella statua, e sentì un'ira, un corruccio contro Guido quasi gliene avesse fatto un oltraggio da non perdonarsi.

Però la bellezza dell'opera chiamò quasi a forza la sua ammirazione. In quelle linee c'era una purezza, in quella leggiadria c'era per così dire un'onestà, in quella verità c'era un sentimento che io chiamerei di rispetto, che faceva casta quella nudità ideale della forma.

················

Mentr'essa era più assorta nella contemplazione di quel capo d'arte, agghiacciò tutta, la curiosa fanciulla, nel sentir ad un punto aprire in fretta l'uscio dello studio che dava nel cortile. Di certo era Guido che rientrava. Dalla scala a chiocciola che conduceva al quartiere, Maria era troppo lontana per potervi correre senza essere veduta…

L'uscio era lì lì per girare sui cardini e dar passo a chi veniva. Piuttosto che essere colta in quel luogo, ella avrebbe dato non so che. Non sapeva cosa fare. Corse al paravento ed ebbe appunto tempo di mettervisi dietro, palpitante, che Guido entrava accompagnato da un suo collega.

XII

Mentre Guido richiudeva l'uscio d'ingresso, il compagno s'inoltrava nello studio e i suoi occhi cadevano di subito sulla creta in cui era modellata l'immagine di Maria.

“Ah!” esclamò, “finalmente ho la ventura di contemplare il tuo misterioso lavoro.”

Ma non aveva ancora finito, che Guido, volgendosi e vedendo scoperta la statua, aveva mandato un'esclamazione di stupore e di dispetto, s'era slanciato sul panno che era in terra, poi salito di balzo sullo sgabello, in meno che non si dice, aveva ricoperta così bene l'opera sua che non si poteva più scorger nulla.

“Per Dio! Vorrei un po' sapere chi è stato qui mentr'ero fuori ed ha avuto l'audacia di levar via questo panno.”

E l'amico un poco punto da questo procedere di Guido:

“Sai che ti si può chiamare un originale senza farti torto:” diceva. “Tu tieni nascosto quel tuo lavoro più che non farebbe un Turco geloso della donna dell'amor suo.”

“Il paragone è più giusto di quel che credi:” si lasciò scappar detto Guido.

“Buono!” soggiunse ridendo quell'altro. “È dunque la statua della tua bella? Ora capisco!.. Si dice che non hai voluto nemmeno una modella perchè occhio profano non la mirasse.”

“È vero.”

“Cospetto! c'è qualche cosa dei tempi antichi in codesto: un profumo di medio evo. Tu mi sembri un artista del quattrocento degno di figurare in un romanzo.”

“Io faccio quel che mi piace:” disse Guido seccamente, come chi desidera che il discorso si tronchi.

“Fa' un'eccezione per me; lasciami vedere questa che a me parve una bellissima cosa, e ti giuro che non ne fiaterò con anima viva.”

E fece un passo verso la statua, come per volerne alzare la tela.

Guido se gli pose risoluto dinanzi.

“No,” disse. “Per nessuna cosa al mondo consentirò che altr'occhio veda i tratti di questa mia opera prediletta. Guarda! Piuttosto, se non potessi altrimenti difenderla, la infrangerei, te lo giuro!”

“Come Rolla nel dramma Un capolavoro sconosciuto;” disse l'amico ridendo.

Ma Guido lo guardò in un certo modo da non incoraggiare la sua ilarità.

“Senti!” disse in tono burbero e secco, “tu sei venuto per prenderti que' certi disegni.”

Aprì una larga cartella e li trasse fuori.

“Eccoli qui; pigliali e Dio t'accompagni.”

“Diavolo! Tu mi metti alla porta in un modo punto gentile.”

E Guido, con voce e tono più miti e benevoli:

“Lasciami, te ne prego: ho bisogno di lavorare, e più d'esser solo… Compatiscimi. Io, vedi, sono in una strana fase della mia vita. Non mi riconosco più io stesso. Ah! tu non sai che cosa sia un vero amore alla nostra età, per un'anima d'artista!”

E come vide che quell'altro voleva parlare, soggiunse vivacemente:

“Ah! non domandarmi nulla, non dir nulla. Soffro, e m'arrabbio;… e m'è caro soffrire. Giudicami pure un pazzo: lo sono; ma abbi tu buon senno e la generosità di non darmi nè consigli, nè conforti, nè di farmi interrogazioni a cui non risponderò… Addio.”

Quell'altro uscì stringendosi nelle spalle, dopo avere stretta la mano all'amico con pietosa sollecitudine.

Quando Guido si credette solo, serrò a chiave l'uscio dietro l'amico partitosi, andò lentamente alla statua, e la scoprì con un certo rispetto. Poi le si pose dinanzi e stette a contemplarla, rapito, con tanta passione nello sguardo che era una tenerezza il vederlo.

Durante il colloquio dei due artisti, il cuore di Maria aveva con profonda emozione palpitato. Diverse e le più nuove sensazioni si contendevano il suo animo. Temeva d'essere scoperta colà ad ogni momento. Che avrebbe detto, che avrebbe fatto, se mai la trovassero lì appiattata? Dio che vergogna! Quale confusione!

Frattanto le parole di Guido, che rivelavano tanto amore, la conturbavano tutta e con una soddisfazione, di cui non avrebbe immaginata l'uguale mai. Trovò lento a partirsi quell'importuno che era venuto con Guido; e poi, quando colui fu uscito, ed ella si seppe sola con lo scultore, una specie di paura, un malessere la invase, che le fece desiderare qualcheduno sopraggiungesse. A questa inquietudine, della quale non sapeva, nè cercava pure di darsi una ragione, ella attribuì il rapido battito del suo cuore, fattosi così forte che fu costretta a porvi su una mano, come per frenarlo. Mai non aveva provate così acute emozioni; se ne stupiva, e un intimo senso, di cui non era padrona, glie le faceva trovare, nella loro violenza, dolcissime.

“Ah! ancor io ho un cuore!” si disse ad un punto premendosi più forte il petto con ambe le mani.

A traverso una commettitura del paravento, ella poteva scorgere per intiero quello che succedesse nello studio, e l'occhio suo, più vivido e animato dell'ordinario, vi lanciava uno sguardo di cupida curiosità.

Guido, le mani giunte, stava in muta adorazione innanzi al simulacro di lei. Le chiome scure, gettate all'indietro, lasciavano scorgere in tutta la sua bellezza, la vasta e intelligente di lui fronte. Gli sguardi lampeggiavano; le labbra semichiuse in una specie di sorriso, che avreste detto estatico, lasciavano passare grave quasi affannoso il respiro. Nella sua figura, nel suo aspetto, nel suo contegno, egli aveva forza insieme e grazia, l'imponenza della virilità congiunta a tutta la tenerezza della passione.

Maria lo mirava con involontario, inavvertito commovimento. Il Guido di quell'istante, essa non lo aveva visto mai. Le pareva una rivelazione.

Lo scultore sollevò le mani ancora serrate verso la statua, come si fa da un devoto, pregando, e parlò con voce sì dolce, che la fanciulla nascosta se la sentì penetrare nel cuore.

“Che occhio umano t'abbia da vedere fuori che il mio, o diletta, no, no, non lo voglio. Tu sei mia – e solamente mia, tu creta da me plasmata sull'immagine di quell'angelo adorato, – tu mi appartieni, e ti possiedo senza contrasto, ignoratamente, e tutta!.. Neppur essa mi ti può togliere; neppure la sua ostile freddezza può contenderti a me. Io t'ho formata, più che colle mani, coll'anima mia; tu sei la visione della mia fantasia fatta realtà; tu sei la parte migliore del mio cuore estrinsecata… T'amo sai, t'amo; e a te lo posso dire, e in te non vi ha come in lei cipiglio severo che mi gela sul labbro le parole, e innanzi a te ho coraggio di tutta effondere la passione che m'arde.”

Salì sullo sgabello e vi si acconciò mezzo inginocchiato, mezzo seduto innanzi alla statua.

“Oh sorridimi, diletta mia!.. Oh guardami Maria!.. Abbi tu almeno pietà di me… Non sai? Ella è più insensibile del marmo in cui vo' tradurre le tue sembianze, ella ha sotto le sue carni meno cuore di quello che abbia tu nel tuo corpo di creta; ella che nulla vide mai del mio turbamento al suo cospetto, che nulla sentì mai di questa febbre d'amore che m'arde per lei!.. Sorridimi, sorridimi… Ah no! non è questo ancora il sorriso che ti vidi ne' miei sogni.”

Si drizzò di scatto e fu per portar la mano sul volto della statua; ma si trattenne.

“No, no… ch'io più non ti tocchi… Non può più oltre l'arte mia… e desiderio d'uomo, per quanto intenso, non può compire miracoli.”

Scese dallo sgabello e si pose a passeggiare per la stanza, la fronte china. A Maria s'accrebbe l'ansia. Dopo un istante, Guido tornò a fermarsi innanzi alla statua.

“E dire che a lei non oserò mai parlare come parlo a te! ch'ella ignorerà forse per sempre ciò che accade in quest'anima!.. Se lo sapesse, s'io le svelassi la mia fiamma, chi sa ch'ella non avesse da esserne commossa! Se le dicessi come tutto l'esser mio anela verso di lei; come e dì e notte, e veglie e sonno, e cuore e cervello, e pensiero e sensi, tutto in me è pieno di lei, della sua immagine, d'uno spasimante desiderio, d'un incessante delirio per essa! Come ogni suo atto è per me una seduzione, come il vederla è una necessità della mia vita, come degl'impeti di passione m'assalgono nel contemplarne la bellezza da gettarmi in terra a baciar l'orma dei piedi suoi!..

“Oh destare quell'anima assopita in tanta avvenenza di forme, suscitarne la potenza d'amore, farla palpitare sotto il mio amplesso e fruirne i primi, i celesti, i casti trasporti, e fare sbocciare dalla fanciulla la donna, fare scoppiare dalla superba indifferenza il palpito espansivo, il voluttuoso abbandono dell'amore! Sarebbe il paradiso sulla terra. Darei per possederlo il mio sangue, tutta la vita che mi rimane…

“Tu non sospetti nemmeno, o Maria, che cuor d'uomo possa accogliere e sopportare tali tremendi spasimi, che sono inesplicabili e potenti come la morte, che sono un nulla e che contengono l'universo. T'amo con tutta la potenza dell'anima. T'amo, come non ho amato mai, neppure il tanto seducente fantasma della gloria. Per me, e gloria e felicità e amore e tutto si comprende in un tuo sorriso… T'amo, e tu sei più insensibile che questa fredda creta, e tu frapponi fra il mio cuore e il tuo una barriera di ghiaccio… Oh quanto mi fai soffrire, tu non lo sai!”

Cadde in ginocchio innanzi all'opera sua, e un singhiozzo gli ruppe dal petto.

“E non ho speranza! Quella tua indifferente venustà mi sembra sì alta, sì olimpica, che mai, mai non potrò giungere sino ad essa… Questo sorriso ch'io t'ho dato e che qui, solitario, vagheggio è una menzogna con cui m'illudo, lo so bene: tu, Maria, mai non mi amerai, come mai non potrà intendere le mie parole e sentire la mia passione questa grossolana materia in cui ho informato la tua immagine… Ah! s'io fossi Prometeo e potessi rapire al fuoco del cielo una scintilla, onde animare, non fosse che per un istante, quest'opera mia! Potess'io coll'intensità del mio desiderio compire il miracolo di Pigmalione e dar vita un'ora soltanto alla mia Galatea… un'ora d'amore, di delirio, e poi morire!”

Si strinse con ambe le mani la testa, come chi sente la ragione sfuggirgli, e chinò il volto a terra tutto disfatto, e piangendo inconsciamente silenziose lagrime.

A un tratto udì vicino a sè un fruscio di vesti, un passo leggero, un lieve respiro affannoso. Il sangue gli si rimescolò, e in sussulto egli levò il capo e drizzò la persona. Il suo desiderio si era effettuato; il miracolo agognato si era compiuto. In Galatea era entrata l'anima: innanzi a lui stava Maria, la sua statua in carne viva, arrossita, sorridente, le labbra tremanti, una divina fiamma d'amore negli occhi.