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Loe raamatut: «Tre racconti», lehekülg 8

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XIV

“Parlò poscia, ma non colla solita sua scioltezza. Aveva letto i miei componimenti, ed aveva visto l'oggetto dell'amor mio. Di questo discorse con entusiasmo; la giudicava la più bella figura di donna, le cui sembianze rivelassero una natura eletta; abilmente, in mezzo a un diluvio di parole, mi fece comprendere essere una follia in me l'amarla, un'imperdonabile follia poi se con qualche speranza. Compresi come, secondo lui, io fossi condannato all'infelicità, e sarei stato ingiusto a pur lamentarmi del mio destino.

“Sentivo una gravezza, come cappa di piombo, scendermi e pesarmi sull'anima. Imbiancavo a volta a volta ed arrossivo nel viso; mi veniva difficile il respiro.

“Finalmente entrò a discorrere de' miei versi.

– «Me ne rallegro teco. Non c'è male. Alcune stranezze di un gusto non perfetto; ma con qualche ritocco qua e là, con qualche correzione, cambiando qualche verso, davvero che mi pare si possano ridurre una cosa più che mediocre.»

“Io aveva chinato il capo e tacevo.

– «Anzi ho pensato ad una cosa:» soggiunse. «Mio caro, le nostre produzioni letterarie, per giudicarle a dovere noi stessi, bisogna vederle stampate. La stampa è come alle sceniche composizioni la luce della ribalta; se tu acconsenti, voglio fare stampare i tuoi scritti.»

“Tacevo sempre.

“Alfredo riprese a dire, che aveva giusto sotto i torchi un volume di sue poesie, che avrebbe a quelle aggiunte le mie, e così introdottele nel mondo letterario sotto il patrocinio del suo nome, già conosciuto e circondato di qualche riguardo.

“Tacevo, ma la mia mente lavorava in modo febbrile. I miei versi, stampati in nitide pagine, con nuova ed efficace leggiadria, mi turbinavano innanzi, atteggiandosi, per così dire, a mirabili forme, esplicando una segreta armonia di dolcissimi suoni.

“Li vedevo apparire come luminosi agli occhi della gente, li udivo cantare nell'orecchio ammirato degli uomini, sentivo ripetuto dagli echi della terra con plauso, il mio povero nome.

“Alfredo aveva voluto persuadermi della mia indegnità per la donna che amavo. Una mai provata superbia gonfiava invece l'anima mia. Oh no, non ero indegno di lei. Il genio che mi possedeva, era capace d'innalzare il mio essere sino all'altezza di quell'angelo umanato. Le mie opere l'avrebbero dimostrato; lo dimostreranno in fè di Dio, giuravo in segreto a me stesso.

“L'amico mi chiese, non senza qualche inquietudine, se acconsentivo alla sua proposta.

– «Sì,» risposi debolmente con una simulata indifferenza, abbandonando nelle sue la mia mano diventata fredda ed inerte.

“Ma dentro me quale tumulto!

“Le mie prime poesie si stamparono poco dopo nel volume pubblicato da Alfredo, e comparvero sotto il suo nome; erano pubblicate quali io glie le aveva date, senza la correzione d'una virgola. Provai nel vederle un misto di sentimenti contrari, indicibili. Mi parvero sublimi, mi parvero ridicole; ne sentii ora orgoglio, ora vergogna; provai una rabbia dolorosa nel vederle andare sotto nome d'un altro, una specie d'acuta gelosia, e poi dissi a me stesso che così era anche meglio: ritirato nella mia cameretta, pensai con satanica superbia che la mia opera aveva gran pregio, ma che io era capace tuttavia d'assai più.

“Alfredo ebbe da quella pubblicazione molta rinomanza. Gli si disse che aveva trovate vie nuove, che aveva rivelato un nuovo lato del suo genio, manifestata una nuova potenza della sua poesia. Mi venne intorno più amorevole che mai. Io non metteva insieme due parole, senza tosto comunicarle a lui. Talvolta mi suggeriva alcune idee, mi abbozzava qualche argomento; poi ammorzava alcun colore troppo acceso, temperava taluna immagine troppo ardita della mia poesia; e quando poi le composizioni erano al termine, le chiamava con tutta franchezza, fra noi due, nostre, in pubblico sue, senza uno scrupolo.

“Mi adattavo a codesto suo modo ma, come potete pensare, non soddisfatto.

“Un giorno, finalmente, la mia tolleranza mi parve una debolezza e una viltà; il procedere d'Alfredo una pirateria a mio danno.

“Non vi ho ancor detto come praticassi nella casa della fanciulla amata. Il padre di lei, pietoso alla mia povertà, avevami dato un umile ufficio nella ragioneria dei suoi grandi capitali e delle sue vaste tenute; ero poco più d'un servo in quello sfarzoso palazzo, ma vi ero accolto con una specie di domestica fiducia.

“Un giorno, entrando nel salotto, trovai Albina intentissima alla lettura con una profonda emozione da questa prodottale, le guancie affocate, gli occhi per lagrime lucenti, il seno agitato. Dio del cielo! Ella stava leggendo i miei versi.

“Albina fuggì, come per nascondermi la sua emozione. Io rimasi là, piantato, invaso il cuore da un'improvvisa, ineffabile dolcezza. I miei versi avevano parlato all'anima di lei!

“Ma ad un tratto una terribile idea mi ferì come la punta di uno stile, il cervello e il cuore. I miei versi, per lei come per tutti al mondo, non erano miei; ad altri ella attribuiva que' sentimenti, que' pensieri, quella passione; ad altri ella attribuiva il merito di quel suo commuoversi e del suo palpitare. E s'io le avessi detto ch'era mia quell'ispirazione, mi avrebbe ella creduto?

“Una specie di furore subitamente m'invase. Volli che Alfredo mi restituisse la rinomanza che a me aveva derubato; mi restituisse soprattutto la simpatica commozione e forse l'ammirazione d'Albina. Sentii a quel momento il primo impulso di odio che avessi ancora provato mai, io che il mondo e la sorte avevano sì crudelmente bistrattato sempre; e quest'odio lo sentivo per colui che primo aveva mostrato aver di me alcun pietoso riguardo!

“Corsi da Alfredo, e tutto ancor concitato lo minacciai di svelare il segreto della paternità dei suoi libri. Egli si fece bianco in volto, e i suoi sguardi dapprima lampeggiarono di sdegno e di minaccia; poi tosto si raumiliò, come non avevo mai visto alcuno umiliarsi, come non lo credevo capace di fare, egli, con la sua fierezza.

“Mi disse che avrei distrutto ogni sua felicità, che avrei cagionata la sua morte, perchè di certo egli si sarebbe ucciso a tanta vergogna; mi pregò colle lagrime agli occhi: giurò che, io tacendo, avrebbe egli fatto per me qualunque cosa che gli avessi chiesto, datomi anche la vita.

“Quell'affetto, che da tanto tempo avevo in lui, risorse tutto in un attimo e maggiore di prima. Mi gettai nelle sue braccia, piangendo ancor io.

– «Amami soltanto, Alfredo,» gli dissi: «e di tutto mi avrai compensato.»

“Giurai di tacere per sempre.”

XV

“Era mio proposito accingermi con nuova lena al lavoro, e riguadagnare in breve il tempo per la mia fama perduto: ma luttuosi avvenimenti me ne impedirono.

“Il padre d'Albina ebbe subiti e irreparabili rovesci di fortuna. Come sempre accade nel mondo, tutti coloro che a lui avventurato erano amici compiacenti e cortigiani, lo abbandonarono. Io gli venni innanzi umilmente, quasi tremando, e dissi:

– «Sono povero, e buono a poco o nulla; ma tutto quello che ho e quello che valgo, pongo in poter vostro. Disponete di me.»

“Quell'uomo, superbissimo fino allora dei suoi natali e delle sue ricchezze, che altro non aveva avuto mai per me che una compassione altezzosa, parve stupito ed ammirato del mio tratto. Aveva coraggio e volontà tenace; era di quelli che, prima di abbandonarsi in balía della corrente che li travolge, s'attaccano a qualunque ramo, per debole ch'esso sia, fosse pur anche spinoso da insanguinarvisi le mani. Accettò la mia offerta, le pochissime mie sostanze sparvero in un attimo in quel baratro che la sventura aveva scavato sotto i piedi a quella famiglia; e lavoravo tutte le ore del giorno per essa! Il padrone, diventato burbero, atrabiliare, mi comandava in modo aspro come si fa ad un servitore negligente; Albina mi ringraziò una volta con sublime semplicità, stringendomi la mano, gli occhi gonfi di lagrime. Che avrei io potuto desiderare di più?

“Bene o male, di questa guisa ero diventato quasi uno della famiglia e n'andavo superbo. Vedevo Albina tutti i giorni, stavo delle ore a guardarla, pallida e severa nella sua mestizia; m'inebbriavo spesso della ineffabile gioia d'udire la sua voce. N'ero quasi felice. Dear, il cagnolino di lei, mi faceva le feste più amorevoli del mondo.

“Ma il padre d'Albina non potè vincere in niun modo la troppo avversa fortuna. A un punto, perduta ogni speranza, egli perdette ogni coraggio, ogni forza di spirito e di corpo. Morì di lì a quattro mesi. Io mi diedi tutto e sempre più all'arido lavoro degli affari, per sopperire ai bisogni di quella disgraziata famiglia.

“Addio poesia, addio lettere, addio arte, addio sogni di gloria! M'imbestialivo nelle cifre da mane a sera, nè mi lamentavo, nè desideravo di meglio. Albina era tanto bella, anche nel suo dolore!..

“Passò circa un anno. L'amavo sempre più. Ad un punto m'accorsi che un cambiamento non lieve erasi fatto in Albina. Le guancie eranle divenute più rosee, più brillanti ed espressivi gli occhi, più dal sorriso animate le labbra. Una certa misteriosa fiamma appariva di quando in quando sul suo volto; aveva subite contrarietà e improvvise tristezze avvicendate a giocondità, di cui non sapevo rendermi ragione. Pareva avere alcuna cosa da dissimulare. Si piaceva molto a restar sola; sovente la coglievo immersa in profondi pensieri; molte volte era d'un'amabilità maggiore ancora del solito. Attribuivo codesta mutabilità allo svolgersi della sua fiorente giovinezza soltanto.

“Ma l'amor mio oramai era tale, che non potevo più rimaner in silenzio. Il mio cervello era in un esaltamento che non lasciava più luogo alla ragione. Un giorno ella fu meco più amorevole dell'usato; il sangue mi s'infiammò nelle vene mandandomi vampe di calore alla testa. Pareva ella volesse aprirmi il cuor suo, e la piena del mio traboccava verso di lei. Incoraggiato da' suoi modi, dalle sue parole, mi rivelai…

“Me disgraziato! Come potei avere tanto temerario ardimento?

“Ella impallidì; si trasse vivamente in là, mutò subito maniere ed aspetto; si premè con una mano il cuore, e quando io a quella vista mi tacqui sovraccolto da un tremito improvviso, ella gettò un grido e fuggì.

“La mia sentenza era pronunciata. Caddi in ginocchio in quel punto dove ella era poc'anzi, e sentii il cuore rompermisi dall'affanno. Avevo di me stesso vergogna. Poter credere di essere amato! Io? Oh ella doveva ridere di me. Non avevo ottenuto che di sciogliere quel poco legame che mi avvinceva a lei, e che era pure il mio solo bene. Come avrei potuto ancora venirle per casa? come rivederla?

“Quello non era ancora il maggior dolore che mi dovesse toccare; ed era già sì grande! Ricevei quel medesimo giorno una lettera d'Albina.”

XVI

“In quella lettera ella mi narrava come, fin da quando era ancor giovinetta, avesse dato il suo cuore ad un uomo; i dolori e le sventure sopravvenute non avere quell'affetto cancellato, e ora che l'occasione era nata in cui aveva potuto con quell'uomo accontarsi, tratti da scambievole amore, essersi giurata eterna fede. Volessi compatirla; seguitassi ad amarla come fratello: non le amareggiassi la felicità del suo corrisposto affetto col pensiero ch'io soffriva per lei…

“Ah! dovevo rinserrare nel cuore la cruda angoscia e comparirle dinanzi sorridente, lieto testimonio della felicità d'un altro!

“Non vi dirò che rodimento fosse il mio. Immaginatevi quanti più acuti tormenti possa cuore umano provare in uno spasimo uguale a quello dell'agonia!

“I miei primi propositi furono propositi di sangue. Nella mia mite natura l'angoscia trovò pur tanta ferocia da farmi provare una voluttà nel pensiero d'uccidere quell'uomo che possedeva un tanto bene a me negato, d'uccidere anche lei!..

“Ma questo violento parosismo di furore in me non poteva durare. M'accasciai sotto la sciagura che mi percuoteva, piansi disperatamente; e quando ebbi tutte versate le mie lagrime, mi levai con animo risoluto e corsi da Albina. La volevo ad ogni costo felice, lei; a costo anche d'ogni mio bene.

“Avete avuto torto, le dissi, a non confidarmi tutto. Ora trattatemi davvero da fratello, e io benedirò alla vostra felicità.

“Udite quel che Albina mi rispondesse.

– «Sono due anni, mi veniva alle mani un libro di poesia; appena letti pochi versi, la mia attenzione fu tutta raccolta in quella lettura. Quei versi parlavano all'anima mia un nuovo linguaggio che tutta la padroneggiava. Erano l'espressione del più nobil cuore e del più nobile ingegno: erano la voce del più sublime affetto. Lessi avidamente, commossa, palpitante. Mi ricordo che voi entraste in quel punto; ed io confusa, turbata, vergognosa, indispettita d'essere colta in quell'emozione, fuggii.»

“Io gettai un grido a quelle parole, e la guardai con occhio smarrito; ella continuò:

– «L'autore di quelle sì leggiadre poetiche creazioni mi apparve l'uomo più degno d'amore che fosse al mondo; l'amai sino da quell'istante. Quando l'ebbi veduto di poi, Alfredo m'apparve superiore ancora a quell'immagine che io m'era di lui formata.»

“Pensate qual io rimanessi! Alfredo adunque, non solo la fama mi aveva derubata, ma l'amore di lei! Obliai in quel momento che io aveva giurato di tacer sempre, obliai tutto: mi gettai ai suoi piedi, proruppi coll'impeto d'un pazzo: – Ma quei versi erano miei; ma era mia quell'anima che parlava alla tua, mio quel genio che ammirasti, mio l'amore che hai sentito fremere in quell'armonia di parole… —

“Ella dapprima non comprese; mi credè assalito da un accesso di dolore che mi levasse di senno: si curvò pietosamente su di me, volle farmi alzare, mi sussurrò qualche benigna parola; ma giurando, ripetendo, insistendo io, alfine comprese quel che volevo significare; allora non parlò più, si allontanò e mi saettò uno sguardo di indicibile disprezzo.

– «Sciagurato! diss'ella con accento non dissimile da quello sguardo: la vostra è peggio che imprudenza, è un'infamia.»

“E mi lasciò, allontanandosi con passo affrettato.

“Oh essere fulminato dal disprezzo della donna che si ama, senza meritarlo! I feroci impulsi mi si ridestarono nell'anima. Forsennato, corsi da Alfredo, lo minacciai, lo supplicai, levai la mano armata su di lui; egli, robusto, disarmò il mio debole pugno e mi atterrò con dispettoso disdegno… Che più? fui vinto in tutto. Fui proclamato un tristo, un calunniatore, scacciato dalla casa di lei, bandito dagli amici di lui, creduto da tutti un pazzo, un cattivo uomo.”

XVII

“Fui ammalato gravemente, e quasi due mesi gemetti in un ospedale; uscito di là, m'aspettava la miseria. Quante giornate senza pane! quante notti senza sonno, e nessuna speranza di gioia mai per tutta la vita!

“Mi rimisi al lavoro. Ottenni alcuni trionfi, e questi mi procurarono nuovi nemici: una polemica rabbiosa e crudele che mi era stuzzicata contro da Alfredo, mi perseguitò senza tregua; intristito, risposi offesa ad offesa, invettiva ad invettiva, oltraggio ad oltraggio.

“Erano trascorsi due anni: Albina, io non l'aveva più vista mai; l'avevo sfuggita con cura; nulla temevo di più che trovarmi a fronte di lei.

“Un giorno passeggiavo solitario, come sempre, in un viale fuor di città, a quell'ora deserto. Avevo il capo chino, e, ingolfato nei miei pensieri, non vedevo nulla di quanto mi circondasse, quasi non sapevo più nemmeno dov'io mi fossi.

“A un tratto ecco gettarmisi tra le gambe, festosamente abbaiando, un cagnolino. Sussultai; era Dear, il canino d'Albina. Oh come mi sentii battere il cuore! Come mi parve d'amarla quella povera bestiolina che avevo affatto dimenticata! Essa però non avevami dimenticato, no; mi aveva tosto riconosciuto, e mi salutava con affetto, e mi faceva più vive che mai le sue solite dimostrazioni di gioia e di benevolenza. Mi curvai verso il cagnolino per rispondere alle sue carezze; volevo prenderlo tra le braccia e baciarlo.

“Ma ad un tratto un pensiero mi agghiacciò il sangue nelle vene. Con chi era essa, quella bestiuola? Alzai gli occhi; mi vidi innanzi Albina, che s'accostava a richiamare il suo cane, e guardare chi fosse quell'uomo a cui Dear faceva tante feste. Avrei voluto che in quel momento la terra mi si aprisse sotto i piedi. Ah! in qual modo mi guardò Albina! Lo sguardo di sdegno con cui m'aveva saettato, quando avevo voluto svelarle che i versi d'Alfredo erano miei; quello sguardo era mite e benevolo in paragone… Dio la perdoni! Ella con quel suo sguardo uccise l'anima mia. C'era tanto disprezzo, tanto odio, tanto orrore, che io allibii. Non una parola, non una voce nè l'uno nè l'altra. Ella volse disdegnosamente altrove il passo, chiamando con voce secca ed imperiosa il suo cane. Io lasciai cadermi abbandonate le braccia lungo la persona in uno stato di prostrazione dolorosa.

Dear, tutto stupito del nostro contegno, stette in mezzo a guardarci. Ella tornò a chiamarlo imperiosamente.

“L'intelligente bestiola corse a lei, le salterellò intorno un poco; poi tornò verso di me, e ripetè le sue festose dimostrazioni. Egli solo s'era conservato per me quel di prima; egli solo non aveva cambiato in odio ed in disprezzo quel poco affetto che m'aveva donato.

“Lo accarezzai, lo presi in braccio, lo baciai, e rimettendolo in terra, perchè potesse raggiungere la sua padrona che si allontanava con passo sollecito, gli dissi: – Va', e possa tu almanco non obliarmi, se d'ogni altro che amai, devo pregare, come una fortuna, l'oblio. —

XVIII

“Non c'era più alcun ritegno fra noi: Alfredo ed io ci trovavamo a fronte come nemici mortali, e il mondo crudele, aizzandoci alla lotta, godeva nel vederci scambiare dolorosi colpi al nostro cuore.

“Una mia nuova pubblicazione diede pretesto a un mordacissimo articolo di critica, in cui le ingiurie e le accuse, con accorte insinuazioni, erano lanciate a piene mani su di me; sotto a quello scritto c'era il nome d'Alfredo. Se ne fece un gran chiasso in tutta la città; tutti s'aspettavano ch'io avrei provocato a duello il mio offensore: nol feci.

– «È un vile:» si disse di me in tutti i salotti, in cui fioriva prospera e petulante la mormorazione.

“Tutte le simpatie erano pel mio avversario, e diventarono ancora maggiori.

– «Da bravo!» gli si diceva da ogni parte; «quello è un rettile che non sa mordere che colla penna. Bisogna schiacciarlo, e nessuno meglio di voi lo può fare.»

“Io pur sempre condannai il duello che stimo un'assurdità o ridicola o assassina. L'esistenza d'un uomo mi è sempre parsa cosa troppo importante per avventurarla in una vendetta dell'oltraggio, nella quale la sorte il più spesso, od una scellerata perizia d'uccidere, dànno torto alla ragione e ragione al torto.

“Mi tacqui. Una seconda diatriba più niquitosa, più audace, più calunniosa della prima, col nome d'Alfredo ancor essa, venne a far ridere tutta la città alle mie spalle.

“Uguale alla perfidia si disse in me la codardia. Una rabbia irrefrenabile allora mi prese. Intinsi la penna nel fiele, nel veleno, e risposi con la più fiera invettiva, senza misura, senza riguardi, tutto rivelando di quanto era avvenuto fra Alfredo e me.

“Fu uno scandalo inaudito. Il mondo mi disse un calunniatore, e Alfredo mi mandò a sfidare.

“Volevo rifiutare il combattimento. Mi si fece comprendere che, dopo un fatto simile, sarei senza redenzione perduto nel concetto universale. Ebbi paura dell'ignominia; accettai.

“Non avevo mai preso in mano un'arma. Non m'ero mai esposto, nè la sorte mai mi aveva ancora messo innanzi ad un pericolo di vita. Se avessi coraggio o no, non sapevo io stesso. Ero solo al mondo, non rallegrato pur da un affetto; e la mia morte non avrebbe costato a nessuno un dolore, a nessuno pure una lagrima. In certi momenti di quelle ore fatali che precedettero lo scontro, quel mio triste stato mi dava una disperazione che mi avrebbe lanciato con ardore verso la tomba, come verso il riposo.

– Che fo io sulla terra? – mi dicevo. – Gli uomini valgono tutti meno di me: lo sento e lo so, e tutti mi stimano da meno di loro; e la vita non ha per me attrattive di sorta. Non v'è da rimpiangere nè questa nè quelli. Moriamo; e si mostri almeno a questa nemica e codarda razza che mi spregia, come sia facile il coraggio del morire cui essa esalta cotanto, perchè così raro nell'egoismo vigliacco che la domina… E forse innanzi alla mia tomba precoce, ammutirà il livore. —

“In altri momenti, invece, un grande abbattimento mi occupava, che poteva dirsi paura. La mia giovinezza dimandava di vivere. Perchè sacrificarmi ai pregiudizi di quel mondo crudele che mi aveva respinto da sè, che non aveva avuto che spine da darmi? La vita era l'unico bene ch'io m'avessi, e glie l'avrei offerta in olocausto? Avevo l'avvenire per me; avevo quell'ingegno che sentivo superiore; ed avrei tutto gettato in omaggio alle assurde opinioni d'una società, alla quale ricambiavo in doppia misura quel disprezzo ch'essa aveva per me? Di corpo ero più debole che tutti gli avversari miei, forse anche d'animo; ma di mente? Egli era in questo campo intellettuale che io aveva da lottare, e non nella stupida e brutale prova dell'armi.

“Per miei padrini avevo scelto due giovinotti che in tali faccende erano peritissimi. Non avevo amici, e costoro accettarono l'incarico, solamente perchè fra certa gente è usanza che simile uffizio non si rifiuti mai.

“Era di tarda sera, ed io stava nella mia stanzuccia solo, sprofondato in quei cotali pensamenti ed affanni, quando essi vennero a dirmi il risultamento della conferenza coi padrini dell'avversario e le determinazioni prese d'accordo.

“Erano le seguenti: ci saremmo battuti alla pistola; la distanza sarebbe stata di trenta passi, libero a ciascuno dei combattenti d'avanzarsi di dieci; si avrebbero due pistole ciascuno; ad un segno fatto potevamo camminare l'uno verso l'altro e sparare quando ci talentasse; fatti i quattro colpi senza che sangue fosse versato, potevasi ricominciare da capo. Le condizioni erano gravi, come gravi erano state le scambiateci offese. Alfredo le aveva volute tali; ed io dissi con sicuro sembiante che le mi piacevano.

– «Le conseguenze di questo scontro» dissemi poi uno dei padrini, «possono essere serissime. Ci ha ella pensato, ed ha provvisto alle cose sue?»

– «Io non ho nulla a cui provvedere,» risposi. «Sono solo sulla terra, e non lascio persona che mi pianga,»

“Venne a serrarmi la gola un singhiozzo che ebbi molta pena a soffocare.

– «Questo duello ha destato molto l'attenzione di tutta la cittadinanza,» riprese quel medesimo dei miei secondi: «e non potrà a meno di eccitare i provvedimenti della giustizia. Quando ci fosse morte d'uomo, sarebbe meglio al vincitore il fuggire. Si è Ella preparato a codesto?»

“Io vi parlo schietto, come parlerei a Dio il dì del giudizio universale. Non ho più rispetti umani, non ho più vanità personali, non ho più interesse nè desiderio d'infingermi.

“A quel cenno che uno dei due molto facilmente sarebbe rimasto sul campo, mi sentii raccapricciare. Volli fare un sorriso d'indifferenza o di rassegnazione, e sono certo che non riuscii che ad una smorfia affettata.

– «Non penso» diss'io «che a me toccherà lasciar il paese per questa cagione. Se uno dei due avrà da tornar cadavere, ho il presentimento che quello non sarà il mio avversario.»

– «L'esito di questa sorta di cose è sempre nelle mani del caso:» disse quell'altro: «e forse non avevano affatto torto gli antichi che chiamavano il duello giudizio di Dio!.. Non le nascondo che Alfredo è buon tiratore; ma quante volte si è visto in simili scontri avere il di sopra i più inesperti! Non bisogna andare sul terreno colla paura; questo è il più essenziale. Stia dunque di buon animo, e ci aspetti qui domattina, che all'ora convenuta verremo a prenderla.»

“Quindi s'avviarono. Io li accompagnai sino al pianerottolo, a rischiarare loro il cammino. La fiamma della mia lucernetta oscillava troppo più che non avrei voluto. Quando furono giunti alla scala, tesi loro la mano, augurando la buona notte. Quegli che aveva parlato, e che pareva aver posto maggiore interesse nella faccenda, sentì tremar nella sua la mia destra; tornò indietro alcuni passi, e stringendomi forte la mano che non aveva abbandonata e parlandomi sommesso, mi disse:

– «Coraggio! che diamine!.. Un uomo come lei, ha da mancare di risoluzione?»

“Fu punto in me l'amor proprio, e riagì subitamente:

– «No;» risposi con ferma la voce e l'aspetto: «non dubiti. Avrò coraggio; ne ho.»

“Ma quella fu davvero una tristissima notte. Mi parve lunga e breve; l'avrei voluta eterna, e sollecitavo con impazienza le ore… All'alba sentii finalmente giungere e fermarsi in istrada la carrozza con cui i miei padrini venivano a prendermi. Mi guardai allo specchio. Ero pallido molto, cogli occhi infossati e le occhiaie livide; mi percossi dispettosamente le guancie, e precipitoso scesi le scale.

– «Ha ella dormito?» mi chiese quello dei due che mi aveva incoraggiato la sera innanzi.

“La vanità mi diede l'audacia di mentire.

– «Sì;» risposi: «parecchie ore.» – Non so s'egli mi credesse, ma lo finse.

– «Meglio:» esclamò, facendomi salire nella carrozza.

“Questa partì di buon trotto e presto fummo fuori della città. Cammin facendo i padrini venivano dandomi consigli e istruzioni sul come dovevo contenermi; annuivo alle loro parole, ma non potevo ben comprendere quel che dicevano: la testa mi suonava così che parevami udir continuo un rumor cupo di voci lontane: non avevo del tutto la coscienza di me medesimo e de' fatti miei; mi pareva che quello fosse un sogno, che si trattasse di un altro, che io mi trovassi lì soltanto per assistere spettatore indifferente ad una tragedia che non mi riguardasse. Poi a un tratto saltava fuori, in mezzo alla confusione della mia mente, questa tremenda interrogazione: – Fra un'ora sarò io vivo?”