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Loe raamatut: «La famiglia Bonifazio; racconto», lehekülg 12

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XIV

In quei giorni papà Gervasio fu invitato a recarsi a Venezia per la firma del contratto di matrimonio di Silvio, e partì subito insieme al maestro Zecchini, che ambì l'onore di servire da testimonio, e furono accolti con ogni cortesia dalla famiglia Ruggeri.

L'avvocato annunziò la determinazione che aveva presa di conservare Silvio nel suo studio, come socio cointeressato in qualche parte degli affari. E questa era una rendita assicurata che rappresentava la dote. Alla morte dei genitori, Metilde figlia unica, restava la sola erede di tutta la loro sostanza. Per ora non potevano dare di più, per non privarsi delle loro abitudini; avevano però provveduto un ricco corredo che avrebbe reso inutile ogni altra spesa per molti anni. In corrispondenza di questi vantaggi, il futuro sposo prometteva un congruo assegnamento alla moglie, in caso di bisogno. Papà Gervasio e il maestro Zecchini restarono con un palmo di naso. Questo contratto era un vero disinganno, perchè in effetto la sposa non portava in dote che un corredo, il quale costituisce una pretesa proporzionale alla sua importanza. L'utile dello studio, limitato ad alcuni affari soltanto, non rappresentava altro che la giusta retribuzione al lavoro del marito. In quanto alla futura eredità essa poteva avverarsi a benefizio dei discendenti, in un tempo assai remoto, ed anche ridursi a nulla.

Ma la domanda era stata fatta senza condizioni, tutte le apparenze lasciavano supporre una bella dote; si erano ingannati, ma la delicatezza e la dignità non permettevano osservazioni, e il contratto fu firmato in silenzio, dagli sposi, dai genitori e dai testimoni con tutta la solennità d'un atto gravissimo che decide la sorte d'una famiglia.

I Bonifazio e Zecchini, dopo i convenevoli complimenti fra gli sposi e i congiunti, uscirono dallo studio in mezzo alle profonde riverenze dei commessi e degli scritturali che spalancavano le porte, e si allontanarono gravemente dalla casa, camminando silenziosi e pieni di dignità, perchè si sentivano osservati; ma appena svoltato l'angolo della strada e fatti pochi passi in sito sicuro, si fermarono tutti tre nello stesso momento, guardarono d'intorno se nessuno li ascoltava, e fissandosi in volto cogli occhi spalancati, ciascheduno espresse in poche parole le sue impressioni:

– Rimango trasecolato! esclamò papà Gervasio.

– Quale insigne asinità! disse Zecchini.

– È stata una solenne corbellatura! conchiuse Silvio.

Il maestro pareva esitante fra l'afflizione di vedere gli amici delusi, e la soddisfazione per il nuovo trionfo della sua teoria. Il padre accusava il figlio di soverchia leggerezza, e il figlio tentava di giustificarsi col lusso della famiglia Ruggeri.

– Il lusso non è sempre prova di ricchezza, gli rispondeva il padre, può essere anche effetto di ambizione, di disordine, di sregolatezza.

– Fumo negli occhi, soggiungeva il maestro, per abbagliare i babbei.

Alle sei in punto, ci fu gran pranzo di famiglia in casa Ruggeri, ed alla sera un pomposo ricevimento per festeggiare i promessi sposi.

Poteva dirsi una vera festa mascherata, perchè ciascuno s'era formato una fisonomia apposta per dissimulare i propri pensieri. L'avvocato affettava la più ingenua bonarietà, la signora Emilia rappresentava perfettamente la tenerezza materna in lotta fra la consolazione per il collocamento della figlia, e il dolore di perderla. Papà Gervasio simulava il volto dell'uomo completamente soddisfatto, sorridente, contento della sua sorte; il maestro Zecchini li guardava tutti sott'occhio, e sentiva in fondo della coscienza di essere il più grand'uomo di quella società, il più profondo, il più giusto, il più sincero di tutti.

Silvio fissava gli occhi negli occhi di Metilde, la vedeva bella come un angelo, e pensava che se la dote era svanita come il fumo, gli restava l'arrosto.

Ci furono brindisi agli sposi e ai parenti, e allegria costante, che proprio non pareva un banchetto di corbellatori corbellati. Eppure era così; la sposa creduta ricca era senza dote; lo sposo creduto un gran signore, aveva una piccola sostanza coperta di debiti.

In quello stesso giorno venne fissata l'epoca precisa del matrimonio, e al mattino seguente papà Gervasio e il maestro Zecchini ritornavano a casa a comunicare alla signora Maddalena le varie impressioni ricevute nella famiglia Ruggeri, prendendo poi il savio partito di dissimulare con dignità l'amara sorpresa, e di rassegnarsi al destino.

I due matrimoni vennero celebrati al tempo stabilito. Prima quello di Maria con Andrea, che partirono subito per la Brianza; e pochi giorni dopo quello di Metilde con Silvio, che si recarono in Isvizzera a fare il loro viaggio di nozze.

Dopo d'aver vagato per monti e per valli, ritornarono contenti del loro pellegrinaggio, e come avevano promesso si ritirarono alla villa Bonifazio, per vivere qualche giorno tranquilli in famiglia, prima di stabilirsi a Venezia.

Papà Gervasio e la nonna ebbero le più delicate attenzioni per la sposa, Silvio la faceva passeggiare pel parco, e la conduceva a visitare le case coloniche e i campi. Egli si fermava davanti gli spazii aperti del giardino, le mostrava le Alpi lontane, il bosco Montello, e quella linea oscura sul monte di Serravalle con alcune macchie d'intorno che indicano la foresta del Cansiglio. Essa guardava sbadatamente come suo padre, e tirava avanti. La nonna la consigliava a uscire di buon mattino per respirare l'aria salubre del Piave; ma essa non voleva bagnarsi gli stivalini alla guazza; le dispiacevano le stradicciuole rurali perchè i sassi le ammaccavano i piedi, e nelle strade più battute c'era troppa polvere e si sporcava l'abito. Detestava l'odore delle stalle, e il fumo delle cucine dei contadini. Era dunque un po' difficile di passare le giornate, che le riuscivano lunghe. Leggeva qualche pagina sbadigliando, si doleva di non avere il pianoforte, e trovava la campagna monotona. Quando passeggiava sotto il portico delle adiacenze, Falcone nitriva invano per chiederle il pane che Maria gli portava sempre, e che gli mancava. Non voleva essere seguita da Argo, perchè quel grosso cagnaccio le faceva paura, e la povera bestia andava in giro colle orecchie penzoloni e la coda bassa, cercando invano la sua amica lontana; mangiava poco, con segni evidenti di profonda malinconia, non andava a coricarsi che sul tappeto davanti al tavolino di lavoro, dove Maria appoggiava i piedi, e guardava attorno cogli occhi tristi, interrogando alla sua maniera la gente di casa.

Anche i colombi svolazzavano inquieti per la corte, cercando colei che mancava. Il solo Mumut continuava impassibile nelle sue abitudini, andava alla caccia dei sorci nel fienile e sui tetti, aspettava immobile, delle ore intiere, davanti il monticello d'una talpa, per spiare un movimento della terra e dare l'assalto alla tana; alla sera si arrampicava sugli alberi per abbrancare qualche povero uccelletto che andava a dormire, e all'ora della colazione e del pranzo non mancava mai dal balcone della cucina dove la nonna gli portava i residui della mensa.

Silvio cercava invano di distrarre la sua sposa, conducendola in carrozza sulle rive del Sile o della Piave; essa preferiva recarsi a Treviso per mettere in mostra i cappellini e i vestiti, e fare invidia alle provinciali colla sua eleganza. Nei giorni piovosi trovava la campagna insopportabile, e non poteva comprendere come si potesse restarvi l'inverno senza morire di noia. Il tedio della solitudine la rendeva acre e mordace; si burlava collo sposo della dabbenaggine dei contadini, della goffaggine degli amici di casa, canzonava la semplicità dei Pigna, e non poteva soffrire le sentenze del maestro Zecchini.

Silvio procurava di abbonirla, la pregava di non farsi sentire da suo padre e dalla nonna, lasciando che quei poveri vecchi conservassero le loro illusioni: la avvertiva che Pasquale aveva il difetto di ascoltare dietro gli usci, e la supplicava d'esser prudente.

Essa non si consolava della solitudine della campagna che parlando di Venezia, e pensando ai piaceri che la aspettavano, ed alla libertà che avrebbe goduta nella sua nuova condizione di donna maritata.

La nonna osservava, indovinava, taceva, e cercava di dissimulare la tristezza che provava per la lontananza di Maria, la quale aveva lasciato in casa un gran vuoto, che non trovava compensi cogli altri sposi.

Le lettere di Brianza erano le sole consolazioni che la facessero pazientare. Maria si trovava benissimo coi cugini; Alessandro conduceva Andrea alla caccia, l'Enrichetta si accordava perfettamente coi gusti di Maria. Fecero delle gite a Milano e sul Lago di Como, e passavano in casa dei giorni lieti, apparecchiando dei buoni piatti ai cacciatori che ritornavano stanchi ed affamati. Qualche volta andavano tutti insieme a fare delle escursioni mattutine sui colli, apportando delle provvigioni per far colazione sull'erba, in qualche sito pittoresco, ove meriggiavano in pace sotto gli alberi.

Enrichetta aveva una bella collezione di conigli, tenuti in gabbie di ferro, coi migliori sistemi d'allevamento. Maria se ne invaghì, gliene promisero parecchie coppie a sua scelta, le insegnarono le cure necessarie alla buona riuscita. Essa andava spesso a visitarli, carica d'erbe, di foglie di cavolo e di carote; adorava i piccini, non poteva risolversi a quali dovesse dare la preferenza. Il più bello di tutti le pareva il coniglio d'Angora, pel candore del lungo pelo, simile a quello dei cagnolini maltesi, cogli occhi rossi come bragie, affabilissimo, affettuoso coi figli, che appena nati parevano tante pallottole di penne di cigno. Il cenerino di Fiandra, con quel pelo petit gris era una meraviglia, pareva un bel manicotto da signora; ma anche l'argentino era stupendo, un pelo nero di lavagna colla punta bianca! e quello di Normandia? e l'enorme Ariete con quelle orecchione lunghe? veri portenti!..

– Te ne daremo quanti ne vuoi, le dicevano i buoni cugini, e colle relative cassette pel trasporto in ferrovia, e oltre il piacere che avrai, sarai anche benemerita della classe rurale, introducendo nel tuo villaggio l'allevamento di questi animali che sono un cibo eccellente, e danno una buona rendita per la vendita delle pelli.

Maria batteva le mani come una bambina, gettava uno sguardo interrogativo su Andrea, temendo che facesse opposizione, o trovasse qualche ostacolo; ma egli che l'adorava non aveva altro intento che quello di contentarla in tutto, e vederla felice, e avrebbe portato i conigli sulle spalle per farle piacere. Egli era beato, mangiava per quattro, e il capitano gli riempiva continuamente il bicchiere d'un certo vinetto frizzante di Montevecchia che sdrucciolava giù perla gola con una facilità sorprendente.

Al dopo pranzo le donne lavoravano all'uncinetto, Andrea si gettava in una poltrona, e si addormentava immediatamente d'un sonno profondo. Quando russava troppo forte, Maria lo urtava col piede, ma invano allora si alzava per far rumore, gli dava delle scosse, e accusava il cugino di farlo bere un po' troppo. Alessandro la pregava che lo lasciasse dormire in santa pace, e si metteva a fumare, raccontando alle due donne certi aneddoti del bisnonno di Maria che la interessavano assai e provavano la ferrea tempra del colonnello.

Quell'uomo coraggioso sapeva dirigere con suprema destrezza le più pericolose macchinazioni dei Carbonari; la polizia sentiva una mano potente che la stringeva da ogni parte, ma non poteva afferrarla. Seduto nella vecchia poltrona di cordovano, colla sua pipa di schiuma in bocca, in veste da camera e in pantofole, egli studiava il modo di far traballare il trono dell'imperatore, e ci riusciva, senza perdere la testa nè la libertà. Era audace, ma scaltro; la polizia, e le commissioni speciali si dibattevano nelle reti che egli aveva tese, facevano qualche vittima che non sapeva schivarsi, ma il caporione sfuggiva sempre ai loro conati, ed alla loro rabbia che si sfogava colle barbare condanne degli innocenti.

La nonna scriveva lettere sopra lettere per sollecitare il ritorno della sua Maria, e al fine fu necessario di compiacerla, fissando il giorno della partenza, e dandole avviso dell'arrivo.

Quando giunse a villa Bonifazio questa notizia, Silvio ne fu fortemente colpito. Egli non si sentiva ancora abbastanza forte da affrontare la cugina, per la quale gli restava nel profondo del cuore come un ricordo di gioventù pieno di tenerezza.

Annunziò a Metilde il suo desiderio di ritornare a Venezia, parendogli che fosse tempo di prender possesso del loro appartamento, e di riprendere le abitudini di lavoro e di studio. Metilde non domandava meglio, accolse il desiderio del marito colla più sincera soddisfazione, quella vita di campagna le pareva davvero insopportabile, ma pel dovuto riguardo allo sposo ed ai parenti, non diceva la metà del male che ne pensava, e si studiava di dissimulare l'immenso tedio che la opprimeva.

Quando fu sicura d'andarsene, le parve più facile di manifestare il dispiacere di lasciare i parenti del marito, così buoni per lei, e non mancò di mostrarsi afflitta di lasciare la villa, e vivamente riconoscente di tante cortesie ricevute.

Partirono due giorni prima dell'arrivo degli altri sposi, e furono accolti alla stazione di Venezia dai Ruggeri che erano andati ad aspettarli per condurseli a pranzo in casa, dove trovarono una ragazza, pronta a servirli, che li attendeva, provveduta a tempo dalla signora Emilia, la quale l'aveva già messa alla prova, ed istruita sulla condotta che doveva tenere.

La Betta era piaciuta alla signora Emilia pel suo aspetto di cameriera che faceva buona figura. Sapeva cucire e stirare la biancheria, e si adattava anche ad ogni più basso servizio.

– E per la cucina? domandò Silvio.

– Oh Dio, rispose la suocera, sulla cucina non è troppo esperta ma per mettere un pezzo di manzo in una pentola con dell'acqua e del sale tutti sanno farlo, e una minestra di riso non domanda studio. Col tempo e la pazienza potrà imparare anche il resto…

– Il resto!? pensò Silvio fra sè, il resto in questo caso vuol dir tutto.

– Capisco che non sa niente, ma al peggiore dei casi la metteremo alla porta, e ne prenderemo un'altra.

Dopo pranzo mandarono la Betta ad aprire l'appartamento e ad aspettare i padroni. Più tardi la signora Emilia volle accompagnarli, per far vedere tutto quello che aveva operato per mettere in assetto ogni stanza con perfetto buon gusto.

E infatti trovarono tutto in buon ordine. Dall'anticamera si entrava in una sala destinata alla conversazione, con belle tappezzerie e specchi alle pareti, e tappeto sul pavimento. Tutti gli arredi erano di perfetto buon gusto. Il pianoforte occupava il posto opportuno, il canapè, i divani, le seggiole formavano un semicerchio che aveva nel centro un tavolo elegante, con vasi di fiori, album, e strenne. Agli angoli stavano dei tavolini da giuoco, e degli scaffali da collocarvi degli oggetti d'arte.

Seguivano due belle camere da letto, una per gli sposi, l'altra pei parenti e gli ospiti. Un salottino per Metilde, un gabinetto di studio per Silvio, una bella stanza da pranzo presso alla cucina, e poi degli altri locali per la domestica, e per sbarazzare la casa. Le famose tendine erano state collocate nella sala di ricevimento e nello studio; la camera da letto e il salottino avevano quelle acquistate dalla signora Emilia, con colori favorevoli al viso, ma con disegni assurdi.

Metilde fu contentissima della nuova dimora, e Silvio dovette mostrarsi riconoscente verso la suocera che si era data tanti disturbi per ordinare i mobili, e dirigere gli operai che avevano messo ogni cosa al suo posto.

Al mattino seguente apersero i bauli, Metilde e la Betta furono occupate tutto il giorno a riempiere gli armadi e i cassettoni, coll'assistenza di Silvio che piantava chiodi, si martellava le dita, bestemmiava fra i denti, e si protestava beato.

Poi fecero i loro conti su quello che potevano spendere, cercando di proporzionare le spese alle rendite per avere una norma, e ciascuno prese le sue abitudini. Silvio si recava ogni mattina allo studio Ruggeri, e si occupava d'affari legali sotto la direzione dello suocero, e nelle ore libere continuava a scrivere nei giornali. Metilde attendeva sua madre o andava a trovarla, uscivano insieme quasi ogni giorno, facevano delle visite e delle spese imprevedute, e tanto delle prime che delle seconde ce n'erano sempre. La Betta si occupava a mettere in ordine l'appartamento, spazzettava gli abiti della padrona, stirava la biancheria, metteva la carne al fuoco, poi andava alla finestra a veder passare la gente o a fare delle lunghe conversazioni coi garzoni delle botteghe, informandosi esattamente di tutti i pettegolezzi della calle.

Verso le cinque pranzavano, Silvio contemplava sua moglie da vero innamorato, la trovava sempre più bella, e non si accorgeva che la minestra era scipita, il manzo duro e poco cotto, ma Metilde chiamava la Betta e se ne lamentava, questa accusava il beccaio, e protestava d'aver soffiato tutto il giorno nel fuoco. Il primo giorno avevano ancora fame dopo finito il pranzo.

– Non c'è altro?.. domandò Metilde al marito, e questi alla Betta:

– Non c'è altro?..

– Non mi hanno ordinato di più, rispose la domestica.

Allora la mandarono a prendere un piatto dal trattore vicino, del presciutto dal pizzicagnolo, e delle frutta dal fruttivendolo.

– Si vede proprio, osservò Silvio, che il conto preventivo bisogna farlo dopo il pranzo. Non ci sono piani economici possibili, fino che non si ha mangiato il bisogno.

Metilde rideva, e gli dava ragione. Così presero l'abitudine di non cuocere in casa che la minestra ed il lesso, acquistando gli altri piatti qua e là, dal pizzicagnolo o dal trattore, per non consumare troppa legna, e non far perdere il tempo alla serva. Ma l'accessorio costava il doppio del principale.

Il cielo provvederà! pensava il marito, e la moglie non se ne occupava.

Uscendo dallo studio dell'avvocato, Silvio girava per le strade occhiando le ghiottonerie esposte nelle vetrine, faceva qualche acquisto che nascondeva nel fazzoletto, e così portava a casa il complemento del pranzo; talvolta mandava la Betta a comperare il pesce fritto, o qualche manicaretto che gli aveva fatto gola, messo in mostra alla trattoria.

In questo modo il conto preventivo del bilancio domestico riusciva una vera derisione; era facile convincersi che conveniva meglio di fare il pranzo in famiglia, ma chi se ne sarebbe occupato?

La Betta non aveva nessuna attitudine alla cucina, e nessuna economia, per cuocere due uova in tegame metteva doppio burro del necessario, e le serviva crude o bruciate. Bisognava trovare una donna che sapesse fare un po' di cucina con economia, ma la signora non voleva privarsi della Betta che la pettinava di buon gusto, e per salvarla dalla noia le raccontava tutti i pettegolezzi del giorno, aveva imparato a vestirla, a metterle il velo sul cappellino, lavava benissimo in un attimo i colli, i polsini, i fazzoletti preferiti, e li stirava sul momento.

Sapeva ricevere senza chiasso tutti gl'involti mandati dal merciaio, e consegnarli alla padrona, senza bisogno di disturbare il marito.

Capiva in aria ogni cosa, bastava strizzare un occhio per avvertirla. Tuttavia consultarono la signora Emilia, la quale domandò se erano matti.

– È una vera ingenuità da ragazzi senza esperienza! essa esclamava. Ma sapete quale difficoltà s'incontri a trovare una donna fedele ed onesta in questi tempi di ladri e di sgualdrine. Non v'è in tutta Venezia un'altra donnetta come la Betta! essa fa un'ottima figura, si presenta benissimo a chi viene a far visita, conosce le cose più necessarie, meglio di qualunque cameriera, e la si adatta a fare ogni altro servizio.

– Ma non sa far niente in cucina; osservò Silvio con impazienza.

– Imparerà; rispondeva la suocera, bisogna istruirla, capisce subito.

– Ma chi deve istruirla? domandava il povero giovinotto, che cominciava a nausearsi di quei cibi mal fatti.

– Io no di sicuro, diceva Metilde, che ho orrore degli imbratti e degli intingoli, e l'odore del carbone mi fa male.

– Poveretta!.. esclamava la signora Emilia con accento pietoso, poveretta! nemmeno per sogno, tu non sei stata allevata in cucina, nè per fare la serva!

Silvio fremente non osava rispondere. Aveva paura di lasciarsi sfuggire qualche parola offensiva, ma pensava fra sè: «ed io dunque? ho forse imparato alla Università a fare il cuoco o il domestico?!.. santa pazienza!.. bisognerà pensare a qualche cosa, perchè così non si tira avanti.»

Quel giorno non si disse di più, ciascuno s'era fermato al punto scabroso; Metilde andò a vestirsi, sua madre e la Betta la assistevano con grande attenzione; e finalmente si udì un fruscio di vesti di seta, si vide un'ondeggiare di piume e di svolazzi, e le signore facendo un grazioso inchino al marito sbalordito, lo lasciarono con un palmo di naso, e andarono al passeggio sulla riva degli Schiavoni.

Egli aveva voluto una donna elegante, e l'aveva; non c'era da che dire, bisognava tirare avanti con rassegnazione e aspettare che il tempo e la necessità venissero a modificare le cose.

Ma ogni giorno che passava cresceva le difficoltà, e portava nuove amarezze. Una volta papà Gervasio andò a passare una giornata coi figli. Giunse carico come il solito dei migliori prodotti dell'orto e della corte, fra i quali si trovavano due magnifici capponi.

Uno di questi capponi fu lessato pel pranzo, e venne servito stracotto; le carni si distaccavano dalle ossa, in un brodo lungo, senza sapore. Il pesce fritto perdeva il sangue sul piatto.

– Fate una cucina detestabile! disse papà Gervasio, senza tanti complimenti. Figliuoli miei, la vostra Betta vi rovina lo stomaco. Colle mie solite sofferenze intestinali, io non potrei reggere a questi cibi malfatti. Dovete sapere che la cattiva cucina è un vero veleno!..

– Pur troppo! gli rispose Silvio, questo è quello che ripetiamo ogni giorno tutti due, ma Metilde non se ne intende, ed io meno di lei.

– Eppure, disse Gervasio, tu hai veduto in cucina, per tanti anni, la nonna e Maria, che qualche cosa avresti dovuto imparare.

– Non ho imparato che a mangiar bene, egli soggiunse con un profondo sospiro; e adesso ho la doppia afflizione di mangiar male e di non saper trovare un rimedio.

– Ma a me il rimedio mi sembra facile, cambiate la domestica.

– È impossibile!.. gli rispose il figlio, e per non compromettere sua moglie e non parere un minchione, soggiunse: è tanto brava in tutto il resto, e ci conviene perfettamente.

– Ma la cucina è l'essenziale, si tratta della salute… della vita!

– È verissimo, ma si può cadere in una ladra pericolosa, non si sente a parlare che di furti.

Siccome Silvio gli aveva domandato un sussidio straordinario, perchè si trovava senza quattrini, essendosi sbilanciato per le spese d'impianto, papà Gervasio voleva rispondergli: – che cosa vuoi che ti rubino se sei sempre senza soldi? – ma temendo di offendere la nuora e di mettersi sopra un terreno pericoloso, si tacque, preferì di continuare il discorso, e disse:

– Se volete che venga qualche volta a trovarvi abbiate pietà del mio povero stomaco e dei miei intestini. Procurate d'istruirvi in quello che non sapete, ingegnatevi, imparate, chi non sa fare non sa comandare. Scommetto che avete dei romanzi, e delle poesie, e che vi manca un libro di cucina, il libro più utile della casa!..

Aveva indovinato giusto, e tutti si misero a ridere di buon cuore.

– Aggiungete un'altra considerazione, continuò; se il non saper fare la cucina produce il malanno di mangiar male, il non sorvegliarla riesce ancora più dannoso. I padroni che non guardano mai nelle pentole, che non stanno in guardia contro la noncuranza o la sguaiataggine delle persone di servizio, non possono immaginarsi tutto quello che inghiottono: polvere, nero fumo, sabbia, verderame, muffe e corpuscoli d'ogni sorte, aggiungete il concime e i vermi che si trovano negli erbaggi. Questa insipienza di molti produce sovente dei terribili risultati, dei fermenti che guastano lo stomaco, dei dolori misteriosi, la cancrena e la morte!..

I due giovani lo guardavano cogli occhi spalancati, pieni di ribrezzo.

Dopo il caffè, papà Gervasio scomparve. Lo cercarono invano in tutte le camere; egli non era avvezzo ad uscir di casa al dopo pranzo, e restava coi suoi figli fino all'ora della partenza. Temettero che fosse indisposto, e furono inquieti.

– Si sarà dimenticato qualche piccola spesa, osservò Metilde; e si mise ad aspettarlo alla finestra. Silvio le tenne compagnia fumando il sigaro, guardando da lontano per non vedere le mostre del pizzicagnolo e del beccaio.

Dopo una buona mezz'ora ecco papà Gervasio che spunta sull'angolo della via che mette alla piazza. Vedendo i figli alla finestra si mise a sorridere, alzando in aria un involto, con aria trionfale.

Quel buon padre era andato a far l'acquisto del miglior libro di cucina che si trovasse in commercio. Entrò nel salotto dicendo:

– L'ho trovato! e ve lo dono. È il più bel regalo che un padre possa fare… ai figli che mangiano male.

Lo andava scartabellando con vera soddisfazione, ne scorse l'indice delle materie e trovata la pagina che cercava, cominciò a leggere ad alta voce:

«Dopo d'aver legato il cappone si deve metterlo in una pentola dove si trovi in ristretto. Aggiungete acqua, carote, una cipolla con due chiodetti di garofano, una foglia di lauro, sale, e pepe in grano. Due buone ore di cottura a fuoco dolce.»

– Chiamatemi la Betta, che venga qui colla pentola nella quale ha fatto bollire il cappone.

La Betta comparve tutta confusa, portando in mano una marmitta di ghisa smaltata; era il corpo del delitto.

– È questa la marmitta dove avete fatto cuocere il cappone?

– Signor sì.

– Ebbene in quella marmitta ce ne stanno tre comodamente, era piena d'acqua?

– Signor sì.

– Ebbene quell'acqua era bastante per tre. Che cosa avete messo in quella laguna?

– Ho messo il cappone.

– E poi?

– Ho messo del sale.

– E poi?

– Non ho messo altro.

– Mancava dunque una cipolla, i chiodetti di garofano, le carote, il lauro ed il pepe. E quanto ha bollito?

– Ha bollito tre ore.

– Misericordia!!.. ma questa è la cucina delle bettole, delle prigioni, e del seminario!

Papà Gervasio voltò le spalle alla Betta, e rivolto a suo figlio gli disse:

– Brillat-Savarin nel suo classico trattato sulla Fisiologia del gusto mette fuori questa giusta sentenza: «Dimmi che cosa mangi e ti dirò chi sei.» Adesso che vedo come mangi io ti dico: Tu non sei un avvocato ma un galeotto, tu non sei un uomo libero, ma un seminarista!.. Prendi questo libro di cucina, leggilo attentamente, consiglia tua moglie a impararlo a memoria, e se per disgrazia la vostra casa andasse in fiamme, lascia bruciare i tuoi codici, ma salva il libro di cucina. È un libro positivo, ma che non esclude una certa poesia e prosa preferibile a molti versi. Il codice civile è buono per gli accattabrighe, per chi vuol far debiti senza pagarli; il codice penale mostra ai bricconi come si possa rubare senza andare in galera; ma il codice della cucina insegna a conservare la salute dei galantuomini, e questo val meglio di tutto. Compera anche il volume di Brillat-Savarin e meditatelo seriamente.

Papà Gervasio si era animato parlando, non aveva più riguardi, usciva dai gangheri; Metilde torceva il muso e s'attribuiva la predica:

«Se la cucina val meglio di tutto, essa pensava dentro di sè, vuol dire che mio suocero mi considera come buona da nulla, ma la mia educazione non mi permette di scendere tanto basso, ed io resterò sempre al mio posto.»

Oramai il pregiudizio morboso, che le faceva credere una volgarità ciò che è un sacro dovere, aveva messe le radici del tumore maligno, che il migliore chirurgo non può estirpare senza arrischiare la vita del malato.