Tasuta

L'ignoto: Novelle

Tekst
iOSAndroidWindows Phone
Kuhu peaksime rakenduse lingi saatma?
Ärge sulgege akent, kuni olete sisestanud mobiilseadmesse saadetud koodi
Proovi uuestiLink saadetud

Autoriõiguse omaniku taotlusel ei saa seda raamatut failina alla laadida.

Sellegipoolest saate seda raamatut lugeda meie mobiilirakendusest (isegi ilma internetiühenduseta) ja LitResi veebielehel.

Märgi loetuks
L'ignoto: Novelle
Šrift:Väiksem АаSuurem Aa

L’IGNOTO

I

Sul Piazzale di Porta Roma erano poche persone. Era deserta la via del laboratorio pirotecnico, deserta la via di faccia ad essa, ove, sul principio, è la semplice e nuda fabbrica dell’Arcivescovado a cui seguono altre fabbriche basse e la Riviera Casilina, recinta da una fila di casette rossastre.

L’ora del tramonto avanzava. Un lume dorato che poc’anzi avea tutto infiammato, nel lontano, il fuggevole dosso de’ Tifati si raccoglieva in coda a’ monti, ove la terra e la collina s’univano e pareva che l’ultima arborea decorazione di quelle gobbe immani sprofondasse nell’immensa e aperta campagna, verso Roma lontana. Tutto intorno taceva di quel triste silenzio invernale che pesa su Capua, città di chiese e di caserme.

Sul ponte del Volturno, con le spalle rivolte alla Riviera Casilina, e ritta sul parapetto, si stagliava sul livido cielo la statua di S. Giovanni Nepomuceno: un rigido braccio era steso al fiume e la mano spiegata ne benediceva il queto cammino trascorrente lungo le umide rive, a occidente. Erano ancora illuminate, in quel marmo barocco, la testa del santo e il busto suo quasi tutto: le membra inferiori, già investite dall’ombra, avevano apparenza confusa. Sotto la statua, addossati al parapetto, due uomini contemplavano il tramonto, e di volta in volta accennavano a qualcosa, lontana in quel punto, nota soltanto agli occhi loro o alla loro immaginazione poi che di faccia ad essi, oltre al ponte ferroviario, parallelo a questo su cui stavano e ch’è di remota origine, nulla pareva che turbasse, lungo il fiume e nel cielo e nel piano sterminato, la silenziosa agonia del giorno. A un tratto una fuggente nuvola s’agitò e si scompose alle origini del ponte di ferro, mascherate da un breve caseggiato e dagli erici della sponda. Apparve un treno, fischiante, nero, sterminato: il treno di Roma, che per due o tre secondi fuggì su per le arcate fragorose e d’un subito sparve, come insinuandosi, rimpetto, nelle viscere della collina, alla opposta sponda del fiume. Palpitarono nell’aria, per pochi attimi, l’eco lamentosa dell’ultimo sibilo della macchina e un lieve fumo diffuso, che poi subito si sciolse. Allora i due uomini si spiccarono dal parapetto e, parlando piano, con le mani in saccoccia, col capo basso, scesero lentamente dal ponte nella piazza. Alle spalle loro cominciava a nereggiare la torre del ponte; la scaletta che va fino al sommo di essa or appena s’intravedeva. Ma un lume brillò a un tratto in cima a un palo forcuto, piantato in uno de’ balaustri del ponte e proprio dove esso quasi s’unisce alle mura della torre: e allora gli ultimi gradini biancheggiarono, mentre il soldato che aveva acceso il lume scivolava lungo il palo, saltava dal parapetto a terra e scompariva sotto l’androne abbuiato, la cui sonorità fu brevemente risvegliata da un acuto zufolìo che cessò pur subito. Si rifece il silenzio, e il vecchio ponte rimase deserto.

Chi si fosse in quell’ora, arrivando dal Corso Appio, soffermato sul Piazzale di Porta Roma, avrebbe potuto cogliere nel suo momento più penetrante lo spettacolo della caduta del giorno. Le cose più vicine allo sguardo erano il fiume, il ponte antico, le rive oscure e la torre che terminava il passo del ponte: di là dalla riva erano campagne invisibili, nascoste, e più in là finalmente apparivano monti, con interrotto disegno, coloriti d’un verde ancor fresco. Un rosso lume persisteva ov’essi inclinavano al piano. Qui l’ultima fiamma del sole v’accendeva le cime d’un bosco; ma, sotto quel dolce fuoco, il fiume, lento, quasi immoto in quel punto, non se ne colorava. Rispecchiava invece la verde collina che gli sovrastava, e le acque luccicavano verdeggiando, immobili come quelle d’un lago percosso dal placido lume della luna. Un ponte di ferro, nero e tagliente, correva su quell’acque. E sul ponte, e sul fiume, e sul tramonto era un cielo minaccioso, per ove alcune nuvole basse si rincorrevano, si gonfiavano a mano a mano e s’aggrovigliavano: le loro creste mobili e serpentine lambivano nell’alto un pezzo di cielo rimasto pallido e puro, e lentamente lo conquistavano. Fra tanto, come generata dalla lontana e invisibile campagna, una massa vaporosa, grigiastra e fitta, assorgeva rapidamente all’orizzonte. Era come una uguale cortina di fumo che si levasse da terra e cercasse di raggiungere le nuvole. Le investì, a un tratto, e con quelle si confuse e si diffuse. Nel medesimo tempo fu un borbottìo dietro quella cortina, un rombo lieve e trascorrente, che per poco parlò pur al dosso dei monti con più debole voce, e quivi si spense. Adesso il cielo s’era tutto oscurato. Tuttavia persisteva ancora, in coda a’ Tifati, il lume del sole: una fiamma sanguigna, diminuita ma tuttora viva, ardeva ancora in quel punto.

II

Un’ombra scivolò rapidamente sotto il muro dell’Arcivescovado, e a un tratto se ne spiccò e prese forma, dirizzandosi al Ponte di Annibale. Una donna. E pareva giovane, dall’agile incesso e dal disegno della persona. Pareva: da che le pieghe di uno scialle scuro, che dalla testa le ricascava sulle spalle e sul petto, le ombreggiavano la faccia. L’ora già tarda rafforzava il pallido mistero di quel volto, biancheggiante, con apparenza indefinibile, tra lo sparato dello scialle. Tuttavia, com’ella, per un momento, quasi irresoluta, s’arrestava sul piazzale, un fanciullo la riconobbe e le si fece da presso. Il fanciullo veniva dal Corso Appio, e andava verso Riva Casilina. Portava la cartella dei suoi libri attaccata al dosso con due brevi corregge che gli passavano sotto le ascelle, e in una mano aveva una riga di legno con cui, camminando e zufolando, a volta a volta si percoteva la coscia.

– Oh, Letizia! – esclamò.

E ristette davanti alla donna, interrogandola con gli azzurri occhi contenti, pieni di candido e inconscio riso infantile.

La donna, sorpresa, si trasse addietro e si guardò attorno. Altri non era in quel luogo in fuori di lei e dello scolaretto; le loro due figure nere, vicine, differenti, si disegnavano nella vastità del piazzale su cui non ancora era scesa l’ombra. La donna tremava, borbottava parole che il fanciulletto non riesciva a comprendere. Lo guardò, a un punto, smarritamente, come se più non lo riconoscesse, e seguitò a restar muta.

– Dove vai? – disse il piccino.

E subito soggiunse:

– Io vengo dalla scuola. Oggi la scuola è finita più tardi. Ora vado a casa. Ho i guanti: guarda.

E le mostrò la mano inguantata, in cui serrava il quadrello. L’altra egli aveva ficcata nella saccoccia dei pantaloncini fino al gomito. La cavò lentamente e la levò, spiegata. Era gonfia e arrossata; l’epidermide vi si screpolava sul dosso e si rigava di piccoli solchi lividi.

– Vedi… Ho i geloni.

Ella taceva, guardandolo. Non lo ascoltava. Il piccino tornò a domandare:

– E tu dove vai, Letizia?

Ora ella, improvvisamente, si piegava su di lui, gli gettava un braccio attorno al collo, si traeva addosso il ragazzetto obbediente, sorridente ancora. E come egli credeva che gli volesse dare un bacio, atteggiò e appressò le labbra. Ella non lo baciò. Gli mormorò rapidamente, guardandolo negli occhi:

– Tu non devi dire a nessuno che m’hai vista! Hai capito? A nessuno!

E l’atto e il suono della voce furono così imperativi che il ragazzetto, istintivamente, si ritrasse, e ritorse la faccia e cercò di liberarsi. Ma Letizia gli prese il mento nella mano, costrinse più dolcemente quel piccolo volto quasi impaurito, e lo rigirò, e si chinò fino a disfiorarlo col suo. Ripetette, con voce più bassa, con un soffio di voce:

– A nessuno! Dimmi che non lo dirai a nessuno!.. Me lo prometti, Paolino? Senti, guardami! Guarda Letizia tua… Me lo prometti?..

Il piccino balbettò:

– Sì… sì… Non lo dico a nessuno.

Ora Letizia lo baciava forte sulla guancia. Egli le mormorò sulla gelida gota:

– E alla mamma tua? Neppure?..

– No! – fece Letizia, come inorridita – Vuoi dirlo a mamma!..

– No, no! – promise il piccolo.

E si chinò e raccolse il quadrello che gli era sfuggito. Ora lo brandiva nella piccola mano inguantata. Ripetette, solenne:

– A nessuno!

Si rincamminò a piccoli passi. A metà della via la infantile sua curiosità lo punse: si volse. Letizia moveva al ponte, dirittamente, e la sua figura nera si rilevava, con fine disegno, sul tramonto. Parve a un tratto, ch’ella, soffermata, incerta, facesse per tornare addietro. Subito lo scolaretto riprese la sua strada verso Riva Casilina. Ma sul punto d’arrivare a un vico verso il quale s’indirizzava egli si fermò ancora una volta, e tornò a guardare dalla parte del piazzale già lontano. Ora Letizia, immobile, in mezzo al gran ponte, contemplava il fiume dal parapetto. Il segno della sua testa liberata dallo scialle, del suo busto proteso, delle sue braccia, lungo le quali lo scialle ricascava e s’allargava a’ gomiti puntati sul parapetto, era preciso. Il fuoco del tramonto ella raggiungeva col capo eretto, immoto. Una dorata aureola s’effondeva attorno a quel capo e quasi lo penetrava e lo immaterializzava. Pareva che in quel rosso vapore esso a momenti fosse per dissolversi, mentre al vento lieve ed opposto una ciocca di capelli, a volta a volta, vi palpitava e, investito dallo stesso vento, un lembo dello scialle sbatteva i fili della sua frangia su quell’incendio lontano.

III

Due, tre volte, perdutamente Letizia s’era quasi sospinta dal parapetto sul fiume tacito e lento. Aveva chiuso gli occhi, s’era allungata sul largo parapetto col busto, col ventre, lasciando penzolare le gambe dentro del ponte; e con le braccia stese, irrigidite quasi sul vuoto, aveva aspettato che una forza misteriosa, invocata, implacabile, la sospingesse improvvisamente. Ma al senso pauroso del vuoto s’erano ritratte le sue braccia pian piano, gli occhi suoi s’erano pian piano aperti e subito rinserrati sull’acqua torbida e oscurata, e più rilassato e inerte era rimasto quel corpo senza volontà, sul parapetto. Ora ella quasi temeva di spiccarsene, anzi le pareva che nel punto in cui fosse per scivolare a terra qualcosa dovesse risospingerla e precipitarla. Rimase prona sul balaustro: poi riaperse pianamente gli occhi e riguardò il fiume, di sotto. Il Volturno trascorreva lento e silenzioso tra le quattro arcate di fabbrica imperatoria. L’acqua torva pareva, a tratti, stagnante, così tardo era il suo cammino. Ma a quando a quando dei gorghi l’agitavano, e su per la giallastra sua superficie si rincorrevano pezzi di fradicio legno e batuffoli di paglia o di fieno. S’oscuravano di qua e di là le rive. Più avanti, sotto il ponte ferroviario, al punto ove esso cominciava a far gomito, l’acqua, incorrotta, luceva come uno specchio.

 

La donna interrogò un’ultima volta il fiume. Ora ne saliva un alito d’umidità, e dal liquido fangoso, che alle lor basi immani lambiva i pilastri quadrati degli archi, s’esprimeva quasi un fascino freddo.

– Che morte!.. – ella mormorò.

E come, nell’atto in cui s’indugiava, le cupe acque la tentavano, l’attiravano ancora, un improvviso tremito la percorse tutta. Ritrovò a mala pena la forza di lasciarsi scivolare sul ponte, dal parapetto, e a questo addossarsi, quasi mancando. Confusamente le appariva, adesso, uno spettacolo nuovo: sulla destra l’Arcivescovado, e poi le case basse, e poi una via che procedendo lungo quelle case si restringeva e, nell’alto, ancora più in là, sul cielo bianchiccio, la cupola della chiesa della Santella: in fondo, rimpetto a lei, l’alto anfiteatro della Riviera Casilina il cui largo arco a un punto era terminato dalla fabbrica rozza e massiccia della polveriera. Le finestre di Riviera Casilina rattenevano ancora il lume del tramonto e se ne accendevano. Abbasso, quasi sull’argine del fiume, l’infame contrada Mazzamauriello infilava su d’un sentiero invisibile le sue due o tre losche casucce a un solo piano.

Con la bocca serrata, con le braccia penzoloni, voltando le spalle al tramonto, Letizia non distoglieva lo sguardo da quel gruppo di case. Di là, su pel fiume, le pareva che le arrivasse una voce, un susurro, un appello. Fascinata, immobile, ella rimase lì, ritta tra le ombre che scendevano rapidamente sul ponte.

L’ora scoccò all’Arcivescovado. Letizia si volse attorno, percossa da quel suono. Era notte. S’era spento l’incendio del bosco, il cielo s’era chiuso, un velo plumbeo subitamente era sceso sulla Riviera Casilina e la nascondeva. Nell’ombra, alcune forme confuse passavano sullo spiazzo e si disperdevano. Allora ella mosse dal ponte verso il Corso Appio. Traversò lo spiazzo con celere passo, tutta raccolta nello scialle, affrettandosi. E pure sul punto di penetrare nel Corso illuminato e popolato, per un momento ella si soffermò e parve incerta.

– Andiamo! – mormorò a un tratto – Volontà di Dio…

Rabbrividì, come se avesse bestemmiato. Si tappò la bocca con un lembo dello scialle, quasi per soffocarvi, nell’atto stesso che le pronunziava, le parole sacrileghe. Ma ora, davanti a lei, luminoso e romoroso, il Corso Appio quasi la irrideva: alcune donne ridevano forte sulla soglia d’una bottega, un cuoiaio canticchiava presso alla sua, appoggiato allo stipite, e con un cicaleccio allegro, parlando di cose vane e giovanili, sbucavano da un palazzo tre o quattro fanciulle e passavano.

– Sì, sì! – ella fece, disperatamente – È volontà di Dio!..

Entrò nel Corso Appio e andò avanti, risoluta.

IV

Procedeva, senza fermarsi, con la testa bassa. In Piazza dei Giudici, ove metteva il primo tratto Del Corso, da un globo enorme si diffondeva la luce elettrica e il vaporoso pulviscolo d’una pioggerella fitta e fredda roteava, penetrato da quel lume, per breve spazio attorno. Alle prime avvisaglie della pioggia i capuani avevano abbandonato la piazza; vi s’indugiavano ancora un gruppetto di soldati d’artiglieria, due carabinieri ammantellati, gravi, lenti, solenni, e lo scemo di Vico Cimino, un piccolo uomo di forme e di fisonomia scimmiesche, le cui membra piteciche ora s’aggrovigliavano al palo del lume elettrico, sferzate dalla pioggia e tremanti.

Come Letizia passò davanti all’Arco Mazzocchi una folla d’operaie del laboratorio pirotecnico ne uscì con alte voci confuse, imprecanti alla pioggia, e si rincorse lungo la murata del Municipio, e trascorse verso Porta Napoli.

Letizia si mescolò a quella folla e andò avanti ancora. Di tratto in tratto se ne spiccavano due o tre operaie e pigliavano, per rincasare, altre strade. Presso Porta Napoli la comitiva non si componeva più che di tre di quelle donne, le quali a un tratto si misero a scappare, rincorrendosi, strillando, sollevando e raccogliendo le sottane, e presto scomparendo nel buio. Letizia s’arrestò. Si guardò attorno, cercando di risovvenirsi. Poi fece ancora quattro o cinque altri passi e sparì anch’ella in un palazzetto a una delle cui finestre del primo piano penzolava, sbattuta dal vento, la tarlata insegna d’una locanda.

Ascese la scala a tentoni. Non v’era lume; ma ella conosceva il numero dei gradini e il posto della porticina. A quella picchiò due volte, colla mano spiegata.

– Viene… – fece di dentro una rauca voce maschile.

S’aperse la porta e un fiotto di luce dilagò sul pianerottolo. L’uomo che l’aveva schiusa reggeva un lume nella destra e cercava di affisar bene la sconosciuta. Poi si trasse addietro per lasciarla passare.

– Be’? – disse, dopo avere cautamente rinchiuso l’uscio – In che vi devo servire?

Levò il lume fino al volto della donna e con l’altra mano fece riparo alla fiamma.

Ma ora ella si liberava dallo scialle, lo raccoglieva sul braccio e gli si rivelava, immobile, ritta di faccia a lui, e muta, e tutta illuminata dalla fronte al petto.

Allora l’uomo esclamò:

– Gue’! Letizia!.. Ah, tu sei, dunque?

E voltandosi a una porticina socchiusa, dietro la quale borbottava una vecchia voce femminile, annunziò:

– È Letizia di Riva Casilina… Letiziella… Quella del furiere…

Letizia si coperse la faccia. Cessò il borbottìo dietro l’uscio socchiuso. E la voce senile, mentre l’uomo riponeva il lume sulla mensa dalla quale s’era levato, rispose:

– Buona sera… Ora vengo.

– È Chiarina – disse l’uomo, e sedette daccapo alla tavola – Ha le gambe enfiate, con rispetto, e le unge con una pomata che si vende a Napoli. Ha un’emicrania da cavallo, per giunta…

Additò una seggiola.

– Mettiti a sedere… Vuoi crescere?

– Vi devo parlare – disse Letizia.

– Be’… Dunque siedi. Che mi dici? E il furiere che fa?

– M’ha lasciata.

– Il furiere?.. – e con la mano spiegata l’uomo percosse la tavola – Possibile? Hai sentito, Chiarina?.. – e si girò sulla seggiola, e si voltò a parlare forte all’uscio socchiuso – Dice che il furiere l’ha lasciata…

– Vengo… – ripetette la voce.

Don Placido, un tipaccio rossigno, quasi calvo, animalesco, allungò la mano a un piatto colmo di stufato d’agnello e se ne recò un pezzo alla bocca, strappandogli, co’ forti molari, fin le ultime cartilagini. Si versò del vino. Sotto il lume, agguantata al collo della bottiglia, la sua mano tremava come per impeto di sangue pulsante: sul dosso vi rigurgitavano le vene enfiate e le dita unte e vellose, terminate da unghie rose e piatte, lucevano del recente contatto della vivanda. Un alito impuro emanava da quella stanza e dai suoi abitatori, come un fiato di anime e di materie corrotte. Dal mensale insudiciato, chiazzato di larghe macchie d’unto e di vino, si sprigionava un lezzo disgustevole.

– Sentite, don Placido… – disse Letizia subitamente – Io non posso restare più, a Capua. Capite, don Placido?.. Sono rovinata, e la rovina mia non la posso nascondere più…

L’uomo la guardò fisamente. Poi, con gli occhi piccioli e vivi, percorrendolo tutto s’indugiò a interrogare quel corpo palpitante e raccolto.

Letizia arrossì. Radunò in grembo lo scialle e ve lo rattenne con le pallide mani spiegate.

– Ho capito – disse don Placido.

E si grattò il capo con l’indice della sinistra: poi con quello della destra e col pollice strinse e trasse avanti il labbro inferiore. Levò la testa, e parve che interrogasse il soffitto.

Domandò, più piano:

– E a casa tua?

– Sono fuggita.

– Quando?

– Ora.

– Sei andata da lui?

– Inutile. Sono venuta qui.

– Parla più basso.

Seguì un silenzio. La grondaia del cortile gorgogliava: il romore era distinto, continuo. La pioggia non era cessata. Don Placido moderò la fiamma del lume, si levò, fece pesantemente due o tre passi nella stanzuccia e Letizia lo udì borbottare:

– Evviva il furiere!.. E bravo!.. Evviva!..

All’improvviso le si piantò di faccia, presso alla tavola. Le chiese bruscamente, brutalmente:

– Be’?.. E ora che vuoi fare?.. La vita?

Ella aperse le braccia e chinò la testa.

Don Placido, dopo un poco soggiunse:

– E a Napoli ci andresti?

– A Napoli?.. – balbettò Letizia.

– Vi ho un amico. Ti raccomanderò… La città è grande, vedrai… E qualche altra vi ha fatto fortuna…

Lo interruppe un colpo di tosse che arrivava da un’altra camera la cui porticina, alle spalle di Letizia, era pur chiusa.

Letizia trasalì e l’uomo si mise a ridere.

– È la bionda – disse, con una occhiata a quell’uscio – È una di Caserta. Parte a momenti per Napoli e io l’accompagno alla stazione.

La breve tossicina si fece udire un’altra volta, ma ora don Placido non vi badò.

– Per questo ti domandavo se ti piace Napoli. Se ti piace allora… vedi… puoi dirti fortunata, vi andrete assieme… Con la bionda. Ora deciditi. Hai capito? Grande città, gran gente, gran rumore, gran vita. Mica questi sordomuti di Capua, angiolo mio…

Tese l’orecchio. Pioveva ancora: il borbottìo della grondaia era superato dal crepitare della pioggia che percoteva il cortile.

– Se vuoi vedere la bionda è di là, in cucina. Si chiacchierava, appunto, quando sei arrivata. E s’è voluta nascondere: si vergogna. Be’, se vuoi vederla… Intanto io vado per un affare mio, fino all’Annunziata. E parla pure con Chiarina: tra femmine vi intenderete meglio…

A voce alta, mentre cercava il mantello e il cappello, annunziò:

– Vado fino all’Annunziata, Chiarí…

La voce rispose dall’oscurità:

– E il treno?..

– Parte alle dieci… – E don Placido, aperse la porta delle scale – V’è il tempo. Torno subito.

Sulla soglia si voltò a Letizia:

– La casa la conosci: accomodati pure. Aggiustati con Chiarina…

Uscì. La porta si richiuse e Letizia rimase sola.

Si guardò attorno, guardò l’uscio piccolo dietro del quale ella indovinava donna Chiara, l’orribile vecchia, gigantesca come il marito, quasi calva, dall’occipite rigato di filze di capelli tinti, copiosa di carne molle, e ondeggiante dal petto enorme e floscio sul ventre…

Si levò in piedi. S’era mossa quella porta. Ma era il gatto. Apparve sbadigliando, un gatto grigiastro e avanzò, lentamente. Vide Letizia: si fermò, la guardò, poi, rincamminandosi, scomparve nella penombra.

Letizia sospinse la porta della cucina.