Loe raamatut: «Attraverso l’Atlantico in pallone»
Emilio Salgari
ATTRAVERSO L’ATLANTICO IN PALLONE
Capitolo 1. Una sorpresa alla polizia canadese
“Hurrah!” urlano diecimila voci.
“Evviva il Washington!”
“Hurrah per Mister Kelly!”
“Mille dollari a chi ci tiene!” grida una voce.
“Siete pazzo Paddy?… Li perderete: ve lo assicuro io.”
“Duecento sterline!…” grida un’altra voce.
“Chi ci tiene?”
“Su chi scommettete?”
“Sulla riuscita della traversata!”
“Ecco un altro pazzo! Avete molte sterline da gettare in mare, Mister Holliday!”
“Le vincerò: Kelly attraverserà l’oceano e scenderà in Inghilterra.”
“No, in Spagna”, grida un altro.
“In Spagna o in Inghilterra, poco importa. Chi ci tiene a duecento sterline?”
“Le perderete, il suo pallone scoppierà.”
“E andrà a finire in fondo all’oceano.”
“Kelly è un pazzo!”
“Kelly è stanco di vivere!”
“No: è un coraggioso! Hurrah per Kelly! Viva il Washington!”
“Mille dollari che Kelly morrà affogato.”
“Duemila che il suo aerostato scoppierà sulle nostre teste.”
“Cento sterline che Kelly si fracasserà sulla spiaggia.”
“Mille che attraverserà l’oceano!”
“Accettate?”
“Sì…!”
“No… siete pazzi!”
“Hurrah per Kelly!”
Questi dialoghi, queste grida, queste scommesse, le une più stravaganti delle altre, si incrociano in tutti i sensi, si fanno ovunque. Yankee, canadesi, inglesi scommettono: con pari furore, sterline e dollari corrono dappertutto, mentre la folla si agita, si urta, si spinge, si schiaccia contro un grande recinto, rovesciando i policemen. che non sono più in grado di trattenerla, malgrado non risparmino i colpi di mazza, che grandinano sui più impazienti con sordo rumore.
Dalle prime epoche della sua scoperta, mai si era veduta tanta gente radunata sulle spiagge dell’Isola Brettone. Da tre giorni, battelli a vapore, barche a vela, scialuppe e lance rovesciavano su quelle sponde americane del Maine, del New Hampshire, del Vermont. del Massachusetts, del Delaware, del Maryland, del Connecticut e dello stato di New York, francesi e inglesi del Basso e dell’Alto Canada e dell’Isola di Terranova.
La piccola città di Sidney, capoluogo dell’Isola Brettone, era stata invasa dai primi arrivati: gli altri, malgrado la stagione fosse tutt’altro che mite, si erano accampati all’aperto, sotto tende improvvisate con coperte d’ogni specie, con vele, con stuoie, decisi a non andarsene prima di aver veduto ciò che li aveva attratti su quelle spiagge quasi inospitali.
Che cosa aveva potuto radunare colà, in sì breve tempo, quelle venticinque o trentamila persone? Una notizia emozionante, portata da tutte le linee telegrafiche del Canada e degli Stati Uniti dell’Unione.
Un uomo – un audace, secondo alcuni; un pazzo che era stanco di vivere e spendere milioni, secondo altri – aveva annunciato che stava per tentare la traversata dell’Oceano Atlantico in pallone! Non ci voleva di più per far accorrere all’Isola Brettone gli Americani e gli Inglesi, gli uni grandi amatori di spettacoli mirabolanti, gli altri grandi ammiratori delle audacie scientifiche.
Il nome dell’aeronauta che stava per tentare quella temeraria impresa, era noto negli Stati Settentrionali dell’Unione e nel Basso come nell’Alto Canada.
Ned Kelly, tale era il suo nome, era uno yankee puro sangue, nato a New Port, nel Connecticut. Ricco a milioni, solo al mondo, ardito, amante delle scienze, ingegnere di fama, da parecchi anni si era dato allo studio dell’aeronautica. Si diceva che volesse trovare il mezzo di dirigere i palloni: anzi aveva fatto parecchie ascensioni, recando seco degli apparecchi di sua invenzione, ma, a quanto pareva, con poca riuscita. Aveva quindi abbandonato quegli attrezzi, più di peso che di utilità, e si diceva che si fosse dato allo studio delle correnti aeree, volendo tentare un grande viaggio.
Si sapeva che da parecchi mesi faceva delle ascensioni sulle coste della Nuova Scozia e dell’Isola Brettone con un pallone frenato; poi egli era improvvisamente partito per New York, assentandosi per varie settimane.
Nei primi di aprile del 1878 il telegrafo annunciava che Ned Kelly avrebbe tentato la traversata dell’Oceano Atlantico, con un pallone di nuovo modello. Quella notizia commosse profondamente americani e canadesi.
Gli scienziati dei due paesi s’affrettarono a chiamare quell’audace impresa un suicidio; i giornali si divisero in due campi, l’uno a favore dell’ingegnere, l’altro contro; il pubblico, salvo poche eccezioni, chiamò quel tentativo una pazzia!… Pazzia, o suicidio, o buona riuscita, le persone meglio munite di denaro s’imbarcarono in massa chi sui piroscafi, chi sui velieri, chi sulle lance, e si portarono all’Isola Brettone. Tutti volevano assistere alla partenza della spedizione, quantunque i più fossero convinti di veder scoppiare quel nuovo pallone appena si fosse alzato e altri di assistere all’agonia dell’aeronauta e dei suoi compagni, se ne avesse trovati, perché non dubitavano che si sarebbero tutti annegati in mezzo all’ampio oceano.
Mentre gli aiutanti dell’ingegnere si preparavano a gonfiare l’aerostato, la cui enorme massa occupava una gran parte dell’immenso recinto costruito sulla spiaggia, a tre miglia da Sidney, e a disporre i sacchi di zavorra, le casse dei viveri, i barili d’acqua, le gomene, le ancore, ecc., gli americani, gli inglesi e i canadesi, seguendo la loro passione, scommettevano con furore. I più giocavano contro la riuscita dell’impresa: ma taluni, che forse avevano una grande fiducia nell’ingegnere o nel suo pallone, puntavano in suo favore, eccitando la più alta sorpresa o la più clamorosa ilarità.
A un tratto un grido echeggia:
“Silenzio!…”
Le urla, le risa, le discussioni cessano come per incanto, gli occhi di quei tremila spettatori si fissano in mezzo al vasto recinto, dove si stendono due enormi tubi, le cui estremità si prolungano da una parte verso un caseggiato, dove si fabbrica l’idrogeno, e dall’altra scompaiono sotto due enormi cumuli di seta, che cominciano ad agitarsi, come se sotto di loro s’introducesse una rapida corrente d’aria.
Un grido immenso scoppia da ogni parte: è un grido di stupore, che si converte subito in esclamazioni d’ogni genere e in discussioni animate. I dialoghi s’incrociano ancora da ogni parte.
“Chi ha mai visto un pallone di quel genere?…”
“Un pallone!… Ma sono due i palloni!…”
“A me sembrano due pelli di balena!”
“Che Kelly abbia trovato il modo di dirigere gli aerostati?…”
“L’ingegnere ci farà perdere le scommesse.”
“A vantaggio nostro che abbiamo scommesso per lui!…”
“By God!”
“Sapristi!”
“Hurrah!, Hurrah!”
Un alto grido scoppia da tutte le parti, e una carica di applausi frenetici rimbomba, coprendo i muggiti delle onde, che si frangono con furore contro la spiaggia, e le grida degli aiutanti.
Quei due ammassi di seta si sono distesi sotto la spinta dell’idrogeno che s’ingolfa attraverso i tubi, e le forme che assumono strappano a tutti grida di meraviglia. Non sono i soliti palloni, che sembrano fiaschi rovesciati: sono due fusi immensi, lunghi quasi quaranta metri, con un diametro di quindici al centro, che si alzano lentamente con un leggero ondeggiamento, tendendo le corde che gli aiutanti, in numero di trenta, tengono con mani robuste.
Al di sotto di quei due fusi, che rammentano le forme dei sigari avana, appeso a una lunga asta che occupa il centro dello spazio lasciato dai due aerostati, ma a una distanza di tre metri dal loro lato inferiore, si agita una specie di battello, lungo trenta piedi, già carico d’una infinità di oggetti, di pacchi, di sacchetti, di botti, di casse, ma costruito d’un metallo leggero e che si direbbe argento. Ancora pochi minuti e quell’immensa macchina spiccherà il volo sopra i flutti muggenti dell’Atlantico.
L’emozione degli spettatori è al colmo. Ognuno dimentica le scommesse e tiene gli occhi fissi su quei due palloni, che sempre più si gonfiano, mentre gli aiutanti eseguono delle manovre misteriose con certe pompe. Si direbbe che iniettino, nell’interno dei due aerostati, un gas speciale o qualche cosa di simile.
Ma quell’emozione prende enormi proporzioni quando si vede apparire l’ardito aeronauta, uscito allora dal caseggiato dove si fabbrica l’idrogeno.
E un bell’uomo sui trentacinque anni, di statura alta, slanciato, con la fronte spaziosa, gli occhi neri e lampeggianti, i lineamenti energici. Indossa un semplice costume di lana bianca ed è seguito da un giovane negro di diciotto o vent’anni, vestito come lui.
Un “hurrah” immenso scoppia: gli spettatori agitano pazzamente i berretti, i cappelli, i fazzoletti.
“Viva Kelly!”
“Viva il Washington!”
“Hurrah…Hurrah!…”
L’ingegnere, giunto in mezzo al recinto, fa spiegare sulla poppa di quell’imbarcazione argentea che deve servirgli da navicella, la bandiera stellata degli Stati dell’Unione, provocando da parte dei suoi compatrioti entusiastici evviva, poi con rapido sguardo esamina il suo magnifico apparecchio aereo, e volgendosi verso il pubblico, dopo aver reclamato con un gesto energico il più assoluto silenzio, dice: “Ho cercato, ma invano, un terzo compagno che mi segua in questo grande viaggio aereo attraverso l’oceano. Se qualcuno di voi si sente il coraggio di salire sul mio Washington, offro un posto.”
Un silenzio glaciale accoglie le parole dell’aeronauta: l’entusiasmo s’è estinto ad un tratto. Gli spettatori si guardano in viso l’un l’altro; ma nessuno emette un sì. Applaudire quel coraggioso, sta bene; ma accompagnarlo, seguirlo sull’oceano su quella macchina capricciosa in balia del vento, per perire forse nei flutti, è un altro affare!
Nessuno si sente in vena di morire per la scienza.
Kelly attende un minuto, poi balza nella navicella, seguito dal giovane negro, gridando: “Pronti al comando!…”
Ad un tratto un uomo si slancia attraverso la massa del pubblico, aprendosi il passo con spinte irresistibili, balza sopra il recinto e si precipita verso l’ingegnere, gridando: “Cercate un compagno: eccomi!”
La folla per un momento raffreddata, si riscalda come per incanto chi è quel giovanotto che osa affrontare la morte? Nessuno lo sa; ma deve essere un coraggioso, e gli audaci sono e devono essere ammirati. Gli “hurrah” prendono proporzioni tali da assordare; gli applausi scoppiano dovunque, tutti agitano i cappelli e i fazzoletti, tutti urlano, si agitano, si dimenano come ossessi.
Ma d’improvviso, mentre l’ingegnere sta per dare il comando di “Via tutti!” e i suoi trenta aiutanti stanno per abbandonare le funi, si odono delle grida di rabbia: “È lui!”, “Addosso, policemen,” “Prendiamolo!”, “Fermate!… Fermate!” Quindici o venti policemen, guidati da alcuni capi, si precipitano nel recinto, correndo verso il pallone, ma ormai è troppo tardi. Il vascello aereo, libero, s’innalza maestosamente, trasportando con sé l’ingegnere, il suo negro e quello sconosciuto, giunto all’ultimo momento.
“Scendete!” gridano i policemen, che sembrano furiosi. Uno di loro con un salto si aggrappa a una fune pendente dalla navicella; ma il vascello aereo, che deve avere una potenza ascensionale immensa, lo trascina con sé.
Il pubblico scoppia in una clamorosa risata. Lo sconosciuto però, che pare si aspettasse un simile colpo di scena, si curva sul bordo della navicella e taglia la fune con un rapido colpo di coltello, facendo capitombolare sconciamente l’agente di polizia, e rovescia sul capo degli altri un sacco di zavorra, accecandoli. Una guardia estrae il revolver e lo punta in alto; ma il pubblico, che s’è riversato nel recinto come una fiumana, glielo strappa di mano, per tema che guasti quella meravigliosa nave aerea. Un ultimo immenso grido riecheggia: “Hurrah! Hurrah per Kelly! Viva il Washington!”
I due palloni erano allora tanto alti che già parevano due sigari: si videro per alcuni istanti rasentare un grande nuvolone che si estendeva sopra l’oceano, poi sparire verso il nord, in direzione di Terranova.
Quasi contemporaneamente una rapida nave a vapore, un incrociatore della Real Marina, usciva precipitosamente da Sidney e si slanciava sulle tracce degli aeronauti.
Capitolo 2. Il Feniano
Kelly aveva tutto osservato: aveva udito le grida di rabbia dei policemen e le intimazioni di scendere, aveva visto il brusco ma fortunatamente troppo tardo assalto e la fulminea manovra dello sconosciuto: ma per il momento non aveva creduto conveniente interrompere la sua partenza e aprire le valvole per tornare a terra. Avrebbe potuto sbarazzarsi di quell’individuo, di quel compagno giunto proprio all’ultimo momento, più tardi, se non fosse stato degno di seguirlo in quel pericoloso viaggio attraverso l’immenso oceano. Non si era occupato quindi di lui e aveva rivolto tutta l’attenzione al suo vascello aereo, al suo superbo Washington, come l’aveva battezzato, il quale continuava ad innalzarsi nello spazio.
L’isola impiccioliva rapidamente sotto di lui, di mano in mano che la distanza cresceva. Gli spettatori sembravano una piccola macchia nera; Sidney una macchia biancastra irregolare; le navi ancorate nel porto piccoli punti scuri; l’isola aveva le dimensioni di un giornale tagliato capricciosamente dalle forbici di un bambino.
A nord si scorgeva Terranova col suo grande banco, cosparso di puntini neri, che dovevano essere le navi occupate alla pesca dei merluzzi; verso l’ovest si disegnavano nettamente le coste della Nuova Scozia e più oltre quelle del New Brunswick, e verso il sud si distinguevano confusamente quelle del Maine, che si perdevano verso il New Hampshire.
Di tratto in tratto si udivano da terra dei sordi rumori che parevano applausi e delle detonazioni. Dopo pochi minuti tutto tacque, e un silenzio profondo regnò nelle alte regioni dell’aria.
Il Washington era ormai salito a 3500 metri e, raggiunta la cosiddetta zona d’equilibrio, filava verso il nord-est, in direzione di Terranova, con un lieve dondolio e con una velocità di trentasei miglia all’ora.
“Tutto va bene,” mormorò l’ingegnere. “Se Dio ci protegge, anche questa grande traversata si compirà.”
Abbandonò il bordo della navicella e guardò i suoi due compagni. Il negro, rannicchiato in un angolo, si teneva strettamente aggrappato alle corde delle casse che ingombravano la poppa di quella specie di imbarcazione: i suoi grandi occhi, che parevano di porcellana, manifestavano un inesprimibile terrore e la sua tinta, da nera era diventata grigia. Se fosse stata bianca, sarebbe stata pallida, anzi livida.
Lo sconosciuto invece pareva tranquillissimo, come se si trovasse in una imbarcazione ondeggiante sul mare. Ora guardava l’oceano che rumoreggiava giù in fondo, distendendosi verso l’est a perdita d’occhio, ora l’Isola Brettone, che era diventata un punto bruno, ed ora alzava il capo, esaminando con un certo stupore i due immensi palloni fusiformi che si libravano maestosamente in mezzo all’atmosfera.
Quello sconosciuto, che doveva essere dotato d’un sangue freddo straordinario e di un coraggio a tutta prova per mostrarsi così tranquillo a 3500 metri d’altezza, era un giovane di venticinque o ventisei anni, alto, biondo, magro, tutto nervi, con due occhioni azzurri, due baffetti appena nascenti, di aspetto simpatico e distinto. Indossava un costume da marinaio; ma si comprendeva a prima vista che non doveva essere il suo vestito abituale, poiché le sue mani non erano callose, né il suo viso portava le tracce dei morsi dei venti, dell’aria marina, del sole. Chi poteva essere? Ecco quello che si chiedeva l’ingegnere. Si avvicinò al giovanotto, che continuava a guardare ora i due palloni ora l’oceano e, battendogli familiarmente sulle spalle, gli chiese: “Ebbene, che cosa ne dite?..”
Lo sconosciuto a quella domanda si volse verso l’ingegnere e rispose con voce tranquilla: “Io dico che scenderemo in Europa.”
“Lo credete?”
“Sì, Signor Kelly, e compiango sinceramente quelli che hanno scommesso contro la riuscita di questo grandioso viaggio.”
“E fate conto di tenermi compagnia?”
“A meno che non mi obblighiate a fare un salto nell’oceano! Sarebbe una caduta un pò lunga; ma infine, se fosse proprio necessario per la vostra salvezza, disponete pure liberamente della mia pelle.”
“Scherzate?”
“No, parola d’onore.”
“Avete dell’audacia!” esclamò Kelly con stupore. “Voi non dovete essere un volgare briccone.”
“Un briccone… e che cosa vi ha fatto supporre questo?”
“Avete dimenticato i policemen?”
“Ah sì!” esclamò lo sconosciuto, scoppiando in una grande risata. “Pochi secondi di ritardo e mi avrebbero preso.”
“Pare che abbiate dei conti da regolare con la polizia britannica: comprenderete che…”
Lo sconosciuto impallidì leggermente, poi disse con triste accento: “È vero: voi avete il diritto di credermi un malfattore e come tale indegno di seguirvi in questo grande viaggio.”
“No, ma…”
“Al vostro posto questo sospetto mi sarebbe filtrato nel cervello, Mister Kelly, e avrei obbligato lo sconosciuto a spiegarsi o ad andarsene. Mi spiegherò; poi se mi crederete indegno di tenervi compagnia e di dividere con voi i pericoli di questo grande viaggio mi getterò a capofitto nell’oceano.”
“Per uccidervi? Dimenticate che ci troviamo a 3500 metri d’altezza!”
“Bah! La morte non mi fa paura. Il mio delitto è quello di aver troppo amato la terra dei miei avi, la mia patria, la mia Irlanda.”
“Siete un feniano?()”
“Sì, Mister Kelly, sono uno dei capi di quella lega che mira alla emancipazione dell’Irlanda dall’oppressione dell’Inghilterra e che, all’ombra della bandiera stellata del vostro paese, ha dichiarato una guerra di sterminio alla potenza inglese, la quale tiene schiava la mia povera patria; di quella lega che al tempo della guerra di secessione sparse tanto sangue per i vostri compatrioti dell’Unione. Voi sapete la guerra atroce che le polizie inglese e canadese muovono alla lega per distruggerla. Io, capo dei feniani del Basso Canada, segnalato come uno dei più pericolosi e dei più audaci, quindici giorni or sono, venivo sorpreso di notte e arrestato come complice dell’assassinio di uno sceriffo, trovato ucciso con due colpi di rivoltella sul qual di Quebec… Questo delitto, attribuito a torto ai feniani, poiché vi giuro che nessuno della lega lo compì, avrebbe dovuto mandarmi a passeggiare all’altro mondo senza colpa; ma i miei amici trovarono il modo di farmi evadere. Sapendo che le autorità mi avevano condannato a piroettare nell’aria con una corda al collo, travestito da marinaio scesi il San Lorenzo e sbarcai all’Isola Brettone, in attesa d una nave in rotta per l’Europa. Appresi della vostra partenza per le regioni dell’aria e avendo udito che cercavate un compagno, decisi di seguirvi, certo che gl’inglesi, che non avrebbero mancato di visitare scrupolosamente le navi transatlantiche, non mi avrebbero inseguito per aria; e avete veduto che i policemen sono rimasti a terra. Questo è il mio delitto: ora giudicatemi voi.”
“Ma voi siete il feniano Harry O’Donnell!” esclamò l’ingegnere.
“In persona, Mister Kelly.”
“Sono ben felice di avervi salvato, O’Donnell, e sono doppiamente felice d’aver un compagno della vostra specie.”
“Grazie, Mister Kelly,” disse il feniano, stringendo calorosamente la mano che l’aeronauta gli porgeva. “Speriamo che gli inglesi non ci raggiungano.”
“Raggiungerci? E in qual modo, O’Donnell?”
“Ho veduto una nave, un incrociatore inglese uscire da Sidney e filare verso Terranova a tutto vapore, pochi minuti dopo la nostra partenza.”
“E voi credete…?”
“Che ci dia la caccia.”
“Credere che uno steamer possa gareggiare con il pallone è una pazzia, amico mio. In poche ore il vostro incrociatore rimarrà indietro di due o trecento miglia.”
“Ma non siamo quasi immobili?” chiese l’irlandese con stupore.
“Filiamo con una velocità di trentasei miglia all’ora.”
“Ma io non sento alcun movimento e nemmeno un lieve soffio; se il pallone camminasse con una velocità di trentasei miglia all’ora, si dovrebbe provare una forte corrente d’aria. Guardate, Mister Kelly: la bandiera è immobile e il fumo della mia sigaretta non si disperde che lentamente.”
“E che cosa proverebbe ciò?”
“Che dobbiamo essere immobili, o poco meno.”
“V’ingannate, O’Donnell, o potete accertarcene guardando l’Isola Brettone, che ormai è appena visibile, mentre Terranova ingrandisce a vista d’occhio.”
“Infatti è vero.”
“Noi non possiamo accorgerci della marcia del nostro vascello aereo, perché i palloni non hanno moto proprio. È la massa d’aria che li tiene prigionieri, ed essa cammina: ecco il motivo della nostra apparente immobilità.
Anche se il vento fosse più forte, noi non ci accorgeremmo della sua rapidità e ci sembrerebbe di essere sempre immobili.”
“Ciò è strano!” esclamò l’irlandese. “Io ho sempre creduto il contrario.”
“E i più lo credono; anzi, taluni pretesi aeronauti hanno perfino immaginato di dotare i palloni di vele, credendo di poter aumentare la loro velocità.”
“Mentre le vele rimarrebbero assolutamente inerti.”
“Precisamente.”
“E non potrebbe nemmeno influire la maggiore o minore grandezza dei palloni sulla rapidità?”
“Nemmeno: sia piccolo o grande, il pallone filerà sempre con la velocità del vento e niente più.”
“E credete voi di riuscire ad attraversare l’Atlantico e di discendere sulle coste europee?”
“Lo spero, O’Donnell. Dispongo di tali mezzi che mi permettono di mantenermi in aria per parecchi giorni, anzi alcune settimane. Ho a lungo studiato questo grandioso viaggio aereo, ho tutto calcolato con precisione matematica, mi sono preparato a tutto e ho fatto degli studi profondi sulla direzione delle correnti aeree che si spingono verso il levante.
Se avessi voluto intraprendere la traversata dell’oceano, avrei dovuto caricarmi di tale massa di carbone per la macchina da farlo ricadere subito, e sono tornato al vecchio sistema dei palloni liberi, che finora ritengo sia ancora da preferirsi. È vero che ho introdotto nel mio vascello aereo dei grandi miglioramenti ma, come vedete, è sempre un pallone senza moto proprio, senza macchine e senza eliche, affidato solamente alle correnti aeree.
Dapprima avevo cercato di costruire un pallone dirigibile, dotandolo di moto proprio; ma mi sono convinto che, coi mezzi attuali di cui dispone la scienza, sarebbe stata un’utopia e ho rinunciato.
È bensì vero che ero riuscito a costruire una piccola macchina a vapore che metteva in movimento due grandi eliche, le quali mi permettevano di lottare contro il vento, quando questo soffiava con velocità moderata, e ad inventare un timone che mi dava adito a dirigere l’aerostato; ma ciò poteva servire soltanto per un viaggio di breve durata.
Andremo direttamente in Europa? Io lo spero. Ma se la grande corrente che va a levante, e che io ho scoperto, dovesse deviare nel mezzo dell’oceano e spingerci altrove, ho pensato a trovare il mezzo di mantenerci a lungo in aria e spero di esserci riuscito.
Se tutto va bene, se un uragano non fa scoppiare i palloni, e un fulmine non ce li incenerisce, io calcolo di toccare le sponde dell’Europa fra sei giorni o forse anche meno.”
“Quale distanza corre fra l’isola Brettone e le prime coste europee?”
“Circa tremila miglia. Ho scelto appositamente l’Isola Brettone, che si può considerare come un lembo di terraferma, data la sua vicinanza alla Nuova Scozia, e che è la più prossima alle coste europee.
Avrei potuto partire dalla Groenlandia, che dista dalle spiagge della Norvegia solo ottocento miglia; ma avrebbero detto; forse che io non ero partito dall’America, quantunque i geografi di tutte le nazioni considerino quel gran deserto di ghiaccio come terra americana.”
“Ma non vi è altro punto più prossimo?”
“No, poiché scendendo più a sud le distanze crescono, allargandosi l’oceano. Tra la Florida e il Marocco abbiamo già una larghezza di tremilaseicento miglia; fra Rio della Piata e il Capo di Buona Speranza sono altrettante.”
“Ma fra il Capo di San Rocco e la costa africana non si restringe l’oceano?”
“È vero, O’Donnell, poiché là l’Atlantico è largo solo milleseicento miglia; ma noi avremo incontrato le grandi calme e i venti che da levante soffiano costantemente verso ponente; e anche se fossimo riusciti ad attraversare l’oceano, saremmo caduti sulle coste inospitali della Sierra Leone, forse fra le mani dei feroci abitanti del Dahomey e degli Ascianti.”
“Ma siete certo che i venti ci spingano verso oriente?”
“Proprio certo, no; ma io so che al di là di Terranova i venti ordinariamente soffiano verso il nord-est.”
“Ma allora finiremo in Manda o in Norvegia,” disse l’irlandese.
“Ma credete che non vi siano altre correnti sopra quelle che vi ho accennato? Io spero di trovarne qualcuna che mi faccia piegare verso l’oriente. Bisogna però non illudersi, O’Donnell, ed essere preparati a tutto, anche a ritornare in America. Siamo in balia delle correnti aeree: possono spingerci direttamente in Europa, come possono trascinarci verso le gelide regioni del nord, o a quelle ardenti dell’equatore; possono prepararci una discesa trionfale sulle spiagge o dell’Inghilterra, o del Portogallo, o della Spagnia, o… la morte. La nostra vita è nelle mani di Dio e dei venti.”
“Sono preparato a tutto, Mister Kelly,” disse l’irlandese. “Ero condannato a morte, e tutti i giorni che vivrò ancora saranno guadagnati. Nel caso in cui fosse necessario, per salvezza vostra e dell’aerostato, ve lo dissi già, disponete liberamente della mia pelle.”
“Grazie, O’Donnell,” disse l’aeronauta, sorridendo. “Cercherò di risparmiarla finché lo potrò e mi limiterò a gettare la zavorra che qui abbonda. Porto con me un peso enorme, che mi permetterà di mantenermi in aria lungo tempo.”
“Quanti chilogrammi ? “
“Tutto compreso, noi, la scialuppa, le armi, le provviste, le funi, ecc., tocchiamo i 2600 chilogrammi.”
“Tale forza hanno i vostri palloni!”
“La loro forza ascensionale è di 1,20 chili per metro cubo d’idrogeno, essendo questo di qualità superiore agli altri, che non sollevano ordinariamente più di 1,18 chili. Ora facciamo l’inventario dei nostri progetti; poi, in attesa di giungere sopra Terranova, se vorrete, vi spiegherò il sistema che ho adottato per i miei aerostati.”