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Loe raamatut: «Il figlio del Corsaro Rosso», lehekülg 9

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– Questi uomini non saranno mai dei buoni arruolati pei bucanieri, – disse Buttafuoco, scuotendo la testa. – Peccato!

La cena fu fatta in fretta, avendo udito in lontananza dei latrati i quali potevano annunciare la vicinanza di quegli accaniti nemici.

– Bah! – disse Buttafuoco. – Ci riposeremo nella villa della marchesa. Questo non è terreno propizio per chiudere gli occhi. Signori, uno sforzo ancora che spero sarà l’ultimo.

– Questa è una vitaccia da cani, – disse Mendoza. – È vero, don Barrejo?

– Da presidiarios, compare, – rispose il guascone.

– Allora rimanete qui, – rispose il bucaniere, – e finite la vostra digestione con un chilogramma o due di piombo spagnuolo.

– Oh no, signore, disse Mendoza. – Io non lascerò mai il mio signore.

– E nemmeno io, aggiunse il guascone. – La mia draghinassa è troppo necessaria in questo momento, al signor conte.

– E allora movetevi, – disse il bucaniere. – Pensate che non vi lascerò dormire finché non giungeremo nella fattoria, e, se il vostro padrone non si lamenta, non ne avete il diritto nemmeno voi.

– Io sono pronto a percorrere anche mille miglia d’un fiato e senza mandare un sospiro, – disse don Barrejo. – Non sono già un guascone di carta pesta, io!

Il bucaniere rimase alcuni istanti in ascolto, scotendo la testa piú volte, poi, volgendosi verso il conte, disse:

– Se non sono gli spagnuoli, sono i cani che giungono. Marciamo, signori, e senza chiacchierare.

Per la seconda volta la notte era calata e, quantunque da quarant’otto ore non facessero altro che fuggire, si erano rimessi in cammino attraverso l’oscura foresta, rasentando di quando in quando degli ampi stagni sotto le cui acque fangose udivano nitrire o vagire i caimani.

In lontananza, verso la savana, i cani continuavano a latrare e a guaire.

Guidavano le cinquantine sulle coste, oppure avevano cominciata la caccia per loro conto? Era piú probabile questo, non potendosi ammettere che gli spagnuoli osassero avanzarsi fra le sabbie mobili, specialmente di notte.

Buttafuoco di quando in quando si fermava per ascoltare, poi si rimetteva in cammino con maggior lena. Pareva che non fosse punto tranquillo.

– Che cosa temete dunque? – chiese ad un tratto il conte, che gli camminava da vicino.

– Non so, – rispose evasivamente il bucaniere. – Vi dico solo di fare uno sforzo supremo per guadagnare terreno.

– Siamo ancora molto lontani?

– Non credo. Queste foreste non le conosco, tuttavia sono quasi certo di essere sulla buona via. È la nostra ridiscesa verso ponente che non mi rassicura molto. Se sapessi dove si trovano le cinquantine, non m’inquieterei troppo. Bah! Vedremo e sapremo difenderci.

Si erano impegnati nuovamente fra pessimi terreni paludosi, ingombri di ninfee rosse, di nelumbi gialli, di pontideire turchine e di canne, le quali formavano dei grossi mazzi piumati, perciò la marcia non poteva riuscire molto rapida, malgrado la buona volontà dei fuggiaschi.

Buttafuoco continuava a dare segni d’inquietudine ed il conte lo udiva di quando in quando brontolare.

Eppure, quantunque i cani continuassero ad abbaiare in lontananza, nessun pericolo pareva che li minacciasse.

Marciavano già da qualche ora sempre in mezzo alle canne, quando il bucaniere si fermò di colpo, dicendo rapidamente:

– Abbassatevi!

Il conte il basco ed il guascone si erano affrettati ad obbedire.

– Che cosa c’è dunque? chiese il conte, dopo qualche istante di attesa.

– Rimanete qui, signore, rispose Buttafuoco. – Siamo piú vicini di quello che crediamo alla villa della marchesa; non so però se potremo facilmente raggiungerla. Io mi domando se per caso gli spagnuoli hanno indovinato le nostre intenzioni.

– Perché dite questo, Buttafuoco?

– Mi spiegherò quando sarò tornato.

– Vi allontanate?

– È necessario, signor conte: ma la mia assenza non sarà lunga. Voglio essere certo che non cadiate in qualche imboscata. Quello che vi raccomando è di non muovervi, qualunque cosa dovesse accadere, e se vi attaccano, di resistere fino al mio ritorno, altrimenti non saprei piú ritrovarvi fra tutte queste canne e queste erbe palustri. E poi potreste cadere nella savana tremante che deve trovarsi sulla vostra destra, e non uscireste mai piú da queste sabbie.

– Dunque siamo seriamente minacciati? – disse il signor di Ventimiglia un po’ preoccupato della brutta piega che prendevano le cose.

– Non so nulla per ora. Addio, signor conte, e se non mi spaccano il cranio con una palla, mi rivedrete presto.

Ciò detto il bucaniere si mise a scivolare fra le canne, senza produrre il piú leggero rumore, allontanandosi velocemente.

– Che questa caccia non finisca piú? – disse il guascone. – Signor conte, avete fatto male a lasciare San Domingo. Se foste ritornato nella mia soffitta, nessuno sarebbe venuto a cercarvi di certo.

– Ma se volevate accopparci! – disse Mendoza.

– Perché vi avevo creduto due ladri – rispose don Barrejo. – Se avessi saputo con quali persone avevo da fare, non avrei sfoderato la mia draghinassa. Speriamo che tutto finisca bene. Non è la pelle che mi dispiacerebbe perdere, bensí i miei dobloni.

– Ci tenete tanto?

– Un guascone non è mai stato un signore – rispose l’avventuriero con gravità. – Il signor conte può affermarlo.

– Io tengo piú alla mia carcassa, quantunque nemmeno i baschi siano mai stati castellani, don Barrejo.

– Zitti! – disse il signor di Ventimiglia. – Non è il momento di discutere con la lingua, bensí con l’archibugio.

Aveva aperto con precauzione il gruppo di canne che serviva loro di nascondiglio e osservava attentamente dinanzi a sé.

– Vengono? – chiese Mendoza.

– Non vedo nessuno; eppure se fossi a bordo della mia fregata, mi troverei meglio che qui, anche se ci fossero due galeoni dietro poppa.

Un leggiero fruscio si fece udire in quel momento, poi, dopo qualche istante, comparve Buttafuoco.

– Partiamo subito, signore! – disse – o non giungeremo mai piú alla fattoria della marchesa. Stiamo per essere circondati.

– Ancora? – chiese il conte. – Sono già giunti? Eppure odo sempre i cani latrare verso la savana!

– Io non so quante cinquantine si siano messe in campagna per catturarci. A quanto pare gli spagnuoli ci tengono a prendervi. Dopo tutto, non hanno torto: i tre corsari hanno lasciato troppi ricordi nel golfo del Messico! In marcia, signori! Ogni minuto perduto è un grave pericolo di piú per noi.

– Riusciremo a passare inosservati?

– Sí, lungo la savana tremante – rispose Buttafuoco.

Ripartirono velocemente, tenendosi nascosti dietro alle canne, guidati dal bucaniere.

Di quando in quando Buttafuoco si gettava a terra e accostava un orecchio al suolo, ascoltando attentamente, poi si rialzava e ripartiva con maggiore velocità.

Dopo cinque o seicento metri, i quattro fuggiaschi si trovarono sulla riva di un’altra savana.

– Questo è il momento terribile! – disse Buttafuoco. – Le cinquantine sono sulla nostra sinistra. Vi concedo cinque minuti di riposo poiché avrete da mettere, molto probabilmente, le vostre gambe ad una dura prova.

– Finiremo col diventare cani levrieri – disse Mendoza, scuotendo il capo. – Questo è un allenamento in piena regola.

Il bucaniere lasciò trascorrere i cinque minuti, poi si alzò dicendo:

– Tenete pronti gli archibugi! Vengono!…

– Ah!… poveri i miei dobloni! – mormorò il guascone.

Buttafuoco si era slanciato a corsa disperata. Pareva che un improvviso terrore avesse colto quell’uomo che pure sembrava avesse un cuore di bonzo.

Ad un tratto si udirono alcuni colpi di archibugio, accompagnati da altissime grida e da latrati furiosi.

Le cinquantine si erano accorte del passaggio dei fuggiaschi ed avevano aperto il fuoco.

– Fulmini! Piove piombo! – esclamò il guascone, il quale apriva piú che poteva le sue lunghe e magrissime gambe.

Alcuni uomini, preceduti da parecchi cani, si erano slanciati fuori dai gruppi di canne, urlando a piena gola:

– Ferma!… Ferma!…

– Sparate prima sui cani! – gridò Buttafuoco. – È necessario!

Si era fermato contro il tronco d’una palma e aveva imbracciato l’archibugio. Sette bestiacce giungevano l’una dietro l’altra, con le gole spalancate, urlando come lupi famelici.

Buttafuoco sparò il primo colpo, abbattendo il capo-fila che era il piú grosso e che probabilmente doveva essere anche il piú feroce e pericoloso.

Il conte ed i suoi compagni a loro volta fecero fuoco, gettandone giú altri, poi snudarono le spade, tenendosi in parte riparati dietro al tronco della palma.

Non erano indiani da scappare dinanzi a quei feroci mastini che incutevano agli ingenui figli dell’America centrale, non abituati a vedersi assaliti da bestie cosí grosse, tanta paura

Un luccicare d’acciaio, sette od otto colpi, menati con forza terribile, e le bestie rimasero a terra, sbudellate o decapitate.

Gli spagnuoli, che avevano contato sull’assalto di quei mastini, vedendoli stramazzare l’uno dietro l’altro, ricominciarono a sparare, ma essendo costretti a far fuoco correndo, le loro palle non colpivano mai il segno, anche a causa dei canneti, dietro ai quali si riparavano i fuggiaschi.

Buttafuoco ed i suoi compagni avevano subito ripresa la corsa, non avendo alcun desiderio d’impegnare una battaglia che non offriva nessuna possibilità di riuscire a loro favorevole, dato il numero degli assalitori.

Sbarazzatisi dei cani, i soli che avrebbero potuto raggiungerli e dare loro molto da fare, si erano raccomandati alle proprie gambe, poiché ormai la loro salvezza non consisteva che nella robustezza e resistenza dei garretti.

Buttafuoco, abituato alle fughe precipitose, correva con uno slancio invidiabile. Quel diavolo d’uomo, quantunque non piú giovane, filava come un vero daino inseguito da una muta furibonda.

Chi si trovava male era sempre Mendoza, il quale non finiva mai di borbottare, assicurando di essere ormai finito, dopo tante scappate.

Il guascone invece allargava sempre piú le sue gambe smisurate e pareva che se ne ridesse di quella corsa indiavolata.

Buttafuoco pure, di quando in quando, faceva qualche breve sosta per sparare qualche archibugiata, ma piú per concedere ai suoi compagni un mezzo minuto di riposo che colla speranza di abbattere qualche nemico.

Quella corsa furiosa durava da circa mezz’ora e gli spagnuoli erano rimasti tanto indietro da non scorgerli piú, quando Buttafuoco andò a urtare contro una palizzata.

– Siamo salvi! – gridò. – Ecco la fattoria della marchesa di Montelimar!

CAPITOLO IX. LA VILLA DELLA MARCHESA DI MONTELIMAR

Quantunque esausti per la lunga corsa, i quattro uomini, con uno sforzo supremo, superarono la cinta cadendo in mezzo ad una splendida piantagione di banani che con le loro immense foglie potevano celarli agli sguardi degli inseguitori.

Buttafuoco, dopo aver dato un rapido sguardo all’intorno e aver ripreso respiro, fece cenno ai suoi amici di seguirlo senza indugio.

Si cacciò tra le splendide piante e, dopo aver percorso quattro o cinquecento metri, si fermò dinanzi ad un padiglione costruito tutto in pietra e sormontato da un vasto terrazzo.

– Pel momento nascondiamoci qui – disse. – Gli spagnuoli non oseranno, almeno per questa notte, importunare i servi e i camerieri della marchesa.

– E noi come verremo accolti dall’intendente della signora? – chiese il conte.

– Sono conosciuto – rispose Buttafuoco. – Piú volte sono venuto qui a provvedermi di polvere e di piombo dopo il servigio reso alla marchesa. Sono come un amico.

– E questa è una fortuna! – disse Mendoza. – Se noi ci fossimo presentati, avrebbero potuto prenderci per filibustieri e darci dei buoni pezzi di piombo, invece che dei pranzi e delle colazioni.

– Forse la marchesa avrà mandato qui qualche corriere per avvertire l’intendente del nostro arrivo – rispose il conte.

– O sarà venuta in persona – aggiunse Buttafuoco. – Non mi stupirei. Entriamo, e poi penserò io a chiamare l’intendente, se non si è ancora coricato. Per ora non avete nulla da temere.

Con un poderoso colpo di spalla il bucaniere spalancò la porta ed introdusse i suoi compagni in un’ampia stanza che era ingombra di enormi vasi contenenti delle piante rare.

– Aspettatemi qui – disse. – Forse troverete della frutta che potrà servirvi da cena. Sento profumo di ananassi.

– Eccellenti dopo un buon arrosto – disse Mendoza.

– Contentatevi della frutta per ora – rispose il bucaniere ridendo. – Vi servirà d’antipasto e aguzzerà il vostro appetito.

Prese il suo archibugio, salutò il conte e uscí cautamente, scomparendo fra le tenebre.

– Che diavolo! – disse Mendoza. – Quello lí deve avere nelle vene il sangue d’un giaguaro.

– Se vi fossero in San Domingo cento di quei bucanieri, non so come finirebbero le cinquantine – disse il guascone. – Io non vorrei trovarmi nei panni degli spagnuoli.

– Eppure siete ancora mezzo spagnuolo.

– Ho solamente la corazza spagnuola, signor conte – rispose il guascone – e quando sarò a bordo della fregata del signor conte, mi sbarazzerò anche di questa.

– Se ci giungeremo!

– Ne dubiti, Mendoza? – chiese il signor di Ventimiglia, un po’ sorpreso del pessimismo del suo marinaio.

– Che cosa volete? Non vedo la fine di questa avventura.

– La fine ce la fornirà la marchesa di Montelimar.

– Non dico che quella non sia una donna prodigio, capitano. Come ci ha salvati una volta, potrebbe farlo ancora.

– Silenzio, signor conte – disse in quel momento il guascone – Mi pare che si parli di fuori.

– Saette e lampi! – esclamò Mendoza balzando in piedi – Che gli spagnuoli siano già qui?

Anche il conte si era slanciato verso la porta sgangherata puntando l’archibugio. Si udivano scricchiolare i sassolini del viale che conduceva al padiglione.

– Chi vive? – gridò il conte con voce minacciosa.

– Abbassate il fucile, signor conte – rispose Buttafuoco. – Non spaventate la signora.

– La signora?…

– Sí, perché sono proprio io, signor di Ventimiglia – rispose una voce deliziosa e ben nota.

La marchesa di Montelimar, munita di una torcia, era comparsa sulla soglia, sempre allegra e sempre sorridente, col capo avvolto in una ricchissima manta di seta bianca che faceva spiccare piú vivamente la sua bruna bellezza di andalusa.

– Voi, marchesa! – esclamò il conte.

– Non credevate di trovarmi qui, è vero, signor di Ventimiglia?

– No, marchesa.

– Era necessario salvarvi un’altra volta, perciò ho lasciato San Domingo. Gli ospiti che hanno diviso con me la mia tavola, siano pure dei nemici della mia patria, che pur adoro coll’entusiasmo delle donne di Spagna, sono sacri.

– Avevate dunque saputo che mi davano la caccia?

– Vi dirò anzi che hanno messo in moto tutte le cinquantine disponibili per catturarvi prima che poteste lasciare l’isola, poiché ormai tutti sanno che siete il figlio del Corsaro Rosso ed il nipote di quegli altri due formidabili corsari che si chiamano il Nero e il Verde.

– Come hanno potuto indovinarlo? – chiese il conte, il quale appariva preoccupato.

– Non lo so – rispose la marchesa. – Come vi ho salvato a San Domingo, vi salverò anche qui. Anzi mi diverto in questa caccia all’uomo e vedremo se sarà più astuto il governatore di San Domingo o la marchesa di Montelimar.

– Voi correte però il pericolo di compromettervi.

La bella andalusa alzò le spalle, poi, mostrando i suoi magnifici denti scintillanti come perle, disse con un adorabile sorriso:

– Una Montelimar sarà sempre una Montelimar in qualunque luogo vada. Anzi mi ammirerebbero di piú, quando si sapesse che io ho favorito la vostra fuga. Voi sapete quanto gli spagnuoli siano cavallereschi.

– È vero – disse il conte. – Vi è però una cosa che mi preoccupa assai.

– Quale? Parlate, conte…

– Che sia libera la via che conduce al capo Tiburon? La mia fregata mi aspetta là.

– Ho degli uomini fedeli con me e li manderò su quella via ad informarsi. E poi troverò ben io un mezzo per farvi passare tranquillamente attraverso le cinquantine. Signor conte, la cena a quest’ora dev’essere pronta; so da questo bravo bucaniere che non avete mangiato nulla da stamane. Come avete accettato un pranzo, accettate anche una cena.

– Buttafuoco è un uomo veramente meraviglioso! – mormorò Mendoza. – Pensa a tutto!

La dama uscí accompagnata dal conte e dai suoi uomini.

Buttafuoco stava fuori di guardia.

– Nulla, bucaniere? – chiese la marchesa.

– No, signora – rispose Buttafuoco. – Gli spagnuoli non sono ancora giunti. Forse aspetteranno l’alba per farci una visita.

– Vengano pure: ho la cantina ben fornita e darò da bere a tutti i soldati. Signor conte, seguitemi.

Il signor di Ventimiglia porse alla marchesa il braccio e s’incamminarono attraverso la piantagione di banani, da dove passarono in un bellissimo giardino.

Nel mezzo sorgeva un palazzotto di stile moresco, con ampie gallerie e cupolette e un vasto cortile interno, in cui sussurravano due zampilli d’acqua che mantenevano una deliziosa frescura durante gl’infuocati pomeriggi estivi.

Sotto un porticato parecchie candele, collocate su doppieri d’argento, illuminavano una tavola riccamente imbandita.

– Siete una fata, marchesa – disse il conte.

– Sí, una fata del bosco – rispose la bella andalusa ridendo. – o meglio dei banani, perché qui non si coltivano che quelle deliziose frutta. Signor Buttafuoco, volete farmi l’onore di cenare con noi? Pei vostri compagni ho fatto preparare sul terrazzo di ponente della casa: cosí potranno sorvegliare meglio di lassú le mosse delle cinquantine ed incoraggiare, con la loro presenza, anche i miei uomini.

Il guascone fece un profondo e corretto inchino, mentre Mendoza si dimenava comicamente, non sapendo far di meglio.

Ad un cenno della marchesa, due schiavi africani erano comparsi per condurre l’avventuriero ed il lupo di mare al posto loro assegnato.

– Conte, ceniamo – disse la marchesa, la quale pareva di buonissimo umore, nonostante la presenza delle cinquantine. – L’ora è molto tarda, tuttavia farò del mio meglio per tenervi compagnia.

Il figlio del Corsaro Rosso e Buttafuoco non si fecero ripetere due volte l’invito ed attaccarono vigorosamente le diverse vivande fredde, condite con molto pimento e assai gustose.

La marchesa si accontentava di sgretolare coi suoi dentini delle piccole focacce di granoturco, coperte da un fitto strato di siroppo.

– Direte che noi siamo indiscreti, signora, – disse Buttafuoco – ma in questi due giorni di caccia ostinata non abbiamo avuto il tempo di fare un pasto regolare.

– Due giorni, barone di…

– Barone! – esclamò il signor di Ventimiglia, balzando in piedi, mentre il bucaniere faceva alla marchesa un rapido gesto.

– Perdonate, Buttafuoco – disse la bella andalusa. – Vi avevo, in un momento di distrazione, scambiato per il barone di Giralda.

Il conte aveva guardato attentamente il bucaniere, il quale era divenuto pallidissimo.

– Chi siete voi dunque? – gli chiese.

– Buttafuoco! – rispose l’avventuriero, con un’amarezza cosí profonda che non sfuggí al corsaro.

– Voi mi nascondete il vostro nome.

– Il mio l’ho sepolto nell’oceano, sotto la linea equatoriale – rispose il bucaniere con voce cupa, passandosi piú volte una mano sulla fronte, come per tergersi delle stille di sudore freddo.

– Dicevate, signora marchesa?…

– Non ricordo… ah… sí… mi avete detto che da due giorni le cinquantine vi danno la caccia.

– E con molti cani per di piú.

– E siete riusciti sempre a sfuggire agli agguati? Qui non vi troveranno; non è vero, signor conte?

– Disperavo di poter raggiungere la vostra fattoria, marchesa – rispose il corsaro. – Non saprei ancora dirvi come siamo passati attraverso le cinquantine.

La bella andalusa rimase qualche istante come immersa in un profondo pensiero; poi, guardando il conte, gli chiese:

– Io non so che cosa darei per conoscere quale imperioso motivo ha ricondotto qui, dopo tanti anni, il figlio ed il nipote dei tre formidabili corsari. Un capriccio, qualche vendetta od altro? Non si arriva dall’Europa, né si gioca audacemente la vita, come avete fatto voi, senza un motivo grave. Credo di avervi già dato sufficienti prove di amicizia, perché possiate ritenermi una donna incapace di tradire uno dei vostri segreti e di perdervi.

– Oh, marchesa! – protestò il signor di Ventimiglia.

– Forse voi fra ventiquattro ore tornerete ad imbarcarvi sulla vostra fregata – proseguí la bella andalusa con un sospiro – e noi, probabilmente, non ci rivedremo mai piú… ed il bel sogno sarà finito. Parlate; siete fra una gentildonna ed un gentiluomo.

– Buttafuoco?…

– Io so chi è! – disse la marchesa.

– Voi dunque volete conoscere per quale ragione io ho lasciato l’Europa per corseggiare l’America? Non per sete di avventure; non per sete di ricchezza, che io disprezzo altamente, signora, avendo laggiú sulla riviera ligure terre e castelli… è per chiedere a vostro cognato, l’ex governatore di Maracaibo, che cosa ha fatto di mia sorella, della nipote del gran Cacico del Darien!

– Del Darien! – esclamarono ad una voce la marchesa ed il bucaniere.

– Mio padre, prima di salpare per l’America insieme ai suoi fratelli, il Corsaro Nero ed il corsaro Verde, per compiere una vendetta, aveva sposato una duchessa del Brabante, la quale morí giovanissima, dopo d’avermi dato alla luce, e perciò non conobbi mai – disse il signor di Ventimiglia con voce triste. – In una delle sue crociere attraverso il golfo, mio padre naufragò e trovò asilo sicuro presso il gran Cacico del Darien, nemico giurato e terribile dei vostri compatrioti, signora marchesa. Ebbe aiuti, onori e gli fu offerta in isposa una principessa del paese, dalla quale ebbe una figlia. Quando mio padre fu sorpreso nei bassifondi di Maracaibo, e fu preso ed appiccato, non come un valoroso marinaio che lottava per una santa causa, ma come un volgare malfattore, aveva con sé quella fanciulla. Che cosa ne ha fatto vostro cognato, il marchese di Montelimar, ex governatore di Maracaibo? Io lo ignoro. Perciò sono venuto qui a chiedergli stretto conto di mia sorella e, se l’ha uccisa, vi giuro, signora, che la lama di Ventimiglia berrà il suo sangue. Allevato alla Corte dei duchi di Savoia, io ho sempre ignorato che mio padre avesse lasciata qui una figlia. Informato qualche anno fa da Morgan, il famoso conquistatore di Panama, ed ora governatore della Giamaica, di questo fatto, da lui conosciuto probabilmente per mezzo di Jolanda sua moglie, la figlia del Corsaro Nero, sono venuto a cercarla. Abbia pur nelle vene sangue indiano, è sempre mia sorella e la troverò, o vivaddio rinnoverò le gesta dei tre corsari e non tornerò in Europa senza prima aver compiuto terribili vendette.

– Vorreste vendicare anche la morte di vostro padre? – disse la marchesa, la quale l’aveva ascoltato col piú vivo interesse.

– Su questo argomento, marchesa, per il momento non posso parlare – disse il conte quasi con ira.

– Lo leggo nei vostri occhi.

– Può essere.

– E questa vostra sorella dove l’anderete a cercare? – disse Buttafuoco, il quale fino allora era rimasto silenzioso.

– Il marchese di Montelimar me lo dirà – rispose il conte. – Ormai so dove si trova; poi spero d’avere, fra qualche giorno, nelle mie mani il suo segretario. Se non fosse per questo, la mia fregata non mi aspetterebbe al capo Tiburon, a rischio di essere catturata dai galeoni o dalle caravelle spagnuole. Che cosa ne dite, Buttafuoco?

Il bucaniere approvò con un gesto del capo.

– Siete soddisfatta, marchesa? – chiese il conte.

– Forse non quanto desidererei – rispose la bella andalusa.– Credo che non solamente per ritrovare vostra sorella voi abbiate lasciato l’Italia e siate venuto in questi mari lontani.

– Mio padre ed i suoi fratelli diventarono corsari per compiere delle vendette – rispose il conte con voce sorda. – È probabile che anch’io debba compierne una; ma questa, signora, deve rimanere un segreto fra me e Dio.

Il bucaniere riempí il bicchiere del conte, dicendo:

– Bevete, signore: l’aguardiente sopisce e soffoca in me, piú di quello che credete, terribili ricordi: questo delizioso vino di Spagna calmerà i vostri.

In quello stesso momento in cui il conte, forse convinto dalle parole del misterioso avventuriero, stava per vuotare la tazza, un negro si precipitò nel porticato, col viso sconvolto, la pelle grigiastra, gli occhi di porcellana dilatati, dicendo:

– Sono qui, signora: sono entrati.

– Chi? – chiese la marchesa aggrottando la fronte.

– Una cinquantina intera.

– Con qual diritto?

– Ordine del governatore di San Domingo.

– Comincia a diventare noioso quel signore! – disse la marchesa alzandosi.

– Amici, non sarebbe prudente che voi rimaneste ancora qui. Ci hanno interrotta una notte deliziosa, ma io no ne ho nessuna colpa… Marto, chiama subito gli uomini che cenano sulla terrazza.

– Che cosa volere fare, Marchesa? – chiese il bucaniere.

– Nascondervi.

– Nella vostra palazzina? Con un ordine del governatore non si tratterranno dal frugarla da cima a fondo.

La signora di Montelimar ebbe un sorriso.

– Lasciate fare a me, conte – disse.

– Avete qualche nascondiglio segreto anche qui?

– Vi mando nelle mie cantine.

– Bel luogo! – disse Mendoza che entrava in quel momento, seguito dal guascone.

– Marto, conduci questi signori nell’ultima cantina, quella che è piena di botti. Gli spagnuoli non giungeranno fin là; rispondo io di tutto, conte.

I quattro uomini seguirono il servo negro, il quale si era munito di parecchie torce e d’un paniere dove aveva messo i resti della cena.

Giunti all’estremità dell’ampio cortile Marto aprí una porticina e li fece scendere per una scaletta stretta e umida, e li condusse poi attraverso spaziose cantine piene di botti grossissime.

– Compare, – disse il guascone battendo sulle spalle di Mendoza – giú vi è da bere a crepapelle.

– E noi berremo! – rispose il filibustiere. – Ne assaggeremo un po’ da tutti quei recipienti. La marchesa non deve bere che del vino delle Canarie o di Alicante.

Attraversate parecchie cantine, giunsero finalmente nell’ultima, assai lunga e stretta, e anche quella ingombra di botti e di barili.

– È un paradiso un po’ oscuro, ma pur sempre un paradiso, – disse Mendoza, facendo schioccare la lingua.

– Passate, signori, – disse il negro – perché devo ostruire l’entrata con dei barili.

– Non ci seppellirai vivi, spero – disse il guascone.

– Non abbiate questo timore – rispose l’africano sorridendo.

Il conte, Buttafuoco e i due avventurieri s’affrettarono a rifugiarsi nella cantina, portando le torce, gli archibugi ed il paniere, mentre Marto spingeva contro l’apertura, molto bassa e molto stretta, una grossa botte, ostruendo e nascondendo completamente il passaggio.

– Speriamo che questa avventura sia l’ultima! – disse il conte, dopo aver piantata in terra una torcia. – Che ne dite, Buttafuoco?

– Eh! – rispose il bucaniere, il quale non sembrava molto tranquillo. – Non so se la marchesa potrà resistere ad un ordine scritto dal governatore di San Domingo.

– Che ci vengano a scovare?

– Non saprei che cosa rispondere alla vostra domanda, signor conte.

– Se verranno, ci difenderemo – disse Mendoza. – Qui siamo come in una casamatta.

– Ma senza uscite – aggiunse il guascone. – Noi siamo come lupi rinchiusi nella loro tana con i cacciatori all’ingiro.

– In attesa che i cacciatori si mostrino o si ritirino, io avrei una proposta da fare – disse Mendoza.

– Quale? – chiese il conte.

– Di terminare la cena, giacché quel bravo pagano dell’Africa ha avuto la buona idea di empire il canestro; e poi di assaggiare il vino di questa botte.

Sono curiosissimo di sapere quali vini beve la marchesa e quali offre ai suoi ospiti. Vi pare, don Barrejo?

– Un guascone non rifiuta mai di bere! – rispose l’avventuriero, con sussiego.

– Signore conte, – disse Buttafuoco, il quale non aveva potuto frenare uno scoppio di risa – dove avete raccolti questi due diavoli?

– Uno l’ho pescato nel mar di Biscaglia – rispose il signor di Ventimiglia.

– E me fra i boschi di San Domingo, presso Puerta del Sol aggiunse il guascone. – Ma anch’io ho respirato l’aria salubre del mar di Biscaglia.

Compare, terminiamo la cena, se il signor conte ce lo permette: io non ho avuto che il tempo di assaggiare una costoletta di cinghiale, coriacea come la carne d’un mulo centenario.

– Fate pure – disse il signor di Ventimiglia. – Io preferisco, finché gli spagnuoli ci lasciano un po’ di respiro, chiudere gli occhi.

– Ed io altrettanto – aggiunse il bucaniere. – Se si dovrà impegnare nuovamente la lotta, saremo almeno riposati. Affidiamo a voi la guardia.

– Un guascone non s’addormenta mai in faccia al nemico – disse don Barrejo.

– E nemmeno un basco! – aggiunse Mendoza.

– Si sono ben appaiati – brontolò il bucaniere.

Il conte si era già coricato fra due botti ed aveva subito chiusi gli occhi. Buttafuoco non tardò ad imitarlo, mentre il filibustiere ed il suo degno compagno si accoccolavano intorno al canestro, pescando e divorando quanto vi era dentro, per nulla preoccupati dell’imminente pericolo che li minacciava.

– Sapete, don Barrejo, che voi resistete meravigliosamente al sonno? – disse Mendoza, quando non vi fu piú nulla da porre sotto i denti.

– E che!… Un guascone!…

– Questi guasconi sono dunque delle macchine?

– Quasi, compare.

– Se provassimo la nostra resistenza al vino?

– Era quello che volevo proporvi. Quel brutto negro si è dimenticato di mettere delle bottiglie nel canestro. Ma non valeva la pena che s’incomodasse; non siamo qui in una cantina marchionale? Sono qualche volta una bestia, compare – disse l’avventuriero. – Quantunque guascone!…

– Eh, qualche volta anche noi diventiamo bestioni; ma io rimedio subito…

– Guardate che bella pancia ha quel bottale!… Scommetterei che contiene dello Xeres.

– No, dell’Alicante.

– Ma che!… Xeres.

– Me ne intendo io di vini di Spagna!

– Anche senza assaggiarli?… Compare!… Voi siete un uomo meraviglioso!… Scommettiamo uno dei vostri dobloni?

– Vada per il doblone, – rispose don Barrejo, – Si troverà meglio nelle vostre tasche che in quelle degli spagnuoli. Spillate, compare, vedremo chi avrà ragione.

Mendoza, che aveva già adocchiato un grosso boccale di terra, nascosto sotto una trave e che serviva probabilmente ai cantinieri per gustare il vino della marchesa all’insaputa dell’intendente, andò a spillare il panciuto recipiente, facendo uscire un bel rivoletto color dell’ambra.

– Caramba! – esclamò il marinaio. – Voi avete una fortuna indiavolata, signor Barrejo. Questo è vero Alicante!… Che i guasconi abbiano anche un fiuto meraviglioso?

Vanusepiirang:
12+
Ilmumiskuupäev Litres'is:
30 august 2016
Objętość:
440 lk 1 illustratsioon
Õiguste omanik:
Public Domain