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Il tesoro della montagna azzurra

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– Bisogna decidersi, – disse Emanuel, con voce insinuante. – Non dobbiamo lasciarci morire di fame, quando qui c’è carne in abbondanza. La terra può essere ancora molto lontana, amici, pensateci.

– Ciò che tu proponi, ragazzo, è molto grave, – rispose John il pescatore. – Noi non siamo dei Kanaki.

– E allora lasciati morire, – osservò un altro. – Io per mio conto sono deciso a tutto, pur di poter saziare questa tremenda fame che da tre giorni mi tormenta.

– Morire prima o dopo è tutt’uno, – soggiunse un altro. – Se la sorte designerà me per prima vittima, non mi lamenterò, ve lo giuro.

– Ma che sorte! – esclamò Emanuel. – Non dobbiamo affatto sacrificarci. Di chi è la colpa di tutte le nostre disgrazie? Nostra, no di certo. Senza quei due giovani che si sono messi in testa di andare a raccogliere un tesoro, noi non ci troveremo in così tristi condizioni. Mangiamo dunque loro.

A quell’atroce proposta, fatta da quel giovane, che fino allora sembrava che avesse nutrito una profonda simpatia, se non verso don Pedro, almeno verso Mina, i marinai si erano guardati l’un l’altro con terrore, lasciando cadere le canne da pesca.

– John, – disse uno di loro, volgendosi verso il pescatore – mettiti di guardia e avvertici se il capitano o Reton si avvicinano. L’affare è grave e non deve essere conosciuto dagli altri, quantunque io sia certo che approveranno pienamente le nostre decisioni. La fame li deciderà.

L’americano si allontanò di alcuni passi, sdraiandosi fra due barili. Il capitano e Reton, seduti presso il timone, parlavano sommessamente e sembrava che non si fossero accorti di quella riunione di antropofagi. Gli altri marinai russavano, dispersi qua e là per il tavolato. La tenda occupata da Mina e da suo fratello era chiusa.

– Riprendiamo il nostro discorso, – disse Emanuel. – Credete di poter aspettare ancora?

– No, risposero in coro i marinai.

– Credete che i vostri compagni si opporranno?

– Nemmeno.

– Allora chiediamo al capitano che ci dia dei viveri o che ci abbandoni la ragazza o il fratello.

– Preferisco la prima, – osservò uno dei congiurati, con un atroce sorriso. – Sarà più tenera.

– E se il capitano si rifiutasse? – chiesero due o tre altri.

– Ricorreremo alla forza, – rispose Emanuel.

– Tu dimentichi però, – osservò un gabbiere – che le armi da fuoco sono nelle mani del capitano.

– Siamo in dodici e i coltelli e le scuri non mancano. Se hai paura, ritirati.

– Ho troppa fame per indietreggiare.

– Chi sarà il nostro capo?

– Hermos, il pilota, – risposero tutti ad una voce.

– È quello infatti che gode maggiore autorità. È il più in gamba di tutti, – osservò Emanuel. – Purché accetti.

– Mi incarico io di farlo decidere, – disse una voce.

In quel momento si udirono tre colpi di tosse. Il pescatore dava il segnale di finire la discussione.

– A domani, – sussurrarono.

Ripresero le canne e si sdraiarono bocconi fingendo di pescare. Reton, che per istinto sospettava di tutto e di tutti, avanzava cautamente verso la prora, con la speranza di sorprendere il traditore. Vedendo quella riunione di marinai la sua fronte si aggrottò.

– Come va la pesca? – chiese.

– Male, bosmano, – rispose il gabbiere. – non c’è carne da mettere sugli ami e i pesci non si lasciano ingannare da un pezzetto di cuoio. Bisognerà bene che il capitano si decida a fornircene, se non vuole farci morire di fame tutti.

– E di quale carne? – domandò Reton.

– Mil diables! – esclamò il pescatore americano, che aveva raggiunti i camerati. – Ce n’è perfino troppa su questa zattera del malanno! Uno di meno non sarà gran cosa.

– Che vuoi dire, John? – chiese il bosmano atterrito.

– Che così non si può andare avanti e che è arrivato il momento di prendere una decisione.

– Quale?

– La diremo domani al capitano.

– Tu hai qualche brutto pensiero, Jonathan, – disse Reton.

– Vedremo se i miei camerati lo troveranno buono o cattivo.

– Io l’approvo già, – asserì Emanuel.

– Taci tu, – rispose Reton con ira.

– Siamo tutti uguali su questa zattera, perché la mia pelle vale quanto la vostra, bosmano.

Reton, furioso, alzò la destra e lasciò andare un manrovescio; ma il marinaio, che si teneva in guardia, con un salto da coguaro fu lesto a fuggire, prorompendo in una fragorosa risata.

– Lascia andare quel ragazzo, Reton, – soggiunse il gabbiere, vedendo che il bosmano si preparava a rinnovare l’attacco. – Sai che ama scherzare e che non conta affatto.

– Io voglio sapere che cosa avete deciso, – disse il bosmano.

– Ti ho detto che lo diremo domani al capitano, – rispose John. – Non c’è alcuna fretta per il momento.

Reton, comprendendo che non sarebbe riuscito a saper nulla e non volendo irritare quegli animi troppo inaspriti dalle lunghe privazioni, si allontanò brontolando. Dopo tutto poteva ancora illudersi di essersi ingannato sul vero significato di quelle parole, non avendo assistito alla riunione di poco prima.

– Bah! – disse tra sé. – Forse proporranno al capitano di cambiare rotta. Non inquietiamo don Josè.

Fingendo che nulla fosse accaduto, aveva ripreso il suo posto presso il timone, sebbene non fosse necessaria alcuna manovra, poiché la calma non si era rotta nemmeno con il cadere della notte e la zattera rimaneva immobile, con la sua vela pendente tristemente lungo l’albero. La notte trascorse senza alcun altro avvenimento degno di nota. Se però il bosmano avesse meglio sorvegliato, avrebbe potuto scorgere dei corpi umani scivolare con cautela fra gli oggetti ingombranti il galleggiante e svegliare gli uomini che dormivano e scambiarsi delle rapide parole. Il capitano si era addormentato e lui, non volendo lasciare quel posto, sempre con la speranza che un po’ di brezza si alzasse di momento in momento, non aveva fatta più alcuna escursione verso prora, sicché quelle misteriose manovre gli erano sfuggite. D’altronde una parte dei marinai aveva ripreso il suo posto, fingendo sempre di dare la caccia ai pesci che mancavano invece assolutamente. Verso le sette, il capitano si svegliò e l’intero equipaggio avanzò in gruppo compatto verso poppa, capitanato dal pilota dell’Andalusia, un pezzo di gigante, forte come un toro, che aveva nelle vene più sangue indiano che europeo. Apparentemente nessuno era armato; era però possibile che sotto le casacche avessero, se non delle scuri, almeno i loro coltelli di manovra.

– Che cosa volete? – chiese il capitano, sorpreso di vedere i suoi fedeli marinai avanzare verso di lui in atteggiamento minaccioso, mentre il bosmano scivolava sotto la tenda per avvertire don Pedro e Mina di tenere pronti i fucili.

– Veniamo a reclamare la colazione, comandante, – rispose Hermos con voce decisa. – Sono due giorni che non mangiamo.

– Avete preso dei pesci la notte scorsa? Portateli qui e li divideremo in parti eguali.

– Quali? Senza carne sugli ami non si possono catturare. Voi lo sapete meglio di me.

– E così?

– Io dico che abbiamo bisogno di carne per sfamarci. Non possiamo contare né sulla pesca, né sulla caccia.

Don Josè era diventato pallidissimo e ira e indignazione gli erano balenate nello sguardo. Aveva ormai compreso che cosa stavano per chiedere i suoi marinai. Non volle però dare la soddisfazione di avere indovinato lo scopo di quella riunione. Con uno sforzo supremo si contenne, incrociò le braccia sul petto e fissando ben in viso il pilota:

– Non so che cosa tu voglia, Hermios, – disse con voce abbastanza tranquilla.

– Un altro al vostro posto mi avrebbe perfettamente compreso, senza chiedere ulteriori spiegazioni. Noi abbiamo fame.

– E io non meno di te, – ribatté il capitano con una certa violenza.

– E allora, comandante, si ricorre ai mezzi estremi. Si tratta di perderne uno, mettiamo anche due, per salvarne tredici o quattordici, – disse il pilota. – Hanno fatto così a bordo della zattera della Medusa e mio nonno ha potuto così ritornarsene in patria.

– Miserabile! – esclamò con voce soffocata il capitano. – Questa non è la zattera della Medusa e c›è qui ancora un comandante per tenere a freno un equipaggio. Piuttosto la morte, che assistere alle spaventose scene svoltesi su quel rottame.

– La fame non ragiona, signore, – disse John, facendosi a sua volta avanti. – Poiché voi non potete darci da mangiare, lasciate che ci procuriamo noi dei viveri come possiamo.

– Anche tu, John, vorresti diventare un antropofago?

– Siamo nel paese dei cannibali, capitano! – gridò Emanuel.

– Decidetevi, comandante, – disse Hermos. – Siamo impazienti di decidere.

– Con una estrazione a sorte?

– Si potrebbe farne anche a meno, – rispose il pilota, con un cinico sorriso. – Prenderemo intanto uno di quelli che sono stati la causa di questo disastro. Senza la loro presenza a bordo dell’Andalusia, noi non ci troveremmo in queste condizioni. Comincino essi a fornirci i mezzi necessari per vivere. Se le loro carni non basteranno, verrà la nostra volta e non ci lamenteremo.

– Mi spiegherai meglio queste oscure parole, – disse il capitano alzando minacciosamente la destra.

– Badate, capitano, che qui noi siamo tutti d’accordo, – rispose il pilota facendo un passo indietro e cacciando una mano dentro la larga fascia di lana rossa che gli cingeva i fianchi e che probabilmente nascondeva il coltello.

– Spiegati meglio, miserabile! – tuonò don Josè.

– Si diceva dunque che qui ci sono delle persone che non hanno mai fatto parte dell’equipaggio dell’Andalusia e che per avidità d’oro ci hanno condotti alla rovina.

Don Pedro e Mina che stavano dietro il capitano, avevano mandato un grido d’angoscia; poi il primo si era scagliato verso il miserabile, chiedendogli:

 

– Sono io, dunque, che tu vorresti immolare alla tua fame, è vero?

– No, l’equipaggio preferirebbe vostra…

Il pilota non poté finire la frase. La destra del capitano era caduta sul viso del furfante con tale violenza che parve lo schianto di un albero. L’uomo girò due volte su stesso come una trottola, poi stramazzò a terra, sputando, insieme ad una boccata di sangue anche alcuni denti. Un urlo di furore si alzò fra l’equipaggio. I coltelli da manovra fino allora nascosti nelle fasce o sotto le casacche, scintillarono sinistramente ai raggi del sole. Nello stesso momento Reton balzava fuori dalla tenda portando quattro carabine e gridando:

– A voi capitano! A voi, don Pedro! Prendete, señorita! Sparate senza misericordia su queste canaglie!

Don Josè aveva afferrato la carabina che il bravo mastro gli porgeva e l’aveva puntata risolutamente contro i ribelli gridando con accento terribile:

– Indietro e giù le mani, o faccio fuoco!

L’alta statura del comandante, la collera intensa che traspariva dal suo viso, l’autorità non ancora del tutto perduta e forse più di tutto l’accento imperioso, avevano trattenuto i ribelli. E poi non avevano davanti soltanto un uomo. Anche Pedro, Mina e il bosmano avevano caricate precipitosamente le carabine, dirigendo le canne verso il gruppo.

– Mi avete inteso? – gridò don Josè, vedendo che i marinai non si decidevano a lasciare le armi.

Il pilota, dopo aver proferito alcune bestemmie, si era alzato facendo scattare, con un colpo secco, la navaja che teneva nascosta nella fascia, una splendida arma spagnola lunga quasi due piedi.

– Non cedete, camerati! – aveva gridato a sua volta.

Don Josè gli appoggiò la canna della carabina sul petto:

– Se pronunci una sola parola, sei morto! – esclamò.

I marinai, credendo che gli assaliti si preparassero a sparare, erano indietreggiati, urtandosi confusamente. Reton si era lanciato verso di loro, impugnando il fucile per la canna e facendolo roteare come una mazza urlando:

– Via di qui, canaglie!

I marinai che erano in coda si erano già sbandati, scappando a destra e a sinistra. A un tratto echeggiò un urlo acuto, straziante:

– Aiuto!

A babordo della zattera si era udito un tonfo. Qualcuno nella fretta di fuggire era inciampato contro qualche gomena o contro un altro ostacolo e doveva essere caduto in mare. Quel grido giungeva a buon punto, poiché don Josè stava per premere il grilletto e fulminare il pilota. Tutti si erano precipitati verso il margine della zattera scordando subito la fame e lasciando sfumare le loro idee bellicose. Perfino Hermos, troppo contento di essere sfuggito a una morte certa, era accorso seguito da don Josè, da don Pedro e da Mina. Un uomo era caduto in acqua e si teneva disperatamente aggrappato all’orlo della zattera, gemendo e urlando spaventosamente. Attorno a lui la spuma che rimbalzava contro le travi e i barili si tingeva di rosso. Il disgraziato aveva gli occhi dilatati da un terrore impossibile a descriversi e il viso orribilmente sconvolto. Reton, che era giunto per primo, afferrò il marinaio per le braccia e lo trasse sulla zattera. Un urlo di orrore era sfuggito da tutti i petti. Reton stesso lo aveva lasciato cadere, indietreggiando terrorizzato.

– Quest’uomo è spacciato! – aveva gridato il pilota. – Gli accordo mezz’ora di vita.

Forse quella generosità era anche troppa, poiché il povero naufrago aveva perso le gambe, tagliate quasi rasente il ventre da un colpo di denti, dallo squalo che da tanti giorni si teneva nascosto sotto la zattera, aspettando pazientemente la sua preda.

VII. PESCI VELENOSI

Il marinaio, appena lasciato cadere, aveva allargate le braccia come per cercare di aggrapparsi a qualche cosa, mandando dei gemiti. Dai due tronconi delle cosce, qua e là sbrindellati dai terribili denti dello squalo, sfuggivano, con rapide pulsazioni, due getti di sangue spumoso che si spandevano sulle tavole della zattera. Don Josè, fattosi largo fra i marinai, che stavano immobili, come istupiditi, si era curvato sul disgraziato, dicendo con voce commossa:

– Mio povero Escobedo… coraggio!

Il marinaio lo fissò in viso con due occhi già velati dalla morte: poi, alzando una mano, disse con voce fioca:

– Prima… o dopo … ma non così… soffro… soffro troppo… uccidetemi… per pietà…

– Vediamo prima, si può forse ancora salvarti. Ho visto altri uomini sopravvivere a queste ferite.

– Uccidetemi… capitano… sono un uomo finito, – continuava a gemere il disgraziato. – Non tentate nulla… finitemi…

– Un pezzo di vela, – disse il capitano. – cerchiamo prima di tutto di arrestare il sangue.

– Non fate altro che prolungare l’agonia di Escobedo, – osservò il pilota, che lanciava sguardi bramosi sul moribondo.

– Non importa, – rispose don Josè. – Io debbo tentare tutto.

– Sì, per strapparci anche quella carne, – mormorò ferocemente Hermos. – Invoca la morte: uccidetelo e avremo il nostro pasto.

Il capitano, aiutato da Reton e da Pedro, avvolse le spaventose ferite, non con la speranza di strappare alla morte il disgraziato, ma per fermare il sangue e farlo soffrire meno. Sapeva già che era ormai irrimediabilmente condannato. Aveva però appena finita la fasciatura quando Escobedo mandò un urlo così spaventoso da far indietreggiare i marinai che lo avevano circondato.

– Dategli una coltellata, capitano! – gridò il pilota. – Non vedete che soffre troppo? Fategli questa grazia.

– Mai, – rispose don Josè. – Non ho il diritto di sopprimere una vita umana.

– Ormai è condannato.

– Attenda la sua sorte.

– Se voleste…

– Taci, miserabile. Lascialo morire in pace.

La morte non era lontana. Escobedo pareva fosse stato colto da una sincope, poiché aveva chiusi gli occhi e le sue labbra rimanevano mute. Solo un lungo brivido, che di quando in quando scuoteva quel misero corpo e che causava una nuova uscita di sangue, indicava che lo sventurato era ancora vivo. Il capitano aveva fatto allontanare Mina, poi si era inginocchiato presso il moribondo, senza abbandonare la carabina. I marinai, muti, profondamente impressionati, erano rimasti in piedi, seguendo attentamente quei brividi che diventavano di momento in momento meno intensi. Quell’agonia straziante durò un paio di minuti, poi il corpo del mutilato s’irrigidì.

– Morto! – esclamò don Josè, dopo aver posato una mano sul cuore del defunto. – Ed è il secondo.

– Questo servirà almeno a qualche cosa, – disse il pilota a mezza voce.

Fortunatamente né il capitano né Reton avevano udito quelle parole.

– Copritelo con un pezzo di tela, – comandò don Josè. – Lo getteremo in mare questa sera.

Hermos si era fatto avanti insieme a sette od otto compagni, i più affamati e anche i più esasperati.

– Vorreste offrire a quel pescecane del malanno anche la cena? – chiese a denti stretti. – Non ne ha avuto abbastanza delle due gambe?

– Cercagli un’altra tomba tu, – rispose il capitano, volgendogli le spalle.

– Ah, la vedremo! – brontolò il pilota. Poi, volgendosi verso i suoi amici, soggiunse: – Mettere una guardia d’onore intorno a questo cadavere. Che nessuno lo tocchi. Appartiene a noi e lo avremo.

Il capitano, ancora profondamente scosso per il tragico avvenimento, si era ritirato sotto la tenda dove già si trovavano Mina e don Pedro tenendo avanti a loro le carabine e le munizioni. Reton si era fermato di fuori, di sentinella, temendo qualche brutto tiro da parte dei ribelli, i quali non riconoscevano più alcuna autorità. Il capitano, seduto davanti ai due giovani, tenendo il fucile fra le ginocchia.

– Miei poveri amici, – disse. – Questa è la guerra. D’ora in poi, se vi preme la vita, sarete anche voi costretti a vigilare attentamente. Ringraziamo Dio di essere noi soli in possesso delle armi da fuoco.

– Che la follia abbia colpito quegli uomini? – chiese don Pedro. – Ancora pochi giorni fa vi obbedivano ciecamente e avevano in voi una immensa fiducia.

– I lunghi patimenti rendono spesso gli uomini feroci come belve. Se una notte o l’altra ci sorprendono, per noi è finita. La fame, implacabile, li avventerà contro di noi.

– Avranno il coraggio di cibarsi di carne umana? – chiese Mina, facendo un gesto di ribrezzo. – A me sembrerebbe impossibile.

– Ebbene, vi dico che non rispondo del cadavere di quel povero Escobedo.

– Non lo farete gettare in acqua?

– Mi proverò, señorita, ma temo purtroppo di trovare una feroce resistenza da parte di tutti.

– E lo lascerete divorare?

Il capitano crollò il capo senza rispondere, poi si alzò e uscì dietro la tenda. I marinai si erano sdraiati fra i barili e le travi, coprendosi con dei lembi di tela per ripararsi dagli implacabili raggi solari che cadevano a piombo, inondando l’oceano di una luce così accecante da far dolorare gli occhi. Una calma pesante gravava sulla disgraziata zattera, fluttuante sulla sconfinata distesa d’acqua. Era sempre l’immensità deserta, senza navi, senza terre, senza pesci: l’immensità della disperazione. Il capitano contemplava tristemente da parecchi minuti quel deserto d’acqua, non meno terribile del grande Sahara, quando scorse una fregata sorgere dai confini dell’orizzonte e avviarsi in direzione della zattera. Il rapidissimo volatile fendeva lo spazio con la velocità del fulmine tenendo le ali spiegate e quasi immobili. Il capitano, che non aveva lasciato la sua carabina a due colpi, si era prontamente alzato.

– È Dio che la manda, – disse. – Sarà poca cosa, appena un boccone per ciascuno, ma forse basterà a calmare la ferocia di questi affamati.

Aveva caricata rapidamente la carabina. La fregata non si trovava che a cento passi e stava per passare, rapida come una saetta, al di sopra della zattera. Due spari rimbombarono e l’uccello, arrestato di colpo nel suo volo, venne a cadere presso l’albero, fulminato da una scarica di piombo. I marinai, che sonnecchiavano sotto le tende, credendo che si trattasse di un attacco improvviso, erano balzati fuori, tenendo in pugno i coltelli di manovra, le navaje e le scuri. La voce del pilota si fece subito udire beffarda, insolente:

– Tanto baccano per un così miserabile uccello! Non valeva la pena che vi disturbaste, capitano, mentre c’è un morto a bordo.

Don Josè, udendo quelle parole, era indietreggiato verso la tenda, sulla cui soglia, attirati dagli spari, s’eran presentati don Pedro, Mina e il bosmano, gridando:

– Un’altra carabina!

– Ecco la mia, capitano, – rispose Reton. – È carica con due palle incatenate.

Il capitano la impugnò e mosse verso Hermos, che sembrava lo sfidasse sogghignando. Una collera terribile aveva alterati i lineamenti di don Josè.

– Cosa hai detto, tu? – chiese al pilota.

I marinai, prevedendo che stava per succedere qualcosa di grave, si erano affrettati ad alzarsi e a radunarsi dietro il loro nuovo capo.

– Parla, – ripeté il capitano, mentre, a loro volta, il bosmano e don Pedro accorrevano in suo soccorso.

Hermos esitò qualche istante ancora a rispondere, poi, vedendosi spalleggiato dai suoi, rispose:

– Ho detto che non valeva la pena di sprecare della polvere per abbattere un uccello che non potrà servire nemmeno di colazione a due o tre persone, con la fame che abbiamo in corpo.

– Hai aggiunto qualche altra cosa, furfante.

– Sì, che a bordo c’è un morto che potrebbe fornire un pasto ben più abbondante. Voi tenetevi pure la fregata, se siete diventato schizzinoso; noi ci terremo Escobedo.

– E cosa volete farne? – urlò il capitano.

– Mangiarlo, signore, – rispose audacemente il capo dei ribelli.

– E hai il coraggio di dirmelo sul viso?

– Eh, vivaddio, noi non vogliamo crepare di fame, signore, e per noi, nelle condizioni in cui ci troviamo, carne umana o carne di pescecane è tutt’uno! È vero, camerati?

Un mormorio di approvazione fu la risposta.

– Miserabili! Osereste tanto? Dove sono i miei fedeli marinai che fino a pochi giorni fa obbedivano al loro capo? Siete diventati tanti bruti?

– Ve l’ho già detto, signore: la fame non ragiona.

– Voi non commetterete una simile infamia davanti ai miei occhi.

– Se non volete vedere, ritiratevi sotto la tenda e lasciate fare a noi, – disse John il pescatore.

– Voi non toccherete quel cadavere che è quello di un vostro camerata; più ancora, di un vostro amico. Gettatelo subito in acqua.

– No, capitano, – risposero otto o dieci voci.

– Obbedite o faccio fuoco contro chi mi rifiuta obbedienza.

– Sarete costretto a ucciderci tutti, signore, perché nessuno vi obbedisce più, – disse il pilota. – Nella sventura si diventa tutti eguali.

 

– È una ribellione?

– Chiamatela come volete, a noi non importa. Qui ormai non regna che la fame.

– Gettate in acqua quel cadavere! – ripeté il capitano, alzando la carabina. – Io sono sempre il comandante dell’Andalusia e mi farò rispettare a colpi di fucile, se sarà necessario.

I marinai invece di obbedire, si schierarono davanti alla salma del povero Escobedo, per impedire che il bosmano e don Pedro, i quali si erano già fatti avanti, eseguissero l’ordine.

– Sgombrate! – urlò il capitano.

– Rayo de dios! Finiamola con quest’uomo che ci impedisce di sfamarci! – gridò Hermos, levando la navaja e balzando in avanti. – Sotto camerati!

Don Josè aveva puntato rapidamente il fucile. Uno sparo rintronò e il capo dei ribelli stramazzò sulla tolda, con il cranio fracassato dalle due palle incatenate. Un urlo di orrore e di rabbia si era alzato fra i marinai, poi seguì un profondo silenzio. Tutti sembravano paralizzati dallo stupore.

– Dio mi perdoni! – esclamò don Josè. – Quell’uomo lo ha voluto.

I ribelli si ritiravano davanti a lui, atterriti dall’atto audace, stringendo furiosamente i coltelli e le scuri, che a nulla valevano contro le armi da fuoco. In quel momento si udì un forte scricchiolio, poi si udì il bosmano gridare:

– Il vento! Il vento! Alla vela, camerati! La terra dei Canaki sta davanti a noi!

A quel grido, i ribelli si guardarono l’un l’altro con un certo stupore, poi si gettarono come un sol uomo verso l’albero, issando rapidamente la vela. Sembrava d’un tratto avessero dimenticata la fame, la morte del loro capo improvvisato e ogni idea di vendetta. Solo Emanuel era rimasto immobile, mordendosi le labbra a sangue. Il vento, una fresca brezza che spirava da levante, si era alzato increspando fortemente la superficie dell’oceano. Il bosmano e don Josè erano accorsi al timone, dopo aver fatto segno a Mina e a don Pedro di seguirli, nel timore di qualche altra brutta sorpresa. Ormai non si fidavano più dei loro marinai, anche se privati del loro capo e istigatore. La zattera si era messa a correre, ballonzolando pesantemente sulle piccole ondate che si formavano, lasciandosi a poppa una larga scia spumeggiante. La fiducia rinasceva in tutti i cuori. Se quella brezza durava era la salvezza, poiché nessuno dubitava che la terra dei Kanaki si trovasse ormai a una distanza relativamente breve.

– Questo vento ha salvata la situazione e impedito un massacro, – disse il bosmano a don Josè. – Sia dunque benedetto!

– Temo tuttavia che questa calma sia passeggera. Se non troveremo nulla da mangiare i nostri uomini torneranno alla carica.

– Il loro capo è morto, – osservò don Pedro.

– Non tarderanno a nominarne un altro. È quel John ora che mi dà da pensare.

– Abbatteremo anche lui, – disse il bosmano.

– Uccidere mi ripugna. Quegli uomini fino a ieri sono stati i miei bravi marinai. Mi pesa già di avere sulla coscienza un omicidio.

– E se tardavate un po’, capitano, quel furfante vi squarciava il ventre con un buon colpo di navaja.

– Non dico di no, Reton, sarei però stato più lieto se l’avessi risparmiato… State in guardia, amici, perché se prima di questa sera non scopriremo le coste della Nuova Caledonia, avremo un’altra ribellione.

– E noi vi terremo testa, – rispose Reton. – To’! E la fregata?

– Se la sono già presa e divorata, – disse Mina.

– Mi rincresce per voi, señorita.

– Soffro meno di quello che credete, mio buon Reton. Sento solo un’estrema debolezza.

– Povera sorella! – mormorò don Pedro.

– Non disperiamo, amici, – disse il capitano. – Io ho la ferma fiducia di arrivare ben presto alla terra dei Kanaki e allora tutti i nostri patimenti saranno finiti.

Il capitano aveva ragione di sperare, poiché la Nuova Caledonia non doveva essere infatti molto lontana. Tutto lo indicava: una certa fragranza nell’aria, la presenza di uccelli costieri svolazzanti a stormi e anche l’incontro frequente di pezzi di legno portati al largo dal riflusso e strappati dalle onde alle immense rizophore mangle che circondano, in enormi ammassi, le spiagge e le scogliere dell’isola. Quasi per rianimare i marinai, di tanto in tanto dei pesci si mostravano a non poca distanza dalla zattera: però, vedendo avanzare quella strana baracca che procedeva a balzi, con uno strano fragore prodotto dall’urtarsi dei barili, si affrettavano a tuffarsi. Erano per lo più dei delfini liercorhamphus, lunghi un buon metro e mezzo, mancanti della spina dorsale, di forme svelte, il rostro ottuso, con una cappa di velluto nero che si stendeva lungo tutto il dorso. Salutavano il passaggio della zattera con una specie di nitrito, poi scomparivano, dopo aver spiccato un gran salto fuori dall’acqua, lasciando i marinai delusi. Forse quella fuga era sempre causata, più che dal fragore e dalla vista della vela, dalla presenza di quell’ostinato pescecane, che non si decideva a lasciare il galleggiante. Non c’era nulla di straordinario in questa ostinazione in quanto è noto a tutti che gli squali sono sempre stati i compagni inseparabili dei naufraghi. La zattera intanto continuava la sua corsa, quantunque al solito si spostasse sempre per la sua difettosa costruzione e anche per l’imperfezione del timone. Nondimeno faceva i suoi tre o quattro nodi all’ora, velocità abbastanza considerevole, data la sua forma, la sua pesantezza e la sua scarsa velatura. I marinai, che sembrava avessero tutto dimenticato, si erano sdraiati a prora, sotto una specie di tenda, spiando ansiosamente l’orizzonte. Era tanta la loro attenzione, che non si scambiavano nemmeno una parola e non rivolgevano neppure uno sguardo ai due cadaveri che il fortissimo calore già gonfiava, indizio di una non lontana decomposizione. Il capitano che temeva un nuovo scatenarsi della terribile fame antropofaga, avrebbe ben desiderato di gettarli in mare, ma il timore di provocare un’altra ribellione e di dover far uso delle armi, lo tratteneva dal farlo.

– Non li irritiamo – aveva detto fra sé. – Lasciamo fare al sole. Vedremo se dopo oseranno cibarsi di carne umana e per di più putrefatta.

A mezzogiorno il vento cessò quasi bruscamente per tornare a soffiare verso il tramonto, un po’ più debole del mattino. Prima che il sole tramontasse, il capitano e Reton esplorarono nuovamente l’orizzonte e per poco non si lasciarono sfuggire un grido che avrebbe potuto causare una nuova delusione. Avevano scorto una forma indecisa, che prima avevano creduto la cresta di una montagna, ma dopo una osservazione più attenta si erano accorti che si trattava invece di una nuvola.

– Non ci mancherebbe altro che un salto di vento ora! – esclamò il capitano, preoccupato. – Sarebbe la fine delle nostre speranze e anche dei nostri patimenti, poiché questa zattera non potrebbe resistere nemmeno un’ora all’assalto delle onde.

– E si gonfia rapidamente, – aggiunse Reton che non staccava lo sguardo dalla nube che scompariva fra le tenebre. – Uhm! Avremo una pessima notte!

– Non dir nulla a nessuno.

– Sarò muto come un pesce, capitano.

Ritornarono a poppa, dove Mina e don Pedro vegliavano con i fucili in mano, e si lasciarono cadere su una cassa, tristi e scoraggiati. Una nuova calma era sopravvenuta. La zattera fluttuava senza più avanzare. A prora si udivano le imprecazioni dei marinai, e sembrava che discutessero animatamente sulla probabilità di raggiungere le coste della Nuova Caledonia. L’oscurità intanto era diventata intensa e le onde rumoreggiavano sinistramente al largo. Il capitano, Reton e i loro compagni tacevano, accasciati da tristi presentimenti. I marinai invece non cessavano di bestemmiare. Un’afa pesante, soffocante, foriera di qualche uragano, gravitava sull’oceano. A un tratto, verso le nove di sera, quando già il cielo si era tutto coperto, nascondendo le stelle, una luce strana comparve verso levante. Era una fosforescenza splendida, come se miriadi di nottiluche si fossero radunate per fare da scorta alla zattera. Il capitano, scorgendo quei bagliori, con uno sforzo supremo si era alzato, esclamando:

– Dei pesci! È una fortuna che arriva.

Nello stesso istante udì distintamente come uno scricchiolio di ossa.

– Reton! – gridò. – Mangiano i morti!

Afferrò la carabina e avanzò attraverso il buio con il cuore angosciato. Un gruppo di uomini stava presso i cadaveri di Escobedo e di Hermos. Un urlo di orrore era uscito dalle labbra del capitano.