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Loe raamatut: «La città del re lebbroso», lehekülg 8

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Capitolo XII. Una grande battuta d’elefanti

Un barrito formidabile, unito ad un furioso martellare di gong e di tam-tam e ad aspri e acutissimi suoni di chiarine, li strappò bruscamente dal sonno.

Il sole era appena spuntato, indorando le acque del canale ed il doppio filare d’alberi di cocco e di manghi che ombreggiavano la larga gettata.

Un elefante magnifico, adorno d’un frontale di metallo dorato e col corpo coperto di una ricca gualdrappa di seta rossa a frange d’oro, che reggeva sul poderoso dorso una specie di cassa di legno laccato e scolpito, sormontata da una cupoletta con colonnine scannellate, barriva impaziente presso la gradinata.

Attorno a lui una dozzina di musicanti battevano con furore le lastre metalliche e soffiavano a tutta forza entro le chiarine, facendo accorrere un buon numero di curiosi.

Lakon-tay, udendo quel fracasso, si alzò per vedere di che cosa si trattava, e stava per interrogare i musicanti, quando un uomo, che indossava una larga fascia di seta azzurra stretta sopra una specie di lunga camicia e reggeva un ombrello altissimo, scese la gradinata, accostandosi al balon con rispettosi inchini.

Vedendo sul cappello conico del generale i cerchi d’oro, si fece risolutamente innanzi, dicendo:

«È al generale Lakon-tay che ho l’onore di rivolgermi?»

«Sono io,» rispose il vecchio guerriero.

«Il governatore ti prega, o mio signore, di accettare l’invito di prender parte alla grande battuta degli elefanti, trovandosi egli ai confini del parco e desiderando salutarti.»

Lakon-tay mandò un grido di gioia.

«Dottore,» disse, volgendosi verso l’italiano. «Ecco realizzate le nostre speranze. Ciò si chiama aver fortuna.»

«Mio signore,» riprese l’inviato del governatore, che doveva essere un ufficiale od un funzionario della sua casa, «l’elefante ti aspetta e la battuta è già cominciata.»

«Non perdiamo tempo o giungeremo troppo tardi. Feng, sali dietro al mahut, e noi sediamoci nel palanchino.»

La scala che metteva nel palanchino era stata abbassata dal mahut.

Len-Pra, aiutata dal dottore, salì per la prima, prendendo posto sui cuscini di seta, poi salì suo padre, portando tre carabine.

Roberto salì ultimo, dopo aver gettato ai suonatori una manciata di monete.

Il funzionario disse alcune parole al mahut, poi fece un profondo inchino, dando contemporaneamente il segnale della partenza.

L’elefante, una superba bestia di dimensioni mostruose, rizzò verticalmente la tromba in segno di saluto, barrendo fragorosamente, poi si mise in marcia con passo rapido, seguendo la riva del canale.

«Che fortunata combinazione!» esclamò il dottore. «Mai mi sarei immaginato di veder esaudito così presto il mio desiderio, anzi ero convinto di dover lasciare Ajuthia senza poter assistere a una di quelle formidabili battute.

Che sia stato il re a ordinarla?»

«Certo,» rispose Lakon-tay. «Avrà bisogno di elefanti per le sue nuove artiglierie che ha fatto acquistare in Europa.»

«Dove si trovano quei colossi?»

«Nelle jungle e nelle foreste che si trovano a sud-est della città, che sono di proprietà reale e hanno una estensione immensa.

Colà vivono in uno stato quasi selvaggio, e guai all’imprudente che osasse cacciarsi fra quelle macchie! Non uscirebbe certamente vivo, poiché gli elefanti sono numerosissimi, parecchie centinaia e forse migliaia. Gli stessi guardiani del parco ne ignorano il numero.»

«I battitori saranno già in campagna?»

«Sì, e da parecchie notti,» rispose Lakon-tay. «Non è facile spingere quelle immense truppe verso il centro del parco, dove esiste il recinto da cui poi non potranno più uscire.

I battitori devono dar prova d’una pazienza e d’una abilità estrema; al minimo allarme, quei colossi deviano e non tornano più nei luoghi che sospettano occupati dai loro nemici e soprattutto dai cacciatori.»

«Come fanno dunque?» chiese il dottore.

«Circondano in gran numero una parte della foresta e della jungla, tenendosi sempre sottovento e mettendosi sotto i piedi una spugna bagnata. Senza queste precauzioni gli elefanti, che hanno un odorato finissimo, si sbanderebbero subito, temendo assai l’uomo.

Poi avanzano lentamente, facendo delle lunghe fermate per lasciar tempo agli elefanti di rassicurarsi e di mangiare e anche di riposare durante le ore più calde del giorno; quindi ricominciano la marcia, fischiettando sommessamente, per spingere i colossi verso il luogo prescelto. Con simili manovre riescono a poco a poco a concentrarli verso il recinto.

Se il governatore ci ha invitati, vuol dire che gli elefanti si trovano già presso l’agguato, e che i battitori si preparano a cacciarli dentro. Vedrete che spettacolo, dottore.»

«Non correremo il pericolo di venire rovesciati?» chiese Len.

«Il nostro elefante è solido come una rupe e resisterà a qualunque carica,» rispose il generale. «Ecco la jungla e laggiù la foresta.»

«E degli elefanti nascosti fra le macchie,» disse il dottore.

«Sono le femmine incaricate di mettere a posto i pachidermi selvaggi. Vedrete come opereranno quelle bestie.»

«Aiuteranno i battitori?»

«E come! Vi sembrerà strana la cosa, eppure gli elefanti addomesticati odiano quelli liberi e non indietreggiano dinanzi a qualsiasi pericolo per ridurre anche quelli in schiavitù.»

L’elefante che li trasportava, il quale aveva sempre mantenuto un buon trotto, percorrendo senza affaticarsi le sue dodici miglia all’ora (che avrebbe potuto spingere anche a venti con un po’ di sforzo), era giunto sul margine della jungla e vi era entrato risolutamente.

Era una pianura vastissima, interrotta da canaletti e da stagni ancora ben provvisti d’acqua, lasciatavi dalle piene periodiche del Menam, coperta da ammassi di bambù altissimi, di arbusti spinosi assolutamente impenetrabili e di felci. Dei solchi enormi, prodotti senza dubbio dai corpacci degli elefanti, si aprivano qua e là in mezzo ad un caos di piante abbattute o spezzate.

In lontananza invece s’ergeva la foresta, formata per la maggior parte di alberi di tek, di ficus banian di grandezza mostruosa e di cay-cay.

L’elefante attraversò velocemente la jungla, che si estendeva per parecchie miglia, e dopo venti minuti giunse sul margine della foresta, dove si trovavano riuniti più di trenta colossali pachidermi, privi di palanchini, di gualdrappe e di ornamenti e montati ognuno da due uomini quasi interamente nudi e spalmati d’olio di cocco, che tenevano in mano delle grosse corde annodate a laccio.

Erano gli uomini incaricati di legare gli elefanti prigionieri, gente coraggiosa, agilissima, già pratica di quel pericoloso mestiere.

Più oltre, sotto un banian, stava un altro elefante bardato in rosso ed azzurro, col frontale di metallo dorato e sul dorso un ricco palanchino colla cupoletta dorata, montato da un vecchio siamese piuttosto corpulento, che indossava un’ampia camicia di seta aranciata a fiorami rossi e portava sul capo un cappello conico con tre cerchi d’oro.

Intorno al pachiderma vi erano numerosi cavalieri armati di lance e di archibugi, battitori, suonatori di tam-tam e servi che tenevano in mano delle lunghe torce già accese.

«Il governatore,» disse Lakon-tay, indicando al dottore l’uomo panciuto, che si era alzato, facendo colla destra un saluto amichevole.

«Arriviamo in tempo, Man-Seng?» chiese poi al governatore.

«Ben felice di vederti, Lakon-tay,» gridò il mandarino. «I miei saluti alla gentile Len ed al signor farang (europeo).

Partiamo subito: gli elefanti sono già presso il recinto, e gli uomini non aspettano che te per dare il segnale della carica.

A più tardi il resto.»

Fece un cenno colla mano e tutti, elefanti, cavalieri, battitori e servi, si misero in marcia attraverso la foresta.

In lontananza, nel più fitto della boscaglia, si udivano dei barriti formidabili. Pareva che un gran numero di quei colossi si trovasse radunato in mezzo alle macchie.

Il corteo ad ogni momento s’ingrossava, giacché altri battitori giungevano da tutte le parti, sbucando fra le macchie.

«Ecco il momento dell’attacco,» disse Lakon-tay al dottore.

Erano giunti sulla riva d’un piccolo corso d’acqua e il mandarino diede l’ordine di sostare. Essendo la sponda alta, si poteva da quel luogo assistere alla mostruosa caccia.

Al di là si estendeva una palude interrotta da isolotti, da banchi e da macchioni di piante.

Gli elefanti selvaggi a poco a poco erano stati spinti fra quelle terre semisommerse e si vedevano passare da un isolotto all’altro a gruppi di venti o trenta.

I poveri animali parevano in preda ad una vivissima eccitazione. Alzavano le trombe, aspiravano rumorosamente l’aria, scuotevano le loro immense orecchie, barrivano ferocemente, girando su se stessi come se non sapessero più da qual parte veniva il pericolo.

Ve n’erano di colossali e di piccoli, alcuni armati di zanne bellissime ed altri ancora senza, alcuni grigi ed altri nerastri.

Vedendo apparire sulla riva del fiume il corteo, quei tre o quattrocento colossi, presi da un improvviso panico, retrocessero verso il centro della palude, urtandosi furiosamente e mettendosi in salvo sugli isolotti.

Il mandarino osservò attentamente i posti che occupavano, poi fece avanzare le femmine che erano montate dagli uomini unti d’olio di cocco, i quali si tenevano distesi sui larghi dorsi delle bestie per non farsi scorgere.

Erano appena entrate nel fiume, quando sulla riva opposta della palude echeggiarono improvvisamente delle scariche di fucili, a cui tenne dietro un fracasso assordante. Si percuotevano tam-tam, gong e tamburi, si suonavano campane, squillavano trombe e chiarine, poi centinaia di voci echeggiavano fra un continuo fuoco di moschetteria. Per l’aria volavano frecce fiammeggianti e torce resinose, che venivano scagliate da mani invisibili.

Anche i cavalieri, i battitori ed i servi del seguito del mandarino si erano precipitati nel fiume, le cui acque erano basse, urlando, percuotendo gl’istrumenti musicali e sparando fucilate.

I pachidermi, spaventati da tutto quel fracasso, si rovesciarono sulle isole che occupavano il centro della palude, poi, udendo rimbombare i gong ed i tam-tam a destra a sinistra e dietro, si scagliarono verso nord, il solo punto dove né si udivano colpi di fucile, né risuonavano strumenti musicali.

Era quello che desideravano i battitori, trovandosi in quella direzione il recinto che serviva di trappola.

I due elefanti montati dal mandarino e da Lakon-tay si erano messi dietro ai battitori, sprofondando fino al ventre nelle acque della palude.

Lo spettacolo che offrivano quelle torme di colossi spaventati era grandioso ed insieme impressionante. Presi ormai da un panico irrefrenabile, fuggivano all’impazzata barrendo furiosamente, tutto rovesciando sul loro passaggio.

Sotto quella valanga, che nessuna forza umana, nemmeno un esercito, avrebbe potuto ormai frenare, gli alberi che crescevano sugli isolotti cadevano come fossero stati falciati dalla scure d’un titano; le macchie di bambù scomparivano sminuzzate, quasi polverizzate; dei cespugli non rimaneva più nemmeno la traccia, e perfino lembi di terra franavano nella palude.

Era una carica spaventosa, terribile come un ciclone, come una gran marea autunnale, che s’avanzava e s’allargava, fra mille clamori selvaggi e mille rombi assordanti.

Ma non fuggivano, no, tutti! Di quando in quando qualche colossale maschio, preso da un improvviso furore, si volgeva verso il nemico, s’avventava terribile fra i compagni, urtandoli e anche rovesciandoli, poi si scagliava attraverso la palude colla proboscide tesa, pronta a stritolare, e caricava a fondo.

Allora succedeva una fuga disordinata: cavalieri, battitori, suonatori fuggivano all’impazzata da tutte le parti, fra un grido assordante.

Invano le femmine ammaestrate accorrevano per chiudere il passo al ribelle ed invano si lanciavano contro di esso torce accese e gli si sparavano addosso razzi. Il colosso s’apriva un varco e scompariva nella foresta, salutando la vittoria con un barrito che risuonava lungamente sotto le fitte volte di verzura.

«Che spettacolo!» esclamò il dottore, entusiasmato. «Sono cose che mi rimarranno impresse lungamente, anzi che non dimenticherò mai.»

«E non è ancora finito,» rispose Lakon-tay. «Aspettate ancora un po’. Len, hai paura?»

«No, padre,» rispose la fanciulla.

«Avanti, mahut. Vogliamo assistere all’ultima scena.»

Gli elefanti erano giunti sulla riva della palude e, dopo una breve esitazione, si erano scagliati attraverso la foresta, stretti da tutte le parti dai battitori.

Anche là tutto cedeva dinanzi a quella carica irresistibile. Alberi vecchi, che avevano sfidato forse per centinaia d’anni le bufere più violente, oscillavano e poi cadevano, trascinando con sé i più giovani ed enormi ammassi di piante parassite.

Ad un tratto l’avanguardia dei fuggiaschi si trovò all’imbocco di un largo sentiero fiancheggiato da colossali tek, che potevano sfidare qualunque urto, collegati fra di loro da catene grossissime.

Era il viale che conduceva al parco, o meglio alla trappola.

I primi arrivati si fermarono titubanti, ma la massa giungeva al trotto, spaventata dai colpi di fucile, dai razzi e dal furioso sbatacchiare dei musicisti sui gong è sui tam-tam. Travolti dal grosso, furono costretti a cacciarsi nel sentiero, malgrado avessero fiutato il pericolo.

Duecento metri più innanzi, mascherato da alti cespugli e da enormi gruppi di bambù, si trovava il parco.

Era un vasto recinto di mezzo chilometro di circonferenza, formato da due ordini di pali massicci, piantati profondamente nel suolo, alla distanza di mezzo metro l’uno dall’altro, con alcune aperture per lasciare il passo agli elefanti.

Nell’interno crescevano alcuni alberi di dimensioni colossali, che dovevano servire a legare i pachidermi destinati a rimanere prigionieri, perché non tutti quelli che entrano vengono trattenuti. I mahut scelgono i più belli ed i più forti, che devono avere la pelle bruno-pallida, le unghie nere, le zanne ben conservate e la coda intatta, segni che indicano che quell’elefante non ha mai voltato le spalle al nemico.

I pachidermi, rovesciate le piante che mascheravano l’entrata, si gettarono confusamente nel recinto, galoppando fra le due file di pali.

Appena l’ultimo l’ebbe varcata, parecchi uomini chiusero l’entrata con lunghe catene e con sbarre di ferro.

Dapprima gli elefanti parvero sorpresi di trovarsi là dentro, fra quei pali che non permettevano loro di passare per lanciarsi di nuovo nella foresta, poi montarono in furore.

Si rizzavano sulle zampe posteriori, vibravano colle proboscidi colpi formidabili ai pali, sperando di schiantarli, si urtavano fra di loro ferendosi colle lunghe zanne, poi riprendevano il loro sfrenato galoppo.

I mahut e i battitori erano giunti. Le venti elefantesse e una dozzina di maschi già ben ammaestrati erano entrati per un’altra porta, picchiando maledettamente i più indemoniati a gran colpi di tromba.

Intanto parecchi uomini, completamente nudi ed unti d’olio di cocco per poter meglio sfuggire alle strette, si introducevano con un coraggio incredibile nel recinto, infilandosi inosservati per gli spazi liberi fra i pali.

Con un’abilità straordinaria si cacciavano sotto il ventre dei pachidermi giudicati degni di venire addomesticati, e passavano attorno ad una delle due zampe posteriori una grossa fune fatta a nodo scorsoio, che poi correvano ad avvolgere intorno al tronco di uno degli alberi che crescevano nel recinto.

Lavoravano così rapidamente, protetti dalle elefantesse, le quali con poderosi colpi di tromba o con moine cercavano di distrarre l’attenzione dei futuri prigionieri, che in meno di mezz’ora una quarantina di pachidermi, scelti fra i più belli, si trovarono legati. Furono allora aperte nuovamente le barriere e tutti gli altri, che non erano stati stimati degni di figurare fra gli elefanti reali, ripresero la loro corsa sfrenata in mezzo alla foresta.

«Lo spettacolo è finito,» disse Lakon-tay, che aveva fatto accostare l’elefante presso la cinta, per nulla perdere di quella caccia emozionante. «Che cosa ne dite, dottore?»

«Che non me lo scorderò mai, dovessi vivere mille anni,» rispose Roberto. «Ed ora come faranno ad ammaestrarli?»

«Gli elefanti si adattano rapidamente alla schiavitù. Si lasciano un paio di giorni a digiuno, poi dei mahut portano loro del cibo abbondante, buone erbe, canne da zucchero e anche del toddy

«I prigionieri cominciano così ad affezionarsi ai loro provveditori e ad obbedirli. Dopo qualche mese essi sono perfettamente ammaestrati.

Taluni hanno qualche volta delle velleità di rivolta, ma le femmine s’incaricano di calmarli a colpi di tromba.

Dottore, andiamo a far colazione: il governatore ci aspetta nella sua casa di campagna.»

Capitolo XIII. La scimmia che ride

A mezzodì, dopo aver fatto una succulenta colazione, offerta loro dal governatore, che aveva una grande stima per il vecchio generale, tornarono ad Ajuthia sul medesimo elefante che li aveva condotti al parco.

Avevano fretta di riprendere il viaggio e di condurlo a termine, prima che cominciasse la stagione delle grandi piogge, che è pericolosissima in quei paesi giacché trasforma le foreste in pantani e sviluppa quella terribile malattia, chiamata con una frase energica la febbre dei boschi, che quasi mai perdona alla persona che ne è rimasta colpita.

Rinnovate rapidamente le loro provviste, poiché non potevano assolutamente contare sui villaggi, che sono rari sul Nam-Sak, il quale scorre in una regione deserta, presero posto sotto il baldacchino e diedero il segnale della partenza.

Il balon attraversò la parte settentrionale della città, seguendo sempre il canale, e alle tre pomeridiane giunse alla confluenza del Menam col Nam-Sak.

Questo secondo fiume è uno dei maggiori affluenti del Menam, non essendo superato che dal Me-Ping, ed è ricco d’acqua, profondo assai e anche molto largo.

Mentre il Menam scende quasi direttamente, con poche curve, il Sak invece si allontana assai verso oriente; nondimeno nel suo corso superiore si riunisce ancora al primo, mediante un canale naturale che ha una lunghezza ragguardevole.

Il balon s’inoltrava in una regione affatto selvaggia e disabitata. Non più barche, non più villaggi, non più pagode dalle guglie scintillanti. Invece facevano la loro comparsa i primi tek, quegli alberi così preziosi e tanto ricercati dai costruttori marittimi europei per il loro legno incorruttibile che sfida i secoli anche se sommerso nell’acqua salsa.

Tutte le regioni settentrionali dell’Indocina hanno foreste immense di tek, che le scuri dei boscaioli hanno appena intaccato, malgrado l’enorme quantità di tronchi che vengono annualmente trasportati in Europa e in America, tanto sono vaste.

Sono belle piante, dal tronco diritto, che ha spesso un diametro di un metro e mezzo e raggiunge altezze prodigiose, conservando press’a poco la forma cilindrica della base.

Essendo le sue fibre imbevute d’un olio resinoso, il legno del tek è inattaccabile dai vermi e resiste meravigliosamente all’azione dissolvente dell’acqua salata; e se si ha prima la precauzione di lasciarlo bene seccare, indurisce anche se sommerso.

Il Siam specialmente possiede i migliori tek finora conosciuti, avendo lungo l’alto corso dei suoi fiumi delle foreste sterminate, che non sono forse state ancora assalite dalle scuri dei boscaioli per le difficoltà dei trasporti.

I tek che crescevano lungo le due rive del Nam-Sak non erano però i soli esemplari della meravigliosa flora siamese. Negli spazi lasciati fra quegli alberi, spazi considerevoli, giacché essi non crescevano mai gli uni accanto agli altri, si vedevano macchioni di alberi di cocco, di superbi tamarindi, di mimose, cassie, lauri dalla scorza aromatica, fichi baniani, borassi flabelliformi dalle magnifiche foglie distese a ventaglio e coripha dai tronchi alti più di venti metri, incoronati da un ampio fascio di foglie disposte a parasole.

Un numero infinito di uccelli, specialmente di tucani e di palombe tubava, cinguettava e fischiava fra tutte quelle piante, mentre sulle rive bande di cormorani dalle penne oscure, grossi come oche, pescavano ingollando dei pesci di rispettabile lunghezza.

«Questo è il paradiso dei cacciatori,» disse il dottore, che pensava di procurarsi una buona cena. «Len-Pra, se non vi rincresce, tiriamo qualche colpo su tutti questi volatili.

Il cormorano non è cattivo, quantunque si nutra di pesce. Ah! Se vi fossero qui dei Cinesi e dei Giapponesi, come saprebbero utilizzare questi infaticabili e abilissimi pescatori! Guardate con quanta celerità si tuffano e come non tornano mai a galla senza avere qualcosa nel becco.»

«Che cosa ne farebbero i Cinesi di questi volatili, dottore?» chiese la giovine.

«Li ammaestrerebbero, e con poca fatica. Il cormorano è come l’elefante e si adatta facilmente alla schiavitù.»

«E li usano per la pesca?»

«Sì, Len.»

«E i cormorani non mangiano i pesci presi invece di portarli al loro padrone?»

«Oh! Lo farebbero ben volentieri, essendo voracissimi, ma i Cinesi ed i Giapponesi, per impedire loro di inghiottire la preda, mettono al loro collo un anello strettissimo.»

«Come sono ingegnosi quei popoli!»

«Dell’ingegno ne hanno da vendere anche agli Europei. Orsù, qualche buon colpo, Len. I cormorani non mancano qui.»

Avevano già preso le carabine, quando un grido stridente, partito dalla sponda che in quel momento costeggiavano, li trattenne dal far fuoco. Lakon-tay, udendolo, abbandonò il cup, sotto cui stava masticando il suo betel, e raggiunse il dottore e Len che si trovavano a prua.

«Il grido della scimmia che ride!» esclamò.

«Una scimmia che ride?» chiese il dottore.

«Sì, un lu-huoi

«Che cosa volete dire, generale?»

«Non la conoscete?»

«Non l’ho mai veduta.»

Lakon-tay fece segno ai rematori di rallentare la battuta e di accostarsi alla riva.

Il grido stridente si ripeté, seguito poco dopo da un fragoroso scoppio di risa.

«Non mi sono ingannato,» disse Lakon-tay. «Guardate, dottore: la scorgete? Se potesse prendervi per i polsi, vi farebbe passare un brutto quarto d’ora.»

«Che bestia è dunque?»

«Una scimmia, vi ho detto. La scorgete fra quei due tek? Ci invita a sbarcare.»

Un quadrumane era infatti apparso sulla riva, fra due colossali alberi, e guardava il balon ridendo a crepapelle. Era una scimmia che sotto certi aspetti somigliava, se non ad un gorilla, ad un mias del Borneo, giacché aveva una statura straordinaria che superava i cinque piedi, ossia un metro e sessanta centimetri.

Aveva la faccia quasi nera, con due occhietti iniettati di sangue, una bocca larghissima che andava da un orecchio all’altro, armata di denti formidabili, e il pelo rossastro e assai lungo.

Si teneva il ventre con ambo le mani e rideva, rideva, mostrando la sua terribile rastrelliera, bianca al pari di quella dei gaviali e dei pescecani.

«Che brutta bestia!» esclamò il dottore, che la osservava con curiosità. «Io ho veduto gli urang-outang del Borneo, che sono il terrore dei Dayachi, ma non ho riscontrato in loro né una bocca così enorme, né dei denti così lunghi. Sono pericolosi questi lu-huoi, come voi li chiamate?»

«Terribili, dottore, quantunque i nostri Siamesi sappiano cavarsela a meraviglia se attaccati, senza lasciarsi sventrare da quei ferocissimi scimmioni.»

«Se provassimo a dargli la caccia?» chiese il dottore. «Il tramonto non è lontano e quella riva si presta benissimo per un accampamento. Che ne dite, Len?»

La giovane approvò con un cenno del capo.

«Fate fuoco dal balon,» disse il generale.

«La vostra carabina è carica a palla, Len?» chiese il dottore.

«Sì, signor Roberto.»

«Fate accostare il balon adagio adagio, generale.»

«Lasciate fare a me.»

L’enorme scimmia, dopo aver riso a crepapelle, dimenandosi comicamente, con uno slancio improvviso si aggrappò a un ramo d’un immenso fico baniano che cresceva un po’ lontano, formando da solo una piccola foresta, e scomparve fra il fitto fogliame.

Quasi subito un altro grido stridente, meno acuto però, echeggiò verso il bosco.

«Sono due i lu-huoi,» disse il generale. «Devono essere maschio e femmina.»

«Sì, padrone,» disse Feng, che nelle natie foreste aveva incontrato sovente quei pericolosi quadrumani.

Il primo, che doveva essere il maschio, continuava a far udire violentissimi scoppi di risa, tenendosi sempre nascosto nel fitto fogliame del fico baniano.

«A terra,» disse il dottore. «Non lo si può scorgere da qui.»

«Badate,» disse Lakon-tay.

«Non temete, sono sicuro dei miei colpi.»

Il balon con pochi colpi di remo raggiunse la riva, la quale formava in quel luogo una piccola e pittoresca caletta, circondata da superbi alberi.

Il dottore aiutò Len-Pra a scendere, poi balzò a sua volta a terra seguito dal generale e da Feng, i quali si erano pure armati di carabine rigate, di buon calibro e di lunghissima portata.

Il dottore guardò Len. La fanciulla era tranquilla, come se si trattasse di affrontare un capriolo, anziché una terribile scimmia da tutti temuta.

«Vi ammiro, Len-Pra,» diss’egli.

«Perché, dottore?» chiese la giovane sorridendo.

«Per il vostro coraggio.»

«Mio padre mi ha abituato, fin da fanciulla, a sfidare i pericoli, e poi, non sono armata?»

«Andiamo allora, Len-Pra.»

Il lu-huoi non aveva lasciato il fico baniano. Rideva sempre e di quando in quando scuoteva poderosamente i rami, facendo cadere al suolo una pioggia di frutta. Eppure da lassù doveva aver veduto gli uomini sbarcare.

La sua compagna, che si trovava nel bosco a non molta distanza, di tanto in tanto rispondeva con un grido stridente che finiva in un fischio acutissimo.

«Circondiamo l’albero,» disse Lakon-tay, che non era meno appassionato cacciatore di Roberto. «Non allontaniamoci però troppo, perché non ci manchi il tempo di soccorrerci a vicenda.»

«Len-Pra, rimanete presso di me,» disse il dottore.

«Sì, signor Roberto,» rispose la fanciulla colla sua solita voce calma.

Tenendosi nascosti dietro i cespugli, che crescevano abbondantemente negli intervalli fra i tek, i cacciatori si trovarono ben presto sotto il fico baniano.

Come abbiamo detto, quella pianta formava da sola una piccola foresta, costituita non già da un solo tronco, bensì da due o trecento. Quegli strani vegetali si dilatano enormemente e con rapidità, mercé le loro radici aeree che scendono dai rami e che, appena toccato il suolo, si affondano formando un nuovo tronco.

Il quadrumane, accortosi senza dubbio del pericolo che lo minacciava, si era ritirato verso il centro della pianta, in prossimità del tronco principale, dove il fogliame era più folto, e continuava a sghignazzare.

Il dottore, dopo aver osservato la posizione che occupava, si cacciò risolutamente fra i tronchi, seguito da Len-Pra, mentre Feng e Lakon-tay si portavano dalla parte opposta, per impedire alla scimmia di guadagnare la foresta e di unirsi alla sua compagna.

Cogli occhi fissi sui rami e il dito sul grilletto del fucile, il dottore avanzava cautamente, cercando di scoprire l’animale.

Quel furbo lu-huoi però aveva improvvisamente cessato di ridere e non scuoteva più i rami. Si preparava a tentare un colpo disperato o, spaventato, cercava di nascondersi?

A un tratto il dottore, che era già giunto in vicinanza del tronco centrale grossissimo a paragone degli altri, si arrestò, alzando la carabina.

«Lo vedete?» chiese Len che gli stava dietro.

«Mi sembra che stia disteso su uno dei più grossi rami.»

«Non fate fuoco se non a colpo sicuro.»

«Non sprecherò inutilmente la mia cartuccia.»

Guardò attentamente il grosso ramo su cui supponeva si tenesse il lu-huoi, e dovette ben presto convincersi d’essersi ingannato.

Il quadrumane, vedendosi scoperto, era scivolato silenziosamente su un altro ramo, o si trovava invece già altrove?

Invano il dottore scrutava il fogliame che era fittissimo verso le parti centrali del fico; non riusciva a scorgere nulla.

Ai clamorosi scoppi di risa di poco prima era successo un profondo silenzio. Anche la compagna del quadrumane non faceva più udire il suo grido stridente.

«Che sia fuggito senza che noi ce ne siamo accorti?» si chiese il dottore.

A un tratto uno sparo rimbombò dalla parte opposta, seguito subito dopo da un secondo e da un urlo rauco.

«L’hanno colpito!» gridò il dottore, slanciandosi innanzi. «Venite, Len-Pra!»

Si misero a correre verso il luogo dov’erano echeggiati i due colpi di carabina.

Il dottore, che era più lesto, aveva già attraversato buona parte dei tronchi, quando udì in alto un crepitio di rami ed un violento stormire di foglie, poi si sentì precipitare addosso una massa che lo atterrò. Avendo il dito sul grilletto del fucile, nel cadere fece partire il colpo, e rimase avvolto in una nube di fumo.

Quasi contemporaneamente udì dietro di sé uno sparo, poi un grido di spavento e di dolore.

«A me… dottore!»

Roberto, che non si sentiva più gravitare addosso quella massa che lo aveva atterrato, si levò prontamente. Un grido d’orrore gli sfuggì.

L’enorme scimmia, grondante sangue, teneva pei polsi Len-Pra, sghignazzando e contorcendosi.

La povera giovane, che si sentiva stritolare i polsi dalle mani di ferro del mostro, mandava grida strazianti e tentava invano di sottrarsi a quella stretta brutale.

Quantunque ferito e forse gravemente, il lu-huoi si divertiva immensamente, vedendo i tentativi che faceva la sua vittima per sfuggirgli. La sua bocca si apriva smisuratamente con un ghigno spaventevole e gli scoppi di risa si succedevano ininterrottamente.

Roberto aveva l’arma scarica e non aveva il tempo di mettervi dentro una nuova cartuccia. La carabina era però pesante, di una solidità a tutta prova, col calcio rinforzato da una grossa lamina d’ottone.

L’afferrò per la canna e si slanciò risolutamente addosso al mostro. Questi non si era nemmeno occupato del secondo nemico. Il riso d’altronde lo paralizzava.

Il dottore gli piombò alle spalle e gli menò in mezzo al cranio una tale mazzata, da convertire gli scoppi di risa in un urlo di dolore. Il lu-huoi si piegò sotto quel formidabile colpo e abbandonò i polsi della fanciulla.

Quantunque nuovamente ferito, poiché la punta di metallo del calcio gli aveva spaccato la testa, si voltò, allungando le mani che erano munite di solide unghie.

Non rideva più: digrignava invece i denti ed i suoi occhi mandavano sinistri lampi, mentre il suo pelame, sotto l’accesso di collera, si arruffava.

Vanusepiirang:
12+
Ilmumiskuupäev Litres'is:
30 august 2016
Objętość:
370 lk 1 illustratsioon
Õiguste omanik:
Public Domain