Loe raamatut: «L’Innocente / Невинный. Книга для чтения на итальянском языке»

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Beati immaculati…


© КАРО, 2019

* * *

Andare davanti al giudice, dirgli: “Ho commesso un delitto. Quella povera creatura non sarebbe morta se io non l’avessi uccisa. Io Tullio Hermil, io stesso l’ho uccisa. Ho premeditato l’assassinio, nella mia casa. L’ho compiuto con una perfetta lucidità di conscienza, esattamente, nella massima sicurezza. Poi ho seguitato a vivere col mio segreto nella mia casa, un anno intero, fino ad oggi. Oggi è l’anniversario. Eccomi nelle vostre mani. Ascoltatemi. Giudicatemi”. Posso andare davanti al giudice, posso parlargli così?

Non posso né voglio. La giustizia degli uomini non mi tocca. Nessun tribunale della terra saprebbe giudicarmi.

Eppure bisogna che io mi accusi, che io mi confessi. Bisogna che io riveli il mio segreto a qualcuno.

A CHI?

Il primo ricordo è questo.

Era di aprile. Eravamo in provincia, da alcuni giorni, io e Giuliana e le nostre due bambine Maria e Natalia, per le feste di Pasqua, in casa di mia madre, in una grande e vecchia casa di campagna, detta La Badiola. Correva il settimo anno dal matrimonio.

Ed erano già corsi tre anni da un’altra Pasqua che veramente m’era parsa una festa di perdono, di pace e d’amore, in quella villa bianca e solinga come un monasterio, profumata di violacciocche; quando Natalia, la seconda delle mie figliuole, tentava i primi passi, uscita allora allora dalle fasce come un fiore dall’invoglio, e Giuliana si mostrava per me piena d’indulgenza, sebbene con un sorriso un po’ malinconico. Io era tornato a lei, pentito e sommesso, dopo la prima grave infedeltà. Mia madre, inconsapevole, con le sue care mani aveva posto un ramoscello d’olivo a capo del nostro letto e aveva riempita la piccola acquasantiera d’argento che pendeva dalla parete.

Ma ora, in tre anni, quante cose mutate! Tra me e Giuliana era avvenuto un distacco definitivo, irreparabile. I miei torti verso di lei s’erano andati accumulando. Io l’aveva offesa nei modi più crudeli, senza riguardo, senza ritegno, trascinato dalla mia avidità di piacere, dalla rapidità delle mie passioni, dalla curiosità del mio spirito corrotto. Ero stato l’amante di due tra le sue amiche intime. Avevo passato alcune settimane a Firenze con Teresa Raffo, imprudentemente. Avevo avuto col falso conte Raffo un duello in cui il mio disgraziato avversario s’era coperto di ridicolo, per talune circostanze bizzarre. E nessuna di queste cose era rimasta ignota a Giuliana. Ed ella aveva sofferto, ma con molta fierezza, quasi in silenzio.

C’erano stati pochissimi dialoghi tra noi, e brevi, in proposito; nei quali io non avevo mai mentito, credendo con la mia sincerità diminuire la mia colpa agli occhi di quella dolce e nobile donna che io sapevo intellettuale.

Anche sapevo che ella riconosceva la superiorità della mia intelligenza e che scusava in parte i disordini della mia vita con le teorie speciose da me esposte più d’una volta in presenza di lei a danno delle dottrine morali professate apparentemente dalla maggioranza degli uomini. La certezza di non essere giudicato da lei come un uomo comune alleggeriva nella mia conscienza il peso dei miei errori. “Anch’ella dunque – io pensavo – comprende che, essendo io diverso dagli altri ed avendo un diverso concetto della vita, posso giustamente sottrarmi ai doveri che gli altri vorrebbero impormi, posso giustamente disprezzare l’opinione altrui e vivere nella assoluta sincerità della mia natura eletta.”

Io ero convinto di essere non pure uno spirito eletto ma uno spirito raro; e credevo che la rarità delle mie sensazioni e dei miei sentimenti nobilitasse, distinguesse qualunque mio atto. Orgoglioso e curioso di questa mia rarità, io non sapevo concepire un sacrificio, un’abnegazione di me stesso, come non sapevo rinunciare a un’espressione, a una manifestazione del mio desiderio. Ma in fondo a tutte queste mie sottigliezze non c’era se non un terribile egoismo; poiché, trascurando gli obblighi, io accettavo i benefizi del mio stato.

A poco a poco, infatti, di abuso in abuso, io era giunto a riconquistare la mia primitiva libertà col consenso di Giuliana, senza ipocrisie, senza sotterfugi, senza menzogne degradanti. Io mettevo il mio studio nell’esser leale, a qualunque costo, come altri nel fingere. Cercavo di confermare in tutte le occasioni, tra me e Giuliana, il nuovo patto di fraternità, di amicizia pura. Ella doveva essere la mia sorella, la mia migliore amica.

Una mia sorella, l’unica, Costanza, era morta a nove anni lasciandomi in cuore un rimpianto senza fine. Io pensavo spesso, con una profonda malinconia, a quella piccola anima che non aveva potuto offrirmi il tesoro della sua tenerezza, un tesoro da me sognato inesauribile. Fra tutti gli affetti umani, fra tutti gli amori della terra, quello sororale m’era sempre parso il più alto e il più consolante. Io pensavo spesso alla grande consolazione perduta, con un dolore che la irrevocabilità della morte rendeva quasi mistico. Dove trovare, su la terra, un’altra sorella?

Spontaneamente, questa aspirazione sentimentale si volse verso Giuliana. Sdegnosa di mescolanze, ella aveva già rinunziato ad ogni carezza, a qualunque abbandono. Io già da tempo non provavo più neppur l’ombra d’un turbamento sensuale, standole accanto; sentendo il suo alito, aspirando il suo profumo, guardando il piccolo segno bruno ch’ella aveva sul collo, io rimanevo nella più pura frigidità. Non mi pareva possibile che quella fosse la donna medesima che un giorno io aveva veduto impallidire e mancare sotto la violenza del mio ardore.

Io le offersi dunque la mia fraternità; ed ella accettò, semplicemente. Se ella era triste, io era più triste ancóra, pensando che noi avevamo sepolto il nostro amore per sempre, senza speranza di resurrezione; pensando che le nostre labbra non si sarebbero forse unite mai più, mai più. E, nella cecità del mio egoismo, mi parve che ella dovesse in cuor suo essermi grata di quella mia tristezza che io già sentivo immedicabile, e mi parve che ella dovesse anche esserne paga e consolarsene come d’un riflesso del lontano amore.

Ambedue un tempo avevamo sognato non pur l’amore ma la passione fino alla morte, usque ad mortem. Ambedue avevamo creduto al nostro sogno e avevamo proferito più d’una volta, nell’ebrezza, le due grandi parole illusorie: Sempre! Mai! Avevamo perfino creduto all’affinità della nostra carne, a quell’affinità rarissima e misteriosa che lega due creature umane col tremendo legame del desiderio insaziabile; ci avevamo creduto perché l’acutezza delle nostre sensazioni non era diminuita neppure dopo che, avendo noi procreato un nuovo essere, l’oscuro Genio della specie aveva raggiunto per mezzo di noi il suo unico intento.

L’illusione era caduta; ogni fiamma era spenta. La mia anima (lo giuro) aveva pianto sinceramente su la ruina. Ma come opporsi a un fenomeno necessario? Come evitare l’inevitabile?

Era dunque gran ventura che, morto l’amore per le necessità fatali dei fenomeni e quindi senza colpa di alcuno, noi potessimo ancora vivere nella stessa casa tenuti da un sentimento nuovo, forse non meno profondo dell’antico, certo più elevato e più singolare. Era gran ventura che una nuova illusione potesse succedere all’antica e stabilire tra le nostre anime uno scambio di affetti puri, di commozioni delicate, di squisite tristezze.

Ma, in realtà, questa specie di retorica platonica a qual fine tendeva? Ad ottenere che una vittima si lasciasse sacrificare sorridendo.

In realtà, la nuova vita, non più coniugale ma fraterna, si basava tutta su un presupposto: su l’assoluta abnegazione della sorella. Io riconquistavo la mia libertà, potevo andare in cerca delle sensazioni acute di cui avevano bisogno i miei nervi, potevo appassionarmi per un’altra donna, vivere fuori della mia casa e trovare la sorella ad aspettarmi, trovare nelle mie stanze la traccia visibile delle sue cure, trovare sul mio tavolo in una coppa le rose disposte dalle sue mani, trovare da per tutto l’ordine e l’eleganza e il nitore come in un luogo abitato da una Grazia. Questa mia condizione non era invidiabile? E non era straordinariamente preziosa la donna che consentiva a sacrificarmi la sua giovinezza, paga soltanto di essere baciata con gratitudine e quasi con religione su la fronte altera e dolce?

La mia gratitudine talvolta diveniva così calda che si espandeva in una infinità di delicatezze, di premure affettuose. Io sapevo essere il migliore dei fratelli. Quando ero assente, scrivevo a Giuliana lunghe lettere malinconiche e tenere che spesso partivano insieme con quelle dirette alla mia amante; e la mia amante non avrebbe potuto esserne gelosa, allo stesso modo che non poteva esser gelosa della mia adorazione per la memoria di Costanza.

Ma, sebbene assorto nell’intensità della mia vita particolare, io non sfuggivo alle interrogazioni che di tratto in tratto mi sorgevano dentro. Perché Giuliana persistesse in quella meravigliosa forza di sacrificio, bisognava ch’ella mi amasse d’un sovrano amore; e, amandomi e non potendo essere se non la mia sorella, doveva portar chiusa in sé una disperazione mortale. – Non era dunque un forsennato l’uomo che immolava, senza rimorso, ad altri amori torbidi e vani quella creatura così dolorosamente sorridente, così semplice, così coraggiosa? – Mi ricordo (e la perversione mia di quel tempo mi stupisce) mi ricordo che tra le ragioni che io dissi a me stesso per acquietarmi, questa fu la più forte: “La grandezza morale risultando dalla violenza dei dolori superati, perché ella avesse occasione d’essere eroica era necessario ch’ella soffrisse quel ch’io le ho fatto soffrire”.

Ma un giorno io m’avvidi ch’ella soffriva anche nella sua salute; m’avvidi che il suo pallore diveniva più cupo e talvolta si empiva come di ombre livide. Più d’una volta sorpresi nella sua faccia le contrazioni d’uno spasimo represso; più d’una volta ella fu assalita, in mia presenza, da un tremito infrenabile che la scoteva tutta e le faceva battere i denti come nel ribrezzo di una febbre subitanea. Una sera, da una stanza lontana mi giunse un grido di lei, lacerante; e io corsi, e la trovai in piedi, addossata a un armario, convulsa, che si torceva come se avesse inghiottito un veleno. Mi afferrò una mano e me la tenne stretta come in una morsa.

– Tullio, Tullio, che cosa orribile! Ah, che cosa orribile!

Ella mi guardava, da presso; teneva fissi nei miei occhi i suoi occhi dilatati, che mi parvero nella penombra straordinariamente larghi. E io vedevo in quei larghi occhi passare, come a onde, la sofferenza sconosciuta; e quello sguardo continuo, intollerabile, mi suscitò d’un tratto un terrore folle. Era di sera, era il crepuscolo, e la finestra era spalancata, e le tende si gonfiavano sbattendo, e una candela ardeva su un tavolo, contro uno specchio; e, non so perché, lo sbattito delle tende, l’agitazione disperata di quella fiammella, che lo specchio pallido rifletteva, presero nel mio spirito un significato sinistro, aumentarono il mio terrore. Il pensiero del veleno mi balenò; e in quell’attimo ella non poté frenare un altro grido; e, fuori di sé per lo spasimo, si gittò sul mio petto perdutamente.

– Oh Tullio, Tullio, aiutami! aiutami!

Agghiacciato dal terrore io rimasi un minuto senza poter proferire una parola, senza poter muovere le braccia.

– Che hai fatto? Che hai fatto? Giuliana! Parla, parla… Che hai fatto?

Sorpresa dalla profonda alterazione della mia voce, ella si ritrasse un poco e mi guardò. Io dovevo avere la faccia più bianca e più sconvolta della sua, perché ella mi disse rapidamente, smarritamente:

– Nulla, nulla. Tullio, non ti spaventare. Non è nulla, vedi… Sono i miei soliti dolori… Sai, è una delle solite crisi… che passano. Càlmati.

Ma io, invasato dal terribile sospetto, dubitai delle sue parole. Mi pareva che tutte le cose intorno a me rivelassero l’avvenimento tragico e che una voce interna mi accertasse: “Per te, per te ha voluto morire. Tu, tu l’hai spinta a morire”. E io le presi le mani e sentii che erano fredde, e vidi scendere dalla sua fronte una goccia di sudore…

– No, no, tu m’inganni, – proruppi – tu m’inganni. Per pietà, Giuliana, anima mia, parla, parla! Dimmi: che hai… Dimmi, per pietà: che hai… bevuto?

E i miei occhi esterrefatti cercarono intorno, su i mobili, sul tappeto, dovunque, un indizio.

Allora ella comprese. Si lasciò cadere di nuovo sul mio petto e disse, rabbrividendo e facendomi rabbrividire, disse con la bocca contro la mia spalla (mai, mai dimenticherò l’accento indefinibile), disse:

– No, no, no, Tullio; no.

Ah, che cosa nell’universo può uguagliare l’accelerazione vertiginosa della nostra vita interiore? Noi rimanemmo in quell’atto, nel mezzo della stanza, muti; e un mondo inconcepibilmente vasto di sentimenti e di pensieri si agitò dentro di me, in un sol punto, con una lucidità spaventevole. “E se fosse stato vero?” chiedeva la voce. “Se fosse stato vero?”

Un sussulto incessante scoteva Giuliana, contro il mio petto; ed ella ancóra teneva celata la faccia; ed io sapeva che ella, pur soffrendo ancóra nella sua povera carne, non ad altro pensava che alla possibilità del fatto da me sospettato, non ad altro pensava che al mio folle terrore. Una domanda mi salì alle labbra: “Hai tu mai avuta la tentazione?” E poi un’altra: “Potrebbe essere che tu cedessi alla tentazione?” Né l’una né l’altra proferii; eppure mi parve ch’ella intendesse. Ambedue oramai eravamo dominati da quel pensiero di morte, da quell’imagine di morte; ambedue eravamo entrati in una specie di esaltazione tragica, dimenticando l’equivoco che l’aveva generata, smarrendo la conscienza della realtà. Ed ella a un tratto si mise a singhiozzare; e il suo pianto chiamò il mio pianto; e mescolammo le nostre lacrime, ahimè! che erano così calde e che non potevano mutare il nostro destino.

Seppi, dopo, che già da alcuni mesi la travagliavano malattie complicate della matrice e dell’ovaia, quelle terribili malattie nascoste che turbano in una donna tutte le funzioni della vita. Il dottore, col quale volli avere un colloquio, mi fece intendere che per un lungo periodo io doveva rinunziare a qualunque contatto con la malata, anche alla più lieve delle carezze; e mi dichiarò che un nuovo parto avrebbe potuto esserle fatale.

Queste cose, pure affliggendomi, mi alleggerirono di due inquietudini: mi persuasero che io non avevo colpa nello sfiorire di Giuliana e mi diedero un modo semplice di poter giustificare davanti a mia madre la separazione di letto e gli altri mutamenti avvenuti nella mia vita domestica. Mia madre appunto era per arrivare a Roma dalla provincia, dove ella, dopo la morte di mio padre, passava la maggior parte dell’anno con mio fratello Federico.

Mia madre amava molto la giovine nuora. Giuliana era veramente per lei la sposa ideale, la compagna sognata pel suo figliuolo. Ella non riconosceva al mondo una donna più bella, più dolce, più nobile di Giuliana. Ella non concepiva che io potessi desiderare altre donne, abbandonarmi in altre braccia, dormire su altri cuori. Essendo stata amata per venti anni da un uomo, sempre con la stessa devozione, con la stessa fede, sino alla morte, ella ignorava la stanchezza, il disgusto, il tradimento, tutte le miserie e tutte le ignominie che si covano nel talamo. Ella ignorava lo strazio che io avevo fatto e facevo di quella cara anima immeritevole. Ingannata dalla dissimulazione generosa di Giuliana, credeva ancóra nella nostra felicità. Guai s’ella avesse saputo!

Io era ancóra in quell’epoca sotto il dominio di Teresa Raffo, della violenta avvelenatrice che mi dava imagine dell’amasia di Menippo. Ricordate? Ricordate le parole di Apollonio a Menippo nel poema inebriante? “O beau jeune homme, tu caresses un serpent; un serpent te caresse!”

Il caso mi favorì. Per la morte d’una zia, Teresa fu costretta ad allontanarsi da Roma e a rimanere assente qualche tempo. Io potei con una insolita assiduità presso mia moglie riempire il gran vuoto che la “Biondissima” partendo lasciava nelle mie giornate. E non era ancóra svanito in me il turbamento di quella sera; e qualche cosa di nuovo, indefinibile, da qualche sera ondeggiava tra me e Giuliana.

Poiché le sofferenze fisiche di lei aumentavano, io e mia madre potemmo con molta fatica ottenere che ella si sottoponesse all’operazione chirurgica richiesta dal suo stato. L’operazione portava per seguito trenta o quaranta giorni di assoluto riposo nel letto e una convalescenza prudente. Già la povera malata aveva i nervi estremamente indeboliti ed irritabili. I preparativi lunghi e fastidiosi la estenuarono e la esasperarono al punto che ella più d’una volta tentò di gittarsi giù dal letto, di ribellarsi, di sottrarsi a quel supplizio brutale che la violava, che l’umiliava, che l’avviliva…

– Di’, – mi chiese un giorno, con la bocca amara – se tu ci pensi, non hai ribrezzo di me? Ah, che brutta cosa!

E fece un atto di disgusto su sé medesima; e s’accigliò, e si ammutolì.

Un altro giorno, mentre io entravo nella sua stanza, ella si accorse che un odore mi aveva ferito. Gridò, fuori di sé, pallida come la sua camicia:

– Vattene, vattene, Tullio. Ti prego! Parti. Ritornerai quando sarò guarita. Se tu rimarrai qui, mi prenderai in odio. Sono odiosa così; sono odiosa… Non mi guardare.

E i singhiozzi la soffocarono. Poi, in quello stesso giorno, dopo qualche ora, mentre io tacevo credendo ch’ella fosse per assopirsi, uscì in queste parole oscure, con l’accento strano di chi parla in sogno:

– Ah, se davvero l’avessi fatto! Era un buon suggerimento…

– Che dici, Giuliana?

Ella non rispose.

– A che pensi, Giuliana?

Non rispose se non con un atto della bocca, che voleva essere un sorriso e non poté.

Mi parve di comprendere. E un’onda tumultuosa di rammarico, di tenerezza e di pietà mi assalse. E tutto avrei dato perché ella avesse potuto leggermi l’anima, in quel momento, perché ella avesse potuto raccogliere intera la mia commozione irrivelabile, inesprimibile e quindi vana. “Perdonami, perdonami. Dimmi quello che io debbo fare perché tu mi perdoni, perché tu dimentichi tutte le cattive cose… Io tornerò a te, non sarò d’altri che di te, per sempre. Te sola veramente io ho amata, nella vita; amo te sola. Sempre la mia anima si volge a te, e ti cerca, e ti rimpiange. Te lo giuro: lontano da te, non ho provato mai nessuna gioia sincera, non ho avuto mai un attimo di pieno oblio; mai, mai: te lo giuro. Tu sola, al mondo, hai la bontà e la dolcezza. Tu sei la più buona e la più dolce creatura che io abbia mai sognata: sei l’Unica. E ho potuto offenderti, ho potuto farti soffrire, ho potuto farti pensare alla morte come a una cosa desiderabile! Ah, tu mi perdonerai, ma io non potrò mai perdonarmi; tu dimenticherai, ma io non dimenticherò. Sempre mi parrà d’essere indegno; neppure con la devozione di tutta la mia vita mi parrà di averti compensata. Da ora innanzi, come un tempo, tu sarai la mia amante, la mia amica, la mia sorella; come un tempo, tu sarai la mia custode, la mia consigliera. Io ti dirò tutto, ti svelerò tutto. Sarai la mia anima. E guarirai. Io, io ti guarirò. Tu vedrai di quali tenerezze io sarò capace per medicarti… Ah, tu le conosci. Ricòrdati! Ricòrdati! Anche allora tu fosti malata e me solo volesti per medicarti; e io non mi mossi mai dai tuo capezzale, né di giorno, né di notte. E tu dicevi: – Sempre Giuliana se ne ricorderà, sempre. – E tu avevi le lacrime negli occhi, e io te le bevevo tremando. – Santa! Santa! – Ricòrdati. E quando ti leverai, quando sarai convalescente, andremo laggiù, torneremo a Villalilla. Tu sarai ancóra un poco debole, ma ti sentirai tanto bene. E io ritroverò la mia gaiezza d’una volta, e ti farò sorridere, ti farò ridere. Tu ritroverai quelle tue belle risa che mi rinfrescavano il cuore; tu ritroverai quelle tue arie di fanciulla deliziose, e porterai ancóra la treccia giù per le spalle come mi piaceva. Siamo giovani. Riconquisteremo la felicità, se tu vorrai. Vivremo, vivremo…” Così, dentro di me, le parlavo; e le parole non uscivano dalle mie labbra. Pur essendo commosso e avendo gli occhi umidi, io sapevo che la commozione era passeggera e che quelle promesse erano fallaci. E anche sapevo che Giuliana non si sarebbe illusa e che mi avrebbe risposto con quel suo tenue sorriso sfiduciato, già altre volte comparsole su le labbra. Quel sorriso significava: “Sì, io so che tu sei buono e che vorresti non farmi soffrire; ma tu non sei padrone di te, non puoi resistere alle fatalità che ti trascinano. Perché vuoi tu che io m’illuda?”

Tacqui, in quel giorno; e nei giorni che seguirono, pur ricadendo più volte nella stessa confusa agitazione di ravvedimenti e di propositi e di sogni vaghi, non osai parlare: “Per tornare a lei, tu devi abbandonare le cose in cui ti compiaci, la donna che ti corrompe. Ne avrai la forza?” Io rispondevo a me stesso: “Chi sa!” E aspettavo di giorno in giorno questa forza che non veniva; aspettavo di giorno in giorno un evento (non sapevo quale) che provocasse la mia risoluzione, che me la rendesse inevitabile. E m’indugiavo a imaginare, a sognare la nostra vita nuova, la lenta rifioritura del nostro amore legittimo, il sapore strano di certe sensazioni rinnovate. “Noi andremmo dunque laggiù, a Villalilla, nella casa che conserva le nostre più belle memorie; e saremmo noi due soltanto, perché lasceremmo Maria e Natalia con mia madre alla Badiola. E la stagione sarebbe mite; e la convalescente si appoggerebbe sempre al mio braccio, pei sentieri conosciuti, dove ogni nostro passo risveglierebbe una memoria. Ed io vedrei di tratto in tratto sul suo pallore diffondersi qualche lieve fiamma subitanea; ed ambedue saremmo, l’uno verso l’altra, un poco timidi; sembreremmo qualche volta pensierosi; eviteremmo qualche volta di guardarci negli occhi. Perché? E un giorno, sentendo più forte la suggestione dei luoghi, io ardirei parlarle delle nostre più folli ebrezze di quei primi tempi. – Ti ricordi? Ti ricordi? Ti ricordi? – E a poco a poco ambedue sentiremmo in noi il turbamento crescere, divenire insostenibile; e ambedue, nel tempo medesimo, perdutamente, ci stringeremmo, ci baceremmo in bocca, crederemmo venir meno. Ella, ella sì verrebbe meno; e io la sosterrei nelle mie braccia chiamandola con nomi suggeriti da una tenerezza suprema. Ella riaprirebbe gli occhi, leverebbe tutto il velo del suo sguardo, fisserebbe un istante su me la sua stessa anima; mi parrebbe trasfigurata. E così saremmo ripresi dall’antico ardore, rientreremmo nella grande illusione. Ambedue saremmo tenuti da un pensiero unico, assiduo; saremmo agitati da un’ansietà inconfessabile. Io le chiederei tremando: – Sei guarita? – Ed ella dal suono della mia voce comprenderebbe la domanda celata in quella domanda. E risponderebbe, senza potermi nascondere il brivido: – Non ancóra! – E la sera, dividendoci, rientrando nelle nostre stanze separate, ci sentiremmo morire d’angoscia. Ma una mattina, con uno sguardo impreveduto, i suoi occhi mi direbbero: – Oggi, oggi… – Ed ella, paventando quel divino e terribile momento, con qualche pretesto puerile mi sfuggirebbe, protrarrebbe la nostra tortura. Direbbe ella: – Usciamo; usciamo… – Usciremmo: in un pomeriggio velato, tutto bianco, un poco snervante, un poco soffocante. Cammineremmo a fatica. Comincerebbero a cadere, su le nostre mani, sul nostro viso, gocce di pioggia tiepide come lacrime. Io direi, con la voce alterata: – Rientriamo. – E, presso la soglia, all’improvviso, la prenderei su le mie braccia, la sentirei abbandonarsi come esanime, la porterei su per le scale senza avvertire alcun peso. – Dopo tanto! Dopo tanto! – La violenza del desiderio in me attenuata dalla paura di farle male, di strapparle un grido di dolore. – Dopo tanto! – E i nostri esseri, all’urto di una sensazione divina e terrribile, non provata né imaginata mai, si struggerebbero. Ed ella, dodpo, mi parrebbe quasi morente, con la faccia tutta molle di pianto, pallida come il suo guanciale.”

Ah, così me parve, morente mi parve, quella mattina, quando i dottori l’addormentavano col cloroformio ed elle, sentendose sprofondare nell’insensibilità della morte, due o tre volte tentò di alzare le braccia verso di me, tentò di chamarmi. Io uscii dalla stanza, sconvolto; e intravidi i ferri chirurgici, un specie di cuchiaio tagliente, e la garza e il cotone e il ghiaccio e le altre cose preparate su un tavolo. Due lunghe ore, interminabili ore, aspettai, esacerbando la mia sofferenza con l’eccesso delle imaginazioni. E una disperata pietà strinse le mie viscere d’uomo, per quella creatura che i ferri del chirurgo violavano non soltanto nella carne miserabile ma nell’intimo dell’anima, nel sentimento piu delicato che una donna possa custodire: – una pietà per quella e per le altre, agitate da aspirazioni indefinite verso le idealità dell’amore, illuse dal sogno capzioso di cui il desiderio maschile le avvolge, smanianti d’inalzarsi, e così deboli, così malsane, così imperfette, uguagliate alle femmine brute dalle leggi inabolibili della Natura; che impone a loro il diritto della specie, sforza le loro matrici, le travaglia di morbi orrendi, le lascia esposte, a tutte le degenerazioni. E in quella e nelle altre, rabbrividendo per ogni fibra, io vidi allora, con una lucidità spaventevole, vidi la piaga originale, la turpe ferita sempre aperta “che sanguina e che pute”…

Quando rientrai nella stanza di Giuliana, ella era ancóra sotto l’azione dell’anestetico, senza conoscenza, senza parola: ancóra simile a una morente. Mia madre era ancóra pallidissima e convulsa. Ma pareva che l’operazione fosse riuscita bene; i dottori parevano soddisfatti. L’odore del iodoformio impregnava l’aria. In un canto, la monaca inglese empiva di ghiaccio una vescica; l’assistente ravvolgeva una fascia. Le cose tornavano nell’ordine e nella calma, a poco a poco.

L’inferma rimase a lungo in quel sopore; la febbre comparve leggerissima. Nella notte però ella fu presa da spasimi allo stomaco e da un vomito infrenabile. Il laudano non la calmava. E io, fuori di me, allo spettacolo di quello strazio inumano, credendo ch’ella dovesse morire, non so più che dissi, non so più che feci. Agonizzai con lei.

Nel giorno seguente, lo stato dell’inferma migliorò; e poi, di giorno in giorno, andò ancóra migliorando. Le forze lentissimamente tornavano.

Io fui assiduo al capezzale. Mettevo una certa ostentazione nel ricordare a lei, con i miei atti, l’infermiere d’una volta; ma il sentimento era diverso, era sempre fraterno. Spesso io avevo lo spirito preoccupato da qualche frase d’una lettera dell’amante lontana, mentre leggevo a lei qualche pagina d’un libro preferito. L’Assente era indimenticabile. Talora però, quando nel rispondere a una lettera mi sentivo un po’ svogliato e quasi tediato, in certe strane pause che nella lontananza ha anche una passione forte, io credevo questo un indizio di disamore; e ripetevo a me stesso: “Chi sa!”.

Un giorno, mia madre disse a Giuliana, in mia presenza: – Quando ti leverai, quando ti potrai muovere, andremo tutti insieme alla Badiola. Non è vero, Tullio?

Giuliana mi guardò.

– Sì, mamma – risposi, senza esitare, senza riflettere. – Anzi, io e Giuliana andremo a Villalilla.

Ed ella di nuovo mi guardò; e sorrise, d’un sorriso impreveduto, indescrivibile, che aveva una espressione di credulità quasi infantile, che somigliava un poco a quello d’un bambino malato a cui sia fatta una grande insperata promessa. Ed abbassò le palpebre; e continuò a sorridere, con gli occhi socchiusi che vedevano qualche cosa lontana, molto lontana. E il sorriso s’attenuava, s’attenuava, senza estinguersi.

Quanto mi piacque! Come l’adorai, in quel momento! Come sentii che nulla al mondo vale la semplice commozione della bontà!

Una bontà infinita emanava da quella creatura e mi penetrava tutto l’essere, mi colmava il cuore. Ella stava nel letto supina, rialzata da due o tre guanciali; e la sua faccia dall’abondanza dei capelli castagni un poco rilasciati acquistava una finezza estrema, una specie d’immaterialità apparente. Aveva una camicia chiusa intorno al collo, chiusa intorno ai polsi; e le sue mani posavano sul lenzuolo, prone, così pallide che soltanto le vene azzurre le distinguevano dal lino.

Presi una di quelle mani (mia madre era già uscita dalla stanza); e dissi sottovoce:

– Torneremo dunque… a Villalilla.

La convalescente disse:

– Sì.

E tacemmo, per prolungare la nostra commozione, per conservare la nostra illusione. Sapevamo ambedue il significato profondo che nascondevano quelle poche parole scambiate sottovoce. Un acuto istinto ci avvertiva di non insistere, di non definire, di non andare oltre. Se avessimo parlato ancóra, ci saremmo trovati davanti alle realtà inconciliabili con l’illusione in cui le nostre anime respiravano e a poco a poco s’intorpidivano deliziosamente.

Quel torpore favoriva i sogni, favoriva gli oblii. Passammo un intero pomeriggio quasi sempre soli, leggendo a intervalli, chinandoci insieme su la stessa pagina, seguendo con gli occhi la stessa riga. Avevamo là qualche libro di poesia; e noi davamo ai versi una intensità di significato, che non avevano. Muti, ci parlavamo per la bocca di quel poeta affabile. Io segnavo con l’unghia le strofe che parevano rispondere al mio sentimento non rivelato.

 
Je veux, guidé par vous, beaux yeux aux flammes douces,
Par toi conduit, ô main où tremblera ma main,
Marcher droit, que ce soit par des sentiers de mousses
Ou que rocs et cailloux encombrent le chemin;
Oui, je veux marcher droit et calme dans la Vie…
 

Ed ella, dopo aver letto, si riabbandonava per un poco su i guanciali, chiudendo gli occhi, con un sorriso quasi impercettibile.

 
Toi la bonté, toi le sourire,
N’es tu pas le conseil aussi,
Le bon conseil loyal et brave…
 

Ma io vedevo sul suo petto la camicia secondare il ritmo del respiro con una mollezza che incominciava a turbarmi come il fievole profumo di ireos esalato dai lenzuoli, e dai guanciali. Desiderai ed aspettai che ella, sorpresa da un subitaneo languore, mi cingesse il collo con un braccio e congiungesse la sua guancia alla mia così ch’io sentissi sfiorarmi dall’angolo della sua bocca. Ella pose l’indice affilato su la pagina e segnò con l’unghia il margine, guidando la mia lettura commossa.

Vanusepiirang:
16+
Ilmumiskuupäev Litres'is:
25 november 2019
Kirjutamise kuupäev:
1892
Objętość:
310 lk 1 illustratsioon
ISBN:
978-5-9925-1388-2
Õiguste omanik:
КАРО
Allalaadimise formaat:

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