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V

Il vecchio si interruppe – in quell'anima semplice da contadino c'era il pudore di una vergine. Egli arrossiva per sua figlia. Dopo breve silenzio riprese:

«La mia Martina m'avrà perdonato… Io sono stato un po' duro con lei… e non doveva… Sua madre, come vi ho detto, era malata – le madri hanno la mano più dolce nel medicare certe piaghe… Ma io non l'ho mica strapazzata quella povera creatura… Sulle prime sono andato un po' in furia… che volete, don Remondo?.. bisognava sgridarla un poco… tanto da farle capire che aveva fatto male… perchè lei… quel povero angelo… non capiva… non sapeva proprio nulla… È morta che pareva una madonnina di cera!.. Ma ora, ci vuol altro che piangere… sentirete, don Remondo, quello che intendo fare… Dunque… come dicevo… ho alzato un po' la voce sul principio… e poi ho detto subito: non è con lei che io devo prendermela… io devo rimediare alla meglio… perchè Veronica non sappia… perchè nel paese non succedano degli scandali… La condussi a Osteno in casa di una mia sorella vedova – una santa! E poi, dopo alcuni giorni, andai a Milano – aveva un pensiero – quell'uffiziale si chiamava Francesco Nëipper – il suo reggimento era di guarnigione a Milano… Mi era messo in testa io che ci potesse essere dei galantuomini anche fra loro… oppure… che parlando a qualche superiore… a qualche coronello… Sentite mo questa, don Remondo!.. Arrivo a Milano… In quei giorni c'era lo stato d'assedio… Soldati di qua, gendarmi di là… commessi… pollini ad ogni angolo di contrada… Milano pareva una caserma. Prima di fare dei passi coi superiori… voleva vederlo lui… voleva un poco sentire come la pensasse… Vederlo! non era facile… Eppure… una mattina… girando nei dintorni del castello… vedo un uffiziale che ha la sua statura… Era in compagnia di un altro… e parlavano a voce alta in tedesco. – Mi avvicino… gli prendo la volta… è lui… proprio lui… quella faccia falsa da san Sebastiano!.. Con tutto il rispetto… levandomi il cappello… me gli accosto di fianco, e gli dico: buon dì, signoria! – Quei due campioni balzano lontano tre passi, e subito fanno l'atto di cavar fuori le sciabole… «Farcflutter… staiffer! crazzer!…» sa Dio cosa bestemmiavano quei due mostri!.. – e mi vengono addosso che sembrano due jene! «Ma il signore sa chi sono… l'oste di Val d'Intelvi… Gregorio… il padre della Martina…» – «Tartaifel… ludro… flucter! porco talliano… andar tua strada… o far fucilare sul momento!» – E poi tutti e due a bestemmiare in tedesco e battere lo squadrone che volevano subissarmi! – Ah! sono stato un gran vile… una carogna! Ma chi poteva aspettarsi…? so io cosa è avvenuto di me in quel momento?.. Non ero più io… Quella piazza… quel castello… tutti quei soldati… non si vedeva un solo cristiano nè dappresso nè in distanza… Mi sono lasciato avvilire… E poi… cosa sarebbe avvenuto di quelle due povere donne…? Mia moglie ammalata… e l'altra!.. Iddio mi ha tenuto la mano… e ve lo giuro, don Remondo, quei due moscardini di gesso avrei potuto mangiarmeli come due paste sfogliate… e li avrei digeriti in un attimo!.. Invece… mi è rimasto un gruppo qui dentro… qualche cosa che non ha mai voluto andar giù… Ma prima di morire, voglio farmela passare, perdio!

VI

Gregorio vuotò un bicchiere. – Don Remondo mormorò delle parole che non erano una giaculatoria da prete.

– Avete mai provato colla vostra bacchetta a scacciare un grosso ragno dal suo telaio? – Se il ragno cade a terra, subito si raggruppa, diventa piccino, si perde fra i sassi e rimane immobile fino a quando non lo abbiate perduto di vista. – Così ho dovuto far io, così ho fatto in quell'occasione, – come non avessero parlato con me… come se nulla ci fosse stato… Restai là parecchi minuti… cogli occhi a terra… fino a che, dopo essersi sfogati con delle parole da far raccapricciare le anime del purgatorio, quei due cani si furono allontanati… Appena mi parve che il pericolo fosse cessato, levai timidamente lo sguardo… e vidi quei due che se ne andavano con aria di trionfo picchiando la terra colle sciabole… Avevano cessato di bestemmiare in tedesco, ma ridevano in italiano… Ed uno si volse indietro a guardarmi, – lui, proprio lui – quell'infame rideva con una bocca da vipera! – Don Remondo: credete voi che qualche volta… in certe occasioni… quello che sta lassù… possa udire certe parole che si pronunziano a voce bassa col veleno nell'anima? Io per me ci credo. Ho sentito dire che il basilisco, quando guarda fissamente una persona, la uccide. Orbene: ponete che in quel momento io avessi nel cuore e negli occhi tutto il veleno del basilisco – ma io non lo fissava per ucciderlo, quell'assassino del mio sangue – io lo fissava per piantargli nelle viscere la maledizione. Sentite le parole che io scagliava dietro lui, senza muovermi d'un passo, appiattato nel mio fango come un rospo su cui è passata la vanga: «Che tu possa vivere finchè venga un altro quarantotto!..» Questa sentenza l'ho scagliata dietro lui non meno di trenta volte. Egli non ha avuto più il coraggio di volgere indietro la testa – io credo che egli debba aver sentito nel cuore qualche cosa come un chiodo gelato. Ed ora, non saprei dirvi, don Remondo, come io partii da Milano, come tornai al paese – Sono uscito da una porta… ho camminato due giorni e una notte… sono entrato in casa una mattina, mi sono inginocchiato presso al letto della mia Veronica che dormiva – e ho pianto per due buone ore. Dopo, ho potuto dormire anch'io – e quando mi sono svegliato, il primo pensiero che mi venne in mente fu questo: Gregorio: ora bisogna vivere, e aspettare l'altro quarantotto! – Intanto si è dovuto tirare avanti dieci anni… La Veronica stette ammalata ventidue mesi… e sempre domandava di sua figlia… Ho dovuto inventargliene per risparmiarle il dolore…! Io andava tutte le settimane ad Osteno a vedere quella poveretta che dimagrava a vista d'occhi… – La sua prima parola era sempre questa: come va la mamma? – e poi subito, a bassa voce, facendosi tutta rossa: per l'amor di Dio… ch'ella non sappia mai nulla! – Ed io ho tenuto parola – quella brutta istoria è rimasta qui dentro… Voi solo, ne sapeste qualche cosa… Era ben necessario che qualcuno mi consigliasse in quei brutti momenti…! Ma pure io non vi ho mai detto il capo o la fine come ho fatto questa sera… Vi ricordate? Il bambino è venuto al mondo la mattina del sedici giugno… Voi mi avete insegnato la via della via per mandarlo al sicuro… E nessuno, meno la mia sorella di Osteno, nessuno ha saputo della disgrazia. Due mesi dopo, quando io aveva stabilito di ricondurla al paese… chè ciò avrebbe fatto tanto bene a sua madre… la povera Martina morì come una santa. Sono arrivato in tempo a vederla… Mi ha domandato perdono… Di che? Cosa aveva fatto di male quella povera creatura?.. Le sue ultime parole furono quelle che mi ripeteva sempre ogni volta che andavo a trovarla: «mai!.. nè anche quando sarò morta… non dite mai nulla a mia madre… glielo dirò io… quando ci incontreremo in paradiso…!» – Così è morta… Dopo ventiquattro ore l'abbiamo collocata nella cassa… io e mia sorella – e poi sono rimasto là fin quando l'hanno portata via… A Osteno non aveva amiche… nessuno la conosceva… Non c'eran più di dieci donne ad accompagnarla al campo santo… Io mi sono inginocchiato presso una finestra… l'ho seguita cogli occhi fin oltre il muricciuolo del sagrato – e quando non si vide più nulla… allora… Ah! voi credete, don Remondo, che durante quella cerimonia io abbia risposto alle litanìe dei morti… che io abbia pregato il Signore? Nè anche un deprofundis! Quando non si vide più nulla di quel povero cofano coperto di stracci, mi è sembrato di trovarmi ancora laggiù… a Milano… in quella grande pianura… Ma il castello non c'era più… tutto era deserto… non eravamo là che noi due… io e quell'assassino – egli inginocchiato a domandarmi la vita, io sopra di lui a piantargli una baionetta nelle viscere. – Questa orribile visione è stata il mio deprofundis, la preghiera che io ho recitato in quella stanza donde era uscita la mia povera Martina per andare al campo santo.

VII

La voce di Gregorio si era fatta roca – i muscoli neri delle sue braccia si erano gonfiati. Don Remondo con accento di compassione e di benevolenza si studiava di moderare quegli impeti appassionati.

– Sentite, don Remondo – riprese il vecchio col suo energico accento – io credo che la mia anima andrebbe dannata se prima di morire non facessi qualche cosa anch'io per aiutare la giustizia di Dio. Se si è fatta la guerra ai tedeschi, vuol dire che i tedeschi ne devono aver fatte tante e poi tante a noi poveri italiani, che finalmente anche quel lassù si è stancato. Le ho sapute tutte… A me la figlia… a quest'altro la moglie… dei poveri innocenti mandati alla forca… bastonate a dritta e a sinistra… centinaia di individui morti nelle prigioni… E senza andare lontano… da noi… nella nostra piccola valle… quali orrori… quanti assassinii!.. Basta! Il secondo quarantotto è venuto… Hanno dovuto andarsene un'altra volta… dai nostri paesi… ed io – vedete maledizione! – io… nel cinquantanove, non sono arrivato in tempo… E voi ci avete avuto un po' di colpa, don Remondo… Mi dicevate: «aspetta, Gregorio!.. non è tempo di partire… non è tanto facile passare il confine… Garibaldi verrà su da Varese… quanto prima egli dovrà passare per Como, e allora noi andremo ad arruolarci con lui!» Sicuro ch'egli ci è passato per Como, Garibaldi!.. e poi si è portato a Lecco… e noi… bel da fare!.. siamo corsi laggiù per farci iscrivere… e abbiamo avuto il nostro fucile quando non c'era più modo di adoperarlo! E loro le avevano già amministrate le loro pillole di piombo… si erano battuti a Laveno, a Varese, a San Fermo… mentre noi, gira di qua, gira di là, daghela avanti un passo… caricate le armi – un bel giorno vengono a dirci: fermo, signori!.. alto!.. non c'è più guerra… hanno capitolato… hanno accomodato l'armistizio… la diplomazia… l'accidente che li fulmini tutti…! E dopo alcuni giorni – vi ricordate, don Remondo?.. noi eravamo a Lecco a fare il diavolo sulla piazza – e quel signore di Tirano colla barba rossa ci ha rimandati al paese con queste belle parole: basta! quel che ho fatto, ho fatto, e quel che voi non avete fatto, lo faremo noi! – (Col tempo e colla paglia!..) Dio! le belle parole! Ma intanto…! Intanto daghela avanti un passo come i gamberi… ed io sono tornato al paese con quel gusto!.. Oh! non sarà così questa volta… ve lo prometto io… Questa volta non si perderà il tempo a piantar delle carote… e dovranno lasciarci fare… perdio! La vuol esser l'ultima, don Remondo! Ci venite voi? Ebbene: non bisogna perder tempo… Preparare i nostri arnesi, e via tutti quanti!..

 

VIII

In quel momento Ernani rientrava nel cortile tutto affannato. Quel gracile fanciullo di sedici anni, giuocando cogli altri contadinelli, si era fatto tutto rosso – le sue guancie diafane stillavano come il muro di una cantina.

– Diamine!.. Mi vai tutto in sudore, figliuolo mio! Ci vuol altro… ci vuol altro! Con Garibaldi bisogna marciare! Venti… qualche volta trenta miglia al giorno… e a gamba levata!

– Oh! non dubitare, papà Gregorio! – rispose il fanciullo – io non ho paura delle marcie.

– E degli schioppi… avrai tu paura? chiese don Remondo accarezzando il fanciullo collo sguardo.

– Degli schioppi…! Ma ne avremo anche noi degli schioppi, non è vero, papà Gregorio?..

– Per noi due il governo non avrà da far spese… c'è tutto… Gli schioppi, le baionette, il sacco, le cartuccie… Questa volta ci siamo provveduti in tempo…

– Ma dunque? andremo proprio con Garibaldi? domandò il fanciullo saltando al collo del vecchio.

– Sicuro che ci andremo…

– Quando?

– Quando… quando!.. Bisogna domandarlo a lui… a don Remondo… Ci capisco io qualche cosa di queste gazzette?.. Là! fatemi il favore, don Remondo… tornate un po' a leggere il proclama di Garibaldi!

– Ma finora non ci sono proclami – rispose il prete – non sono che notizie da Caprera… dei si dice

– Ma… dei si dice…! come nel cinquantanove! E mentre quegli altri si battevano, noi stavamo qui a masticare dei si dice!.. Ernani: va a dormire!

– A dormire!.. Così presto?.. Ma io non ho sonno…

– Va a dormire, ti dico: domattina verrò a svegliarti di buon'ora… e andremo tutti e due… dove s'ha da andare…

– Da Garibaldi!.. esclamò il fanciullo battendo le palme.

E di nuovo saltò al collo del vecchio; poi, senza dire parola, Ernani s'avviò alla cucina, salì per una scaletta di legno e disparve.

– Che vuol dire questa novità? – domandò il prete – se n'è andato senza salutarmi!

– Quel ragazzo aveva voglia di piangere… Io l'ho capito… Oh! non dormirà questa notte… il povero figliuolo!

– Ma dunque… anche lui… ha una gran voglia di andare alla guerra! A quell'età! E si può dire che egli non sa nemmeno cosa siano quei maledetti che a noi hanno fatto tanto male!

– Ditemi un po', don Remondo – prese a dire Gregorio col tono misterioso di chi sta per rivelare un grande segreto. Ditemi un poco: perchè ci siete andato… perchè ci tornerete anche voi alla guerra? cosa vi hanno fatto di male, a voi, quegli scomunicati di tedeschi?

– Io vado a battermi – rispose don Remondo con qualche imbarazzo – io vado a battermi per un principio… perchè ho veduto le atrocità che i tedeschi hanno commesso nella nostra povera valle… uccidendo tanti poveri innocenti…

– Dite la verità, don Remondo – fra questi poveri innocenti non c'era qualcheduno che vi apparteneva… al quale eravate specialmente affezionato… qualche amico?..

– Ebbene… sì!.. capisco… dove mira il tuo discorso… Tutti abbiamo le nostre debolezze… Noi preti si vive nell'isolamento… non abbiamo famiglia… Io amava il mio bracco come un amico… Alla fine non è un delitto portar un po' di affezione alle bestie che sono anch'esse creature di Dio! Cosa aveva fatto di male quel povero Fido?.. Vedendo quelle monture bianche e quelle sciabole, s'era messo ad abbaiare… Ed essi – bel coraggio! bella forza!.. pinf! panf! me l'hanno freddato con due palle nella testa!

– E voi non l'avete più perdonata a quei mostri! – proseguì Gregorio – si capisce! Ma a quel ragazzo… vedete!.. a quel ragazzo i tedeschi hanno ucciso ben altro che un cane…! Hanno ucciso la persona che tutti al mondo si tengono più cara – la persona che egli ama, che egli adora senza averla conosciuta… una santa che prega per lui in paradiso… sua madre.

– Ma dunque… – esclamò il prete – questo ragazzo che da cinque o sei anni ti sei tirato in casa… che tutti credono tuo nipote…?

– Sotto voce… che nessuno ci senta! – sì!.. è lui – badate che io vi parlo come se foste il mio confessore – è il figlio della mia povera Martina!

PARTE SECONDA
Il Dovere

I

Fra le molte famiglie che in Lombardia arricchirono considerevolmente dopo le disastrose peripezie del 1848, una ve n'ha in Milano, la quale oggigiorno può competere, in fatto di dovizie, col patriziato più illustre di censi. La voce del popolo, che è voce di Dio, attribuisce a questa famiglia un patrimonio di cinque o sei milioni. – Al fortunato capitalista noi daremo un nome di nostra invenzione – lo chiameremo il signor Lorenzo De Mauro, senza defraudarlo di quel de pretensioso, che egli stesso volle assumere in una giornata di riabilitazione e di buon umore. – Cosa era il signor De Mauro prima del 1848? – Bisogna discendere molto basso per rintracciarne l'origine – noi non ci daremo la pena di calcare tutto il fango pel quale ha dovuto trascinarsi questo oro che oggi rifulge sulle alte cime della società. – E d'altra parte, a che gioverebbe? – Si tratta di un uomo ricco, di un uomo divenuto potente, che dà pane a tanti artisti, che presta danaro a tanti signori poveri, che ha regalato un pallio alla chiesa parrocchiale, che fuori di Milano, nel paesetto ove possiede, ha promesso di rifabbricare a sue spese il campanile. – Non si domanda il passato ad un presente così luminoso – e quand'uno osa farlo, tutti in coro rispondono: «che importa?.. sì… forse… ma pure… la invidia… la calunnia…» Noi dunque ci limiteremo a dire di questo passato solo quel tanto che importa all'intelligenza del nostro racconto.

II

La fortuna del De Mauro cominciò – per quanto dicono – con delle speculazioni sulla carta bollata. Questa istoria ha dello inverosimile. Più tardi vennero gli approvvigionamenti militari – poi gli appalti per la costruzione di alcuni fortini, quindi, in occasione della battaglia di Novara, il noleggio dei mezzi di trasporto, e di nuovo la fornitura delle vettovaglie all'esercito austriaco. – Dotato di molta avvedutezza e di poca coscienza, il De Mauro cominciò per bene la sua carriera. I tedeschi furono contenti di lui, ed egli naturalmente di loro – così, di appalto in appalto, il nostro uomo raggiunse la meta invidiata – divenne milionario. – Non spetta a noi rivedere le partite arretrate per verificare l'esattezza dei bilanci – poichè il governo austriaco fu pienamente soddisfatto!.. E d'altra parte, non è forse vero ciò che dicono molti, che i fornitori d'armata hanno mille occasioni di rubare onestamente? – La maggiore o minore onestà risulta dall'esito. Fatevi fucilare sul campo, e siete fior di canaglia; uscite salvi ed illesi coi vostri milioni, e avrete fama di industriale avveduto. L'onestà degli speculatori si misura a questa bilancia.

III

È ben vero che in sulle prime – all'improvviso bagliore delle nuove fortune – il popolo mormora e qualche volta calunnia. – Ma il signor De Mauro, co' suoi milioni, oppose una barriera alle dicerie di quell'infima classe donde era uscito. Un'altra società, un altro mondo si apriva per lui. – Egli sapeva che questa società doppiamente maligna, ma frivola altrettanto, che questo mondo avverso ai nuovi arricchiti, ma altrettanto facile alle transazioni, si poteva agevolmente conquistare e dominare colla servilità e coi favori. Stese la mano timidamente ai più prossimi – strisciò nelle anticamere, fu prodigo di inchini ai potenti. Qualche persona di rango cominciò a restituirgli le visite entrando nel suo palazzo per la porticina – più tardi il portone si aperse per tutti. – Ecco un uomo riabilitato, un uomo influente, un uomo di considerazione – Era egli felice? – Una stolta domanda – e voi che la proponete, osereste asserire di esser felici? – Quella porzione di male che si aggrava su ciascun individuo della specie umana, pel signor De Mauro era la coscienza del suo passato, era il non esser capace di dimenticare egli stesso ciò che la società, per lo meno in apparenza, aveva potuto dimenticare. Da ciò una inquietudine vaga, una perpetua diffidenza. Non osava persuadersi che qualcuno gli fosse amico. Un'occhiata meno franca lo metteva in sospetto – un freddo saluto lo irritava come un insulto. Odiava senza ragione. Delle voci sinistre giungevano qualche volta al suo orecchio, lo assalivano di fianco come pugnali. – Dopo la riscossa del 1859 passò dei giorni affannosi – il suo contegno divenne più umile, tentò sulle prime di eclissarsi. Nel fondo del cuore egli deplorò come propria sventura la cacciata degli austriaci – e nondimeno fu tra i primi a inalberare la bandiera nazionale sul terrazzo della sua casa, e a versare delle somme cospicue a pro della patria. – Erano le elargizioni della paura – ma il contante produceva un benefizio reale – il nuovo governo e il buon popolo accettarono quei tributi generosi come prove di patriottismo. – Nullameno – ci duole il dirlo – il signor De Mauro non cessò mai di rimpiangere segretamente i tedeschi. Le trepidazioni della sua coscienza erano meno sensibili prima del 1859 – ed ora, la libertà della stampa, ciò che egli chiamava la sfrenatezza del popolo, costituivano per lui una minaccia perenne. Senza questa minaccia, egli poco o nulla si sarebbe preoccupato delle nuove condizioni politiche del paese, fors'anche avrebbe diviso sinceramente le gioie della patria redenta nel solo senso che per lui era possibile: «governo nuovo, risorse nuove!»

IV

Per completare questo personaggio che avrà pochissima parte nel nostro racconto, ma che pure ne è in certo qual modo la causa efficiente, non ci resta che aggiungere alcuni particolari intorno ai suoi rapporti di famiglia.

Nell'anno 1847, quando era povero e incerto tuttavia del proprio avvenire, il signor De Mauro condusse in moglie una vedova di circa venticinque anni, la quale gli portava in dote una rara bellezza, un cuore di angelo e circa seimila lire fra danaro e masserizie. A quell'epoca, pel De Mauro, era un matrimonio di speculazione; quelle seimila lire dovevano costituire la prima base della sua fortuna.

Sarebbe malignità soverchia attribuire all'influenza di quel piccolo capitale l'affezione che il signor De Mauro portò sempre alla moglie. Egli non cessò mai di amarla anche in mezzo al tumulto degli affari ed al tripudio affannoso delle ricchezze. Si chiamava Serafina. Una donna di spirito mediocre, docile e mansueta come un agnello. Dopo aver condivise le angustie e le agitazioni del marito negli anni più disagiati, quella rapida e abbagliante prosperità che dal 1848 in appresso si era veduta sviluppare intorno a lei, le pareva miracolosa. Ne era quasi sgomentata – e quegli ingenui sgomenti formavano la gioia del marito. Il signor De Mauro, nelle sorprese di sua moglie, in quelle enfasi di maraviglia che toccavano i confini della paura, gustava doppiamente i propri trionfi. Egli era il giuocatore di prestigio che dopo aver gettata nel bossolo una moneta di rame, ne fa uscire gli scudi a centinaia fra lo stupore e l'applauso del pubblico. Per il signor De Mauro il pubblico era la moglie – la buona Serafina vedeva l'oro moltiplicarsi, crescere la agiatezza, e sempre, all'annunzio di nuove fortune, rideva e tremava per impeto convulso. Qualche volta, fissando nel marito i suoi grandi occhi pieni di spavento, ella non poteva trattenersi dallo esclamare: saresti tu mai il diavolo!.. A tali parole il marito si sentiva rapire dalla gioia. —