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La Carbonaria

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SCENA XII

Dottore, Filigenio, Panfago, Muto.

Dottore. Férmati, Filigenio, non entrare ancora: avemo a trattare alcune cose insieme.

Filigenio. Pur hai animo comparirmi dinanzi, giuntatore: non vedo io che porti scolpita nella fronte la sfacciataggine?

Dottore. Che hai tu meco? vuoi esser forse il primo a gridare, per mostrar in un certo modo che abbi ragione o dar qualche color di giustizia alla tua ingiustizia?

Filigenio. Mi dái ad intendere che lo schiavo era la bagascia di mio figlio, ed era il figlio del re di Borno, qual con inganno m’hai tolto di mano per farlo essere decapitato?

Dottore. Che re di Borno, che decapitare? io non so se tu stai ne’ tuoi sensi. Io pensava riscattar la mia innamorata Melitea; poi, avendola condotta a casa e lavatagli la faccia, ho ritrovato un maschio e altro di quel che pensava: eccolo qui.

Filigenio. Chi è dunque?

Dottore. Tanto ne so io quanto tu.

Filigenio. O Dio, che girandole son queste? che vuoi tu dunque da me?

Dottore. Che ti togli il tuo schiavo e mi torni i miei cento scudi.

Filigenio. Che so io se lo schiavo che m’hai tolto di casa sia quel che mi rimeni?

Dottore. Che so io che Melitea che fu portata in casa vostra non sia stata scambiata e posto costui in suo luogo?

Filigenio. Eccomi diversamente incappato in una lunga rete di artifici: e quanto piú cerco svilupparmene, piú mi ci trovo dentro, senza trametter tempo di mutar consiglio. Se tu non stavi sicuro che fusse quella che desiavi, a che venire a chiederlami con tanta voglia?

Dottore. E se non stavi securo che fusse l’innamorata di tuo figlio, perché subito non consignarlami?

Filigenio. Io dubito che con l’arte non vogliate schernir l’arte. Ma vien qua: chi sei tu che ti hai lasciato vendere? perché non rispondi? di’, parla. Sta saldo, come se a lui non dicessi.

Panfago. Non vedi che con le mani fa ufficio della lingua, e con tacito parlar dice che non sa nulla?

Dottore. Non so che voglia dir, io. Panfago, dove vai?

Panfago. Questo è quel pazzo di poco anzi, nol conoscete?

Dottore. Certo che mi par quello: ride, salta e cava fuor la lingua.

Panfago. Scampa, dottore, ché non ti còglia un’altra volta.

Filigenio. Vien qui. Dimmi: chi sei tu? parlavi poco anzi come un filosofo; come hai or cosí perduta la lingua? Se non rispondi, ti rompo la testa. Oimè, oimè; aiuto, aiuto, ché costui non m’ammazzi! Chi mi ha portato costui dinanzi? a me con beffe? sarò uomo da vendicarmene.

ATTO V

SCENA I

Capitano de birri, Forca, Alessandro, Pirino, Panfago.

Capitano. Eccoci qui apparecchiati a servirvi.

Forca. Or ponetevi qui in agguato; e passando quel furfante, lo pigliarete e strascinatelo in prigione.

Pirino. Ecco Alessandro. La cosa va bene.

Forca. Tolto che voi l’arete, andremo in casa sua, che quivi troveremo le vesti e le robbe che ha rubate, e le porteremo in Vicaria.

Capitano. Cosí faremo.

Forca. Eccolo che giá viene.

Panfago. Quel maledetto pazzo ha mancato poco a strangolarmi: ho passato un gran pericolo.

Forca. (In un maggior incorrerai).

Panfago. Son stato tutto oggi in travaglio, e non ho potuto tòrre un maledetto boccone.

Forca. (Via piú gran travaglio ti sta apparecchiato, e non cenerai per questa notte, ché dormirai in un criminale).

Panfago. Quel dottoraccio sta arrabbiato, ché non ha trovato la sua innamorata: né ha cenato egli né ha fatto cenar me.

Forca. O voi, togliete questo ladro traditore.

Panfago. Io ladro, eh? voi m’avete rubbato il pasto, e io sono il ladro! Che volete da me?

Forca. Lo saprai quando starai attaccato alla corda, e il confessarai a tuo marcio dispetto.

Panfago. Lasciate le mani voi: perché mi ligate?

Alessandro. Legatelo bene che non vi scappi; ché non è questa la prima volta che ha patiti simili affronti. Vuoi tu negar, ladronaccio, che non sia entrato in casa mia, rubbatemi certe vesti da raguseo d’un mio amico, quelle di uno schiavo e molte cose da mangiare, come provature, salcicciotti e barili di malvaggia?

Panfago. Quelle vesti con le quali v’ho servito oggi e che voi mi prestaste?

Alessandro. Io non so chi tu sia, e non t’ho visto fin ora: questi sono i testimoni che ti han visto entrare in casa mia, rubbarle e portarle via.

Panfago. Ed è questo atto da gentiluomo? Cosí vi sète concertati con Forca, per vendicarvi dell’offesa che v’ho fatta.

Alessandro. Che offesa? Capitano, ecco la sua casa: voi lo serrate qui ligato; e voi altri entrate e cercate la casa, ché le trovarete, se non l’ará sbalzate in altra parte.

Panfago. O Dio, che cosa avete inventato contro di me! Troppo acre vendetta per sí picciola offesa.

Alessandro. Che vendetta, ladronaccio? pensi con le tue paroline scappare ch’oggi il boia non ti abbia a far una pavana senza suoni sovra le spalle?

Forca. Ecco le vesti, ecco le robbe toltemi! cosí, furfantaccio, s’entra nelle case di gentiluomini e si vuotano le casse? Su, strascinatelo in Vicaria.

Panfago. O Dio, lasciatemi tor prima un bicchiero di vino, ché la gola mi sta tanto asciutta che non ne può uscir parola.

Forca. Te la stringerá il capestro, la gola.

Panfago. O gola, mi farai morir appiccato per la gola.

Alessandro. Su, caminate, andate via.

Panfago. Vorrei sapere il vostro disegno, io.

Alessandro. Il nostro disegno? non lasciarti mai finché tu non muoia appiccato.

Panfago. Merito questo io per avervi cosí ben servito?

Alessandro. Non si trova gastigo che basti a meritar la tua ladreria. Capitano, di grazia, fatelo strascinare, ch’io mi muoio di voglia di vederlo appicato presto.

Panfago. Oimè, oimè, perché con tanta fretta?

Alessandro. Perché cosí meritano i pari tuoi.

SCENA II

Raguseo, Mangone, Isoco.

Raguseo. Io non so che hai tu meco né che cerchi da me: che sai tu chi sia io, se questa è la prima volta che pongo il piede in questa terra? e tu come una infernal furia mi persegui!

Mangone. Vo’ che mi restituisca la mia robba, poiché per tuo conto io son stato miseramente assassinato.

Raguseo. O che tu sei infernetichito o devi star ubbriaco, poiché cerchi da un uomo che mai vedesti, che ti restituisca la tua robba.

Mangone. Io non ho visto te, ma sí ben il tuo fattore che, vendutomi un schiavo in tuo nome, m’ha rubbata la schiava mia.

Raguseo. Io non ho fattori, ma disfattori sí bene; e il fattore servo e mastro di casa e padron della nave son io stesso.

Mangone. Tanto è: egli mandatomi da te venne a cercarmi a casa, con dir che volevate tener conto meco di vendere e comprar schiavi.

Raguseo. Come si chiamava quell’uomo?

Mangone. Maltivenga.

Raguseo. Mal ti venga e mille cancheri e mille ruine!

Mangone. E non contento di avermi rubbata la mia schiava, per svillaneggiarmi mi mandasti un presente pieno di furfanterie, con dirmi ch’eran le miglior robbe di Raguggia.

Raguseo. Le robbe di Raguggia son buone: e stimo che le robbe di Napoli, come tu sai, sieno piene di furfantarie e di sporchezze; e se tutti i napolitani sono come tu sei, dal cattivo saggio che me ne dái, son uomo da tornarmene in nave or ora, far vela e girmene all’Indie nuove, per non aver a far con simili uomini.

Mangone. Qui in Napoli avemo buona ragione.

Raguseo. A me par che ve ne sia molto poca; perché tu mi richiedi di cose senza ragione, mi molesti con poca ragione e mi provochi a ira con molta ragione.

Mangone. Oh, seria bella certo, ch’essendo tu solo e forastiero, senza aver alcuno per te, volessi vincer me che ho parenti e amici nella mia terra.

Raguseo. Dimmi, ch’è l’arte tua?

Mangone. Comprare schiavi e schiave belle e venderle poi a’ giovani che se n’innamorano.

Raguseo. Come se dicessi ruffiano.

Mangone. Come se tu lo dicessi e io ci fussi. Non mi vergogno dell’arte mia; ma qual arte è la tua?

Raguseo. Di corseggiar mari e lidi de’ nemici e andar facendo prede.

Mangone. Come si dicessi un spogliamari, saccheggialidi, cacciator d’uomini; come si dicessi un ladro publico.

Raguseo. Piacesse a Dio che il mar ben spesso non spogliasse e rubasse me!

Mangone. Or tu che osi rubar i lidi e i mari e gli stessi ladri, hai osato rubar ancor a me.

Raguseo. O ruffiano, lassemi stare.

Mangone. O ladro de’ ladri publichi, tornami quel che m’hai rubato.

Raguseo. Un corsaro si chiama soldato e non ladro.

Mangone. Tu sei un di quei soldati che non dái batterie se non alle case private e alle porte delle botteghe.

Raguseo. O fussi incontrato piú tosto con la nave in un scoglio che in costui!

Mangone. O fussi venuto piú tosto in Napoli un diavolo che tu! Ma qui arai condegno castigo delle tue opere, ché vendi i cristiani per turchi e per mori.

Raguseo. E tu fai peggio.

Mangone. Qui ti saranno scontati i tuoi ladronecci.

Raguseo. E a te le tue poltronerie.

Mangone. E come un publico ladro morirai nell’aria publica.

Raguseo. E tu per il tuo mestiero nel foco.

 

Mangone. E tu che vai pescando gli uomini per lo mare, sarai pescato dal mare.

Raguseo. E tu lapidato da’ giovani che rovini.

Mangone. E se pur il mar ti rifiuta per un cattivo guadagno, un giorno i turchi ne faranno vendetta per me, ché sarai impalato.

Raguseo. Ed il boia la fará per me, ché sarai arrostito.

Mangone. Mi pensava aver fatto un gran guadagno, che cotal mercatante fusse venuto ad alloggiare in casa mia: bella mercanzia che hai portata in Napoli!

Raguseo. Ci ho portata una gran mercanzia di legne; e se le cerchi, te ne darò a buon mercato quante ne cerchi.

Mangone. Orsú, vieni innanzi al Reggente.

Raguseo. Tu cerchi briga e n’arai.

Mangone. Se non vieni di bona voglia, ti strascinarò a forza.

Raguseo. Dubito che lo strascinato sarai tu.

Isoco. Io son stato tacito insino adesso, stimando che la tua importunitá avesse pur a far qualche fine; ma veggio che sei soverchiamente temerario, e dubito che non facci temerario ancor me. Ma forse non v’intendete l’un l’altro.

Mangone. La ragione che ho, e l’importanza del fatto che importa cinquecento ducati, faranno o che io uccida costui o che sia ucciso da lui, perché non è cosa che ne possa passare.

Isoco. Che costui non sia stato mai piú in Napoli e questa la prima volta che sia sbarcato di nave, ne son buon testimone.

Mangone. O che testimone! Mi venne un uomo da parte di costui e mi chiamò per nome – Mangone! – e dissemi: – Poiché sei mercadante di schiavi, il mio padron Rastello Fallatutti di Monteladrone …

Raguseo. Menti per la gola, ché rastello di Monteladrone sei tu!

Isoco. Lascia dire.

Mangone. … ne ha portato una nave, e si vuol accomodar teco.

Isoco. Férmati, di grazia. Tu sei colui che vendi schiavi e schiave, che ti chiami Mangone?

Mangone. Io son: mal per me!

Isoco. Lasciamo il primo e cominciamo un altro ragionamento piú importante. Son d’intorno a tre anni che certi uscocchi depredando i lidi della Schiavonia, da una villa dove io abitava mi tolsero una giovane bellissima; e mi fu riferito che la vendero in Napoli per ducento ducati ad un mercadante di femine, detto Mangone.

Mangone. È vero; e si chiama Melitea.

Isoco. Non, no: quella si chiamava Alcesia.

Mangone. Ho inteso ben dir da lei che si chiamava Alcesia; ma allora che la comprai, si chiamava Melitea.

Isoco. Che n’è di questa giovane?

Mangone. Di questa giovane ragioniamo ora, che sotto nome di costui m’è stata sbalzata da casa.

Isoco. Sappi che quella Melitea, che tu dici, è donna libera e gentildonna cristiana e non schiava; è figlia di un napolitano molto ricco e importante.

Mangone. Fusse alcuna altra trappola ordita tra voi, per rubbarmi alcuna altra cosa?

Isoco. Sappi che a questo effetto son venuto qui in Napoli, per saper nuova di suo padre, se sia vivo o morto; e qui non son per tòrti alcuna cosa, anzi per giovarti: ché ritrovandosi lei e suo padre, sarai per averne una buona mancia. Ma, di grazia, sapete voi s’ella si ricorda del nome di suo padre?

Mangone. Di suo padre no, ma ben d’un suo balio detto Isoco, e d’una sua balia detta Galasia.

Isoco. Io son Isoco, e mia moglie, giá morta, era detta Galasia. Ma oh, piaccia a Dio ch’essendo venuto qui per un fatto che non pensava espedirlo in un anno, lo spedissi in un giorno e liberassi l’anima di mia moglie e la mia da cosí fatta angoscia! Io vo’ venir teco per saper nuova di costei, e ritrovata, so che ti sará di non poco utile.

Mangone. Pur che mi sia utile, eccomi pronto a far quanto comandi.

Isoco. Di grazia, lasciamo il padron della nave che vada per i suoi affari, ché quando saprai ch’egli abbia errato in alcuna cosa di quel che ti duoli di lui, io voglio rifar il danno.

Raguseo. Isoco, a dio.

SCENA III

Dottore, Mangone, Isoco.

Dottore. Mangone, hai saputa alcuna novella di Melitea?

Mangone. Sí bene, anzi di cose che voi non sapete.

Dottore. È dunque in poter di Pirino?

Mangone. Dico altro che voi pensate.

Dottore. Che cosa dunque?

Mangone. Melitea è libera e gentildonna.

Dottore. Che non sia qualche nuovo inganno ordito da Forca, per schernir me dello amore e del desiderio di aver figliuoli?

Mangone. L’uomo che qui vedete, dice ch’è napolitana, figlia di uomo nobile e di gran qualitade.

Dottore. Certo che m’è carissimo, ch’essendo di buon legnaggio e avendola per moglie, arò meno reprensori; e se per rispetto del mondo faceva prima resistenza alle mie voglie, or le farò correre a tutto freno. Gentiluomo, vi prego a narrarmi quanto sapete di lei.

Isoco. Dico che questa giovane fu rapita dalla sua balia e portata in Raguggia sua patria. La cagion della rapina fu che, nascendo la bambina, morí sua madre nel parto; e restando la balia col padre in casa, o che si fusse innamorato di lei o che fusse intemperante di sua propria natura, la ricercò piú volte dell’onor suo. Ed avendogli ella piú volte detto che nel fatto dell’onor non volea esser molestata in conto veruno, che altrimente si partirebbe, ed egli non restando di noiarla, non s’arrestò di quanto l’avea minacciato: onde, per fuggir gli disonesti assalti del padrone, se ne fuggí di casa sua e se ne venne con la bambina in Raguggia, dove dimorò tre anni. Abitando in un suo podere alla costiera della marina, un vassello de scocchi la rubbò e la vendé qui in Napoli ad uno mercatante di schiave, che si chiama Mangone.

Dottore. Come si chiamava la balia?

Isoco. Galasia.

Dottore. Galasia? oimè, che dici? e può esser questo? si ricorda la fanciulla del nome di suo padre e di sua madre?

Isoco. La fanciulla non se lo poteva ricordare, che non giongeva a duo anni. Ma io l’ho inteso dir mille volte da Galasia che la madre si chiamava Brianna e il padre il dottor Carisio.

Dottore. O Dio, che intendo? son desto o sogno? Ma tu come sai questo? a che effetto sei venuto qui in Napoli?

Isoco. Io lo so, che quando Galasia gionse in Raguggia, si maritò meco; e siam vissuti insieme dodici anni, pensandomi sempre che questa fanciulla fusse sua figlia, d’un suo primo marito. I mesi a dietro venne a morte; e chiamatomi, mi pregò caldamente – e ne volse la fede per iscarico della sua conscienza – che fusse venuto in Napoli e cercato se fusse vivo quel dottore, e raccontargli il suo furto, accioché n’andasse scarica e contenta all’altra vita; la qual cosa le ho promesso e osservato.

Dottore. O Dio, non potrei esser oggi il piú felice uomo del mondo! Dimmi, di grazia, che effigie avea quella fanciulla?

Isoco. Era di viso un poco lunghetto, di guardo austero ma dolce, di carnagione mescolata di rosso e latte, di capelli com’io, di maniere assai signorili; e mostrava in tutte le cose esser di sangue nobilissimo, di animo generoso e d’ingegno vivace.

Dottore. Questa è dessa, certissimo; ché i segni che mostrava in quelle piccole membra, davan presagio che nella compita etá non dovesse riuscir altrimente che le sue fattezze. Avea ella alcun segnale nella persona?

Isoco. Una macchia rossa nella mammella sinistra come di un vovo; e diceva la balia che fu una gola che venne a sua madre di quei frutti, e venne a caso a toccarsi alla mammella.

Dottore. Questa è dessa: non bisogna piú dubitare; e io son quel dottor Carisio che tu dici. Ma dimmi, come è stata allevata la fanciulla?

Isoco. Questo posso ben giurarvi che, se ben in povera casa come la nostra, non avria potuto esser meglio allevata nella vostra istessa: appena ave avuto nella mia casa quella libertá che si conveniva all’etá fanciullesca; ed ella si mostrò sempre gelosissima e rigida defenditrice dell’onor suo.

Dottore. La rapina, la povertá, la lontananza da’ suoi parenti, la violenza de’ corsari liberano la sua volontá d’ogni colpa di disonestá, e massime in lei che per la sua soverchia bellezza chiama a sé la violenza.

Isoco. Non dite cosí; ché la generositá dello aspetto, la maestá della bellezza sforza ancor le genti barbare a non cercarle cosa contra il suo volere: e io vi giuro – poiché mi fu referito – che i corsari che me la ruborno, la vendero come la tolsero da mia casa, con speranza di cavarne piú guadagno.

Mangone. Ed io vi assicuro di questo: ch’eglino, volendomela vendere per vergine cinquanta ducati di piú, la feci veder dalle commari, ed essendomi cosí affermato, li sborsai ducento ducati; e in mia casa è stata cosí conservata come uscí dal corpo di sua madre.

Dottore. Che costumi mostrava in quella sua etá?

Isoco. Di grande animo ne’ pericoli, ardita con modestia, di nobiltá umile e onoratissima nella bellezza: in un picciol corpo un gran spirito. E sappiate che di queste arti niuno le fu maestro; ché dalle fascie si portò seco simili parti da far invidia a qual si voglia principalissima gentildonna.

Dottore. Io del suo acquisto e del non macchiato fior della sua verginitá per molto stupore son fuor di me stesso. O infinita Providenza, con quanti vari accidenti hai sospesi i nostri amori! per non farci accoppiare insieme, e la sua onestá avesse pericolato con il suo padre, hai fatto che Forca e Pirino con una gentil trappola abbian schernito i miei desidèri e involatamela dal seno.

Isoco. Di grazia, fatemela vedere, ché da’ segni del suo conoscermi conoscerete esser vero quanto vi ho detto.

Dottore. Su, Mangone, diasi ordine di ritrovarla: non si perda piú tempo. Ma ecco Filigenio: viene a tempo per saper nuova di suo figlio.

Isoco. Voi cercate di costei e datemi aviso di quel che sará.

SCENA IV

Filigenio, Dottore, Isoco.

Filigenio. Veggio venir il dottor verso me: qualche altra burla aranno scoverta di Forca: non sará per finir tutto oggi.

Dottore. Filigenio, io vengo a ragionar di cose assai differenti dalle passate, alle quali mai non pensaste: ora non è tempo di amori, ma di compimenti di onore: e ben sapete che dove va l’onore, poco si prezza la robba e la vita insieme.

Filigenio. Evi alcuna altra terza di cambio di farmi pagare?

Dottore. Ritenetevi ne’ termini della prudenza e della creanza, e ascoltate prima, ché non sapendo che abbiamo a narrare, potreste prender error per parlar troppo.

Filigenio. Evi alcuna altra cosa scoverta di mio figlio?

Dottore. Io vengo or per coprir gli errori di vostro figlio e non scoprirgli al mondo piú che sono. Sappiate che Melitea rapita da vostro figliuolo, or non è corteggiana, come stimavate, ma gentildonna libera e onorata.

Filigenio. Come può esser questo, essendo stata tanto tempo in casa di un ruffiano?

Dottore. Di cosí picciola cosa vi meravigliate? vi sono ancora delle cose maggiori. Vi dico in somma che è mia figliuola; che mi fu rapita dalla balia, sendo piccina; e or l’abbiamo riconosciuto, come poi piú minutamente restarete sodisfatto.

Filigenio. Mi rallegro della vostra ventura. Ma che cercate da me?

Dottore. Se ben non ho riconosciuta mia figlia, né so fin ora dove sia, so ben che Forca e vostro figlio l’hanno sbalzata dalla casa di Mangone. Voi sapete che ho tanta robba che posso giovar agli amici e castigar gli inimici; e chi mi toglie lei, mi toglie l’onor mio: e l’onor pone l’uomo in disperazione, e il disperato di se stesso non può aver pietá di alcuno. Son uomo da far che i suoi amori gli costino molto cari, e a voi, a Forca e a tutti i complici; e sará piú duro il vero male che l’apparenza del falso bene. Nelle cose importanti si conoscono i nobili da’ plebei: se faremo alla scoverta, parlerò a Sua Eccellenza, e con il braccio della giustizia, col favore degli amici e de’ parenti e de’ danari ci offenderemo tra noi, e la cosa si pubblicará; e il meglio sarebbe la secretezza possibile. Bastivi alfin questo, che son padre e son uomo onorato.

Filigenio. Per dirvi la veritá, io non so cosa alcuna de’ fatti suoi: e tanto ne so ora, quanto da voi me n’è stato referito; che ben sapete che i figli si nascondono da’ padri nei loro amori, e noi siamo gli ultimi a sapergli. Ma che si rimedino gli errori, io lo desidero piú che voi.

Dottore. Come dunque faremo per rimediargli?

Filigenio. Ecco, ecco il secretario de’ suoi pensieri: ecco qua il domestico, il maiordomo maggiore, l’inventore e l’essecutore de’ suoi garbugli.

 

Teised selle autori raamatud