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NOVELLA DECIMA

Due sanesi amano una donna comare dell’uno: muore il compare e torna al compagno secondo la promessa fattagli e raccontagli come di là si dimori.

Restava solamente al re il dover novellare; il quale, poi che vide le donne racchetate, che del pero tagliato che colpa avuta non avea si dolevano, incominciò.

Manifestissima cosa è che ogni giusto re primo servatore dee essere delle leggi fatte da lui, e se altro ne fa, servo degno di punizione e non re si dee giudicare: nel quale peccato e riprensione a me, che vostro re sono, quasi costretto cader conviene. Egli è il vero che io ieri la legge diedi a’ nostri ragionamenti fatti oggi con intenzione di non voler questo dì il mio privilegio usare ma, soggiacendo con voi insieme a quella, di quello ragionare che voi tutti ragionato avete. Ma egli non solamente è stato ragionato quello che io imaginato avea di raccontare, ma sonsi sopra quello tante altre cose e molto più belle dette, che io per me, quantunque la memoria ricerchi, ramentar non mi posso né conoscere che io intorno a sì fatta materia dir potessi cosa che alle dette s’appareggiasse. E per ciò, dovendo peccare nella legge da me medesimo fatta, sì come degno di punigione infino a ora a ogni ammenda che comandata mi fia mi proffero apparecchiato, e al mio privilegio usitato mi tornerò. E dico che la novella detta da Elissa del compare e della comare e appresso la bessaggine de’ sanesi hanno tanta forza, carissime donne, che, lasciando star le beffe agli sciocchi mariti fatte dalle lor savie mogli, mi tirano a dovervi contare una novelletta di loro: la quale, ancora che in sé abbia assai di quello che creder non si dee, nondimeno sarà in parte piacevole a ascoltare.

Furono adunque in Siena due giovani popolari, de’ quali l’uno ebbe nome Tingoccio Mini e l’altro fu chiamato Meuccio di Tura, e abitavano in Porta Salaia; e quasi mai non usavano se non l’un con l’altro, e per quello che paresse s’amavano molto. E andando, come gli uomini vanno, alle chiese e alle prediche, più volte udito avevano e della gloria e della miseria che all’anime di color che morivano era, secondo li lor meriti, conceduta nell’altro mondo; delle quali cose disiderando di saper certa novella né trovando il modo, insieme si promisero che qual prima di lor morisse, a colui che vivo fosse rimaso, se potesse, ritornerebbe e direbbegli novelle di quello che egli disiderava: e questo fermaron con giuramento.

Avendosi adunque questa promession fatta e insieme continuamente usando, come è detto, avvenne che Tingoccio divenne compare d’uno Ambruogio Anselmini, che stava in Camporeggi, il quale d’una sua donna chiamata monna Mita aveva avuto un figliuolo. Il quale Tingoccio insieme con Meuccio visitando alcuna volta questa sua comare, la quale era una bellissima e vaga donna, non obstante il comparatico s’inamorò di lei; e Meuccio similemente, piacendogli ella molto e molto udendola commendare a Tingoccio, se ne innamorò. E di questo amore l’un si guardava dall’altro, ma non per una medesima ragione: Tingoccio si guardava di scoprirlo a Meuccio per la cattività che a lui medesimo parea fare d’amare la comare, e sarebbesi vergognato che alcuno l’avesse saputo; Meuccio non se ne guardava per questo ma perché già avveduto s’era che ella piaceva a Tingoccio, laonde egli diceva: «Se io questo gli discuopro, egli prenderà gelosia di me, e potendole a ogni suo piacere parlare, sì come compare, in ciò che egli potrà la mi metterà in odio, e così mai cosa che mi piaccia di lei io non avrò.»

Ora, amando questi due giovani come detto è, avvenne che Tingoccio, al quale era più destro il potere alla donna aprire ogni suo disiderio, tanto seppe fare e con atti e con parole, che egli ebbe di lei il piacer suo; di che Meuccio s’accorse bene, e quantunque molto gli dispiacesse, pure, sperando di dovere alcuna volta pervenire al fine del suo disiderio, acciò che Tingoccio non avesse materia né cagione di guastargli o d’impedirgli alcun suo fatto, faceva pur vista di non avvedersene.

Così amando i due compagni, l’uno più felicemente che l’altro, avvenne che, trovando Tingoccio nelle possessioni della comare il terren dolce, tanto vangò e tanto lavorò, che una infermità ne gli sopravvenne; la quale dopo alquanti dì sì l’aggravò forte, che, non potendola sostenere, trapassò di questa vita. E trapassato il terzo dì appresso, ché forse prima non avea potuto, se ne venne, secondo la promession fatta, una notte nella camera di Meuccio e lui, il quale forte dormiva, chiamò.

Meuccio destatosi disse: «Qual se’ tu?»

A cui egli rispose: «Io son Tingoccio, il quale, secondo la promessione che io ti feci, sono a te tornato a dirti novelle dell’altro mondo.»

Alquanto si spaventò Meuccio veggendolo, ma pure rassicurato disse: «Tu sie il ben venuto, fratel mio!», e poi il domandò se egli era perduto.

Al quale Tingoccio rispose: «Perdute son le cose che non si ritruovano: e come sare’ io in mei chi se io fossi perduto?»

«Deh,» disse Meuccio «io non dico così, ma io ti dimando se tu se’ tra l’anime dannate nel fuoco pennace di Ninferno.»

A cui Tingoccio rispose: «Costetto no, ma io son bene, per li peccati da me commessi, in gravissime pene e angosciose molto.»

Domandò allora Meuccio particularmente Tingoccio che pene si dessero di là per ciascun de’ peccati che di qua si commettono, e Tingoccio gliele disse tutte. Poi il domandò Meuccio se egli avesse di qua per lui a fare alcuna cosa. A cui Tingoccio rispose di sì, e ciò era che egli facesse per lui dire delle messe e delle orazioni e fare delle limosine, per ciò che queste cose molto giovavano a quei di là; a cui Meuccio disse di farlo volentieri.

E partendosi Tingoccio da lui, Meuccio si ricordò della comare, e sollevato alquanto il capo disse: «Ben che mi ricorda, o Tingoccio: della comare con la quale tu giacevi quando eri di qua, che pena t’è di là data?»

A cui Tingoccio rispose: «Fratel mio, come io giunsi di là, sì fu uno il qual pareva che tutti i miei peccati sapesse a mente, il quale mi comandò che io andassi in quel luogo nel quale io piansi in grandissima pena le colpe mie, dove io trovai molti compagni a quella medesima pena condannati che io; e stando io tra loro e ricordandomi di ciò che già fatto avea con la comare e aspettando per quello troppo maggior pena che quella che data m’era, quantunque io fossi in un gran fuoco e molto ardente, tutto di paura tremava. Il che sentendo un che m’era dallato, mi disse: «Che hai tu più che gli altri che qui sono, che triemi stando nel fuoco?» «O», diss’io «amico mio, io ho gran paura del giudicio che io aspetto d’un gran peccato che io feci già». Quegli allora mi domandò che peccato quel fosse. A cui io dissi: «Il peccato fu cotale, che io mi giaceva con una mia comare, e giacquivi tanto, che io me ne scorticai». E egli allora, faccendosi beffe di ciò, mi disse: «Va», sciocco, non dubitare, ché di qua non si tiene ragione alcuna delle comari!’; il che io udendo tutto mi rassicurai.» E detto questo, appressandosi il giorno disse: «Meuccio, fatti con Dio, ché io non posso più esser con teco»; e subitamente andò via.

Meuccio, avendo udito che di là niuna ragion si teneva delle comari, cominciò a far beffe della sua sciocchezza, per ciò che già parecchie n’avea risparmiate; per che, lasciata andar la sua ignoranza, in ciò per innanzi divenne savio. Le quali cose se frate Rinaldo avesse sapute, non gli sarebbe stato bisogno d’andar silogizzando quando convertì a’ suoi piaceri la sua buona comare.

CONCLUSIONE

Zefiro era levato per lo sole che al ponente s’avicinava, quando il re, finita la sua novella né altro alcun restandovi a dire, levatasi la corona di testa, sopra il capo la pose alla Lauretta dicendo: – Madonna, io vi corono di voi medesima reina della nostra brigata; quello omai che crederete che piacer sia di tutti e consolazione, sì come donna comanderete —; e riposesi a sedere.

La Lauretta, divenuta reina, si fece chiamare il siniscalco, al quale impose che ordinasse che nella piacevole valle alquanto a migliore ora che l’usato si mettesser le tavole, acciò che poi adagio si potessero al palagio tornare; e appresso ciò che a fare avesse, mentre il suo reggimento durasse, gli divisò. Quindi, rivolta alla compagnia, disse: – Dioneo volle ieri che oggi si ragionasse delle beffe che le donne fanno a’ mariti; e, se non fosse che io non voglio mostrare d’essere di schiatta di can botolo chè incontanente si vuol vendicare, io direi che domane si dovesse ragionare delle beffe che gli uomini fanno alle lor mogli. Ma lasciando star questo, dico che ciascun pensi di dire di quelle beffe che tutto il giorno o donna a uomo o uomo a donna o l’uno uomo all’altro si fanno; e credo che in questo sarà non meno di piacevole ragionare che stato sia questo giorno —; e così detto, levatasi in piè, per infino a ora di cena licenziò la brigata.

Levaronsi adunque le donne e gli uomini parimente, de’ quali alcuni scalzi per la chiara acqua cominciarono a andare, e altri tra’ belli e diritti arbori sopra il verde prato s’andavano diportando. Dioneo e la Fiammetta gran pezza cantarono insieme d’Arcita e di Palemone: e così varii e diversi diletti pigliando, il tempo infino all’ora della cena con grandissimo piacer trapassarono. La qual venuta e lungo al pelaghetto a tavola postisi, quivi al canto di mille uccelli, rinfrescati sempre da una aura soave che da quelle montagnette da torno nasceva, senza alcuna mosca, riposatamente e con letizia cenarono. E levate le tavole, poi che alquanto la piacevole valle ebbero circuita, essendo ancora il sole alto a mezzo vespro, sì come alla loro reina piacque, inverso la loro usata dimora con lento passo ripresero il cammino; e motteggiando e cianciando di ben mille cose, così di quelle che il dì erano state ragionate come d’altre, al bel palagio assai vicino di notte pervennero. Dove con freschissimi vini e con confetti la fatica del picciol cammin cacciata via, intorno della bella fontana di presente furono in sul danzare, quando al suono della cornamusa di Tindaro e quando d’altri suon carolando. Ma alla fine la reina comandò a Filomena che dicesse una canzone; la quale così incominciò:

 
 
Deh lassa la mia vita!
Sarà giammai ch’io possa ritornare
donde mi tolse noiosa partita?
Certo io non so, tanto è ’l disio focoso,
che io porto nel petto,
di ritrovarmi ov’io, lassa, già fui.
O caro bene, o solo mio riposo,
che ’l mio cuor tien distretto,
deh dilmi tu, ché domandarne altrui
non oso, né so cui.
Deh, signor mio, deh fammelo sperare,
sì ch’io conforti l’anima smarrita.
Io non so ben ridir qual fu ’l piacere
che sì m’ha infiammata,
che io non trovo dì né notte loco.
Per che l’udire e sentire e vedere
con forza non usata
ciascun per sé accese nuovo foco,
nel qual tutta mi coco;
né mi può altri che tu confortare
o ritornar la virtù sbigottita.
Deh dimmi s’esser dee e quando fia
ch’io ti trovi giammai
dov’io basciai quegli occhi che m’han morta;
dimmel, caro mio bene, anima mia,
quando tu vi verrai, e col dir «Tosto» alquanto mi conforta.
Sia la dimora corta
d’ora al venire e poi lunga allo stare,
ch’io non men curo, sì m’ha Amor ferita.
Se egli avvien che io mai più ti tenga,
non so s’io sarò sciocca,
com’io or fui a lasciarti partire.
Io ti terrò, e che può sì n’avenga;
e della dolce bocca
convien ch’io sodisfaccia al mio disire.
D’altro non voglio or dire:
dunque vien tosto, vienmi a abracciare,
ché ’l pur pensarlo di cantar m’invita.
 

Estimar fece questa canzone a tutta la brigata che nuovo e piacevole amore Filomena strignesse; e per ciò che per le parole di quella pareva che ella più avanti che la vista sola n’avesse sentito, tenendonela più felice, invidia per tali vi furono ne le fu avuta. Ma poi che la sua canzon fu finita, ricordandosi la reina che il dì seguente era venerdì, così a tutti piacevolemente disse: – Voi sapete, nobili donne e voi giovani, che domane è quel dì che alla passione del nostro Signore è consecrato, il quale, se ben vi ricorda, noi divotamente celebrammo essendo reina Neifile e a’ ragionamenti dilettevoli demmo luogo; e il simigliante facemmo del sabato subsequente. Per che, volendo il buono essemplo datone da Neifile seguitare, estimo che onesta cosa sia che domane e l’altro dì, come i passati giorni facemmo, dal nostro dilettevole novellare ci astegniamo, quello a memoria riducendoci che in così fatti giorni per la salute delle nostre anime adivenne.

Piacque a tutti il divoto parlare della loro reina; dalla quale licenziati, essendo già buona pezza di notte passata, tutti s’andarono a riposare.

GIORNATA OTTAVA

FINISCE LA SETTIMA GIORNATA DEL DECAMERON: INCOMINCIA L’OTTAVA, NELLA QUALE, SOTTO IL REGGIMENTO DI LAURETTA, SI RAGIONA DI QUELLE BEFFE CHE TUTTO IL GIORNO O DONNA A UOMO O UOMO A DONNA O L’UNO UOMO ALL’ALTRO SI FANNO.


INTRODUZIONE

Già nella sommità de’ più alti monti apparivano, la domenica mattina, i raggi della surgente luce e, ogni ombra partitasi, manifestamente le cose si conosceano, quando la reina levatasi con la sua compagnia primieramente alquanto su per le rugiadose erbette andarono, e poi in su la mezza terza una Chiesetta lor vicina visitata, in quella il divino oficio ascoltarono. E a casa tornatisene, poi che con letizia e con festa ebber mangiato, cantarono e danzarono alquanto; e appresso, licenziati dalla reina, chi volle andare a riposarsi poté. Ma avendo il sol già passato il cerchio di meriggio, come alla reina piacque, al novellare usato tutti appresso la bella fontana a seder posti, per comandamento della reina così Neifile cominciò.

NOVELLA PRIMA

Gulfardo prende da Guasparruolo denari in prestanza, e con la moglie di lui accordato di dover giacer con lei per quegli sì gliele dà; e poi in presenza di lei a Guasparruol dice che a lei gli diede, e ella dice che è il vero.

Se così ha disposto Idio che io debba alla presente giornata con la mia novella dar cominciamento, e el mi piace. E per ciò, amorose donne, con ciò sia cosa che molto si sia detto delle beffe fatte dalle donne agli uomini, una fattane da uno uomo a una donna mi piace di raccontarne, non già perché io intenda in quella di biasimare ciò che l’uom fece o di dire che alla donna non fosse bene investito, anzi per commendar l’uomo e biasimar la donna e per mostrare che anche gli uomini sanno beffare chi crede loro, come essi da cui egli credono son beffati. Avvegna che, chi volesse più propriamente parlare, quel che io dir debbo non si direbbe beffa anzi si direbbe merito: per ciò che, con ciò sia cosa debba essere onestissima e la sua castità come la sua vita guardare né per alcuna cagione a contaminarla conducersi (e questo non possendosi, così appieno tuttavia come si converrebbe, per la fragilità nostra), affermo colei esser degna del fuoco la quale a ciò per prezzo si conduce; dove chi per amor, conoscendo le sue forze grandissime, perviene, da giudice non troppo rigido merita perdono, come, pochi dì son passati, ne mostrò Filostrato essere stato in madonna Filippa observato in Prato.

Fu adunque già in Melano un tedesco al soldo, il cui nome fu Gulfardo, pro’ della persona e assai leale a coloro ne’ cui servigi si mettea, il che rade volte suole de’ tedeschi avvenire. E per ciò che egli era nelle prestanze de’ denari che fatte gli erano lealissimo renditore, assai mercatanti avrebbe trovati che per piccolo utile ogni quantità di denari gli avrebber prestata. Pose costui, in Melan dimorando, l’amor suo in una donna assai bella chiamata madonna Ambruogia, moglie d’un ricco mercatante che aveva nome Guasparruol Cagastraccio, il quale era assai suo conoscente e amico: e amandola assai discretamente, senza avvedersene il marito né altri, le mandò un giorno a parlare, pregandola che le dovesse piacere d’essergli del suo amor cortese e che egli era dalla sua parte presto a dover far ciò che ella gli comandasse. La donna, dopo molte novelle, venne a questa conclusione, che ella era presta di far ciò che Gulfardo volesse dove due cose ne dovesser seguire: l’una, che questo non dovesse mai per lui esser manifestato a alcuna persona; l’altra, che, con ciò fosse cosa che ella avesse per alcuna sua cosa bisogno di fiorini dugento d’oro, voleva che egli, che ricco uomo era, gliele donasse, e appresso sempre sarebbe al suo servigio.

Gulfardo, udendo la ’ngordigia di costei, isdegnato per la viltà di lei la quale egli credeva che fosse una valente donna, quasi in odio transmutò il fervente amore e pensò di doverla beffare: e mandolle dicendo che molto volentieri e quello e ogni altra cosa, che egli potesse, che le piacesse; e per ciò mandassegli pure a dire quando ella volesse che egli andasse a lei, ché egli gliele porterebbe, né che mai di questa cosa alcun sentirebbe, se non un suo compagno di cui egli si fidava molto e che sempre in sua compagnia andava in ciò che faceva. La donna, anzi cattiva femina, udendo questo fu contenta, e mandogli dicendo che Guasparuolo suo marito doveva ivi a pochi dì per sue bisogne andar insino a Genova, e allora ella gliele farebbe assapere e manderebbe per lui.

Gulfardo, quando tempo gli parve, se n’andò a Guasparuolo e sì gli disse: «Io son per fare un mio fatto per lo quale mi bisognan fiorini dugento d’oro, li quali io voglio che tu mi presti con quello utile che tu mi suogli prestar degli altri.» Guasparuolo disse che volentieri e di presente gli annoverò i denari.

Ivi a pochi giorni Guasparuolo andò a Genova, come la donna aveva detto; per la qual cosa la donna mandò a Gulfardo che a lei dovesse venire e recare li dugento fiorin d’oro. Gulfardo, preso il compagno suo, se n’andò a casa della donna; e trovatala che l’aspettava, la prima cosa che fece, le mise in mano questi dugento fiorin d’oro, veggente il suo compagno, e sì le disse: «Madonna, tenete questi denari e daretegli a vostro marito quando sarà tornato.»

La donna gli prese e non s’avide perché Gulfardo dicesse così, ma si credette che egli il facesse acciò che il compagno suo non s’accorgesse che egli a lei per via di prezzo gli desse; per che ella disse: «Io il farò volentieri ma io voglio veder quanti sono»; e versatigli sopra una tavola e trovatigli esser dugento, seco forte contenta gli ripose. E tornò a Gulfardo e, lui nella sua camera menato, non solamente quella notte ma molte altre, avanti che il marito tornasse da Genova, della sua persona gli sodisfece.

Tornato Guasparuolo da Genova, di presente Gulfardo, avendo appostato che insieme con la moglie era, se n’andò a lui e in presenza di lei disse: «Guasparuolo, i denari, cioè li dugento fiorin d’oro che l’altrier mi prestasti, non m’ebber luogo, per ciò che io non potei fornir la bisogna per la quale gli presi: e per ciò io gli recai qui di presente alla donna tua e sì gliele diedi, e per ciò dannerai la mia ragione.»

Guasparuolo, volto alla moglie, la domandò se avuti gli avea; ella, che quivi vedeva il testimonio, nol seppe negare ma disse: «Mai sì che io gli ebbi, né m’era ancor ricordata di dirloti.»

Disse allora Guasparruolo: «Gulfardo, io son contento: andatevi pur con Dio, ché io acconcerò bene la vostra ragione.»

Gulfardo partitosi, e la donna rimasa scornata diede al marito il disonesto prezzo della sua cattività: e così il sagace amante senza costo godé della sua avara donna.

NOVELLA SECONDA

Il prete da Varlungo si giace con monna Belcolore, lasciale pegno un suo tabarro; e accattato da lei un mortaio, il rimanda e fa domandare il tabarro lasciato per ricordanza: rendelo proverbiando la buona donna.

Commendavano igualmente e gli uomini e le donne ciò che Gulfardo fatto aveva alla ’ngorda melanese, quando la reina a Panfilo voltatasi sorridendo gl’impose ch’el seguitasse; per la qual cosa Panfilo incominciò.

Belle donne, a me occorre di dire una novelletta contro a coloro li quali continuamente n’offendono senza poter da noi del pari essere offesi, cioè contro a’ preti, li quali sopra le nostre mogli hanno bandita la croce, e par loro non altramenti aver guadagnato il perdono di colpa e di pena, quando una se ne posson metter sotto, che se d’Allessandria avessero il soldano menato legato a Vignone. Il che i secolari cattivelli non possono a lor fare, come che nelle madri, nelle sirocchie, nelle amiche e nelle figliuole con non meno ardore, che essi le lor mogli assaliscano, vendichin l’ire loro. E per ciò io intendo raccontarvi uno amorazzo contadino, più da ridere per la conclusione che lungo di parole, del quale ancora potrete per frutto cogliere che a’ preti non sia sempre ogni cosa da credere.

Dico adunque che a Varlungo, villa assai vicina di qui, come ciascuna di voi o sa o puote avere udito, fu un valente prete e gagliardo della persona ne’ servigi delle donne, il quale, come che legger non sapesse troppo, pur con molte buone e sante parolozze la domenica a piè dell’olmo ricreava i suoi popolani; e meglio le lor donne, quando essi in alcuna parte andavano, che altro prete che prima vi fosse stato, visitava, portando loro della festa e dell’acqua benedetta e alcun moccolo di candela talvolta infino a casa, dando loro la sua benedizione.

Ora avvenne che, tra l’altre sue popolane che prima gli eran piaciute, una sopra tutte ne gli piacque, che aveva nome monna Belcolore, moglie d’un lavoratore che si facea chiamare Bentivegna del Mazzo; la qual nel vero era pure una piacevole e fresca foresozza, brunazza e ben tarchiata e atta a meglio saper macinar che alcuna altra; e oltre a ciò era quella che meglio sapeva sonare il cembalo e cantare L’acqua corre la borrana e menar la ridda e il ballonchio, quando bisogno faceva, che vicina che ella avesse, con bel moccichino e gente in mano. Per le quali cose messer lo prete ne ’nvaghì sì forte, che egli ne menava smanie e tutto il dì andava aiato per poterla vedere; e quando la domenica mattina la sentiva in chiesa, diceva un Kyrie e un Sanctus sforzandosi ben di mostrarsi un gran maestro di canto, che pareva uno asino che ragghiasse, dove, quando non la vi vedea, si passava assai leggiermente; ma pur sapeva sì fare, che Bentivegna del Mazzo non se ne avvedeva, né ancora vicina che egli avesse. E per poter più avere la dimestichezza di monna Belcolore, a otta a otta la presentava: e quando le mandava un mazzuol d’agli freschi, ch’egli aveva i più belli della contrada in un suo orto che egli lavorava a sue mani, e quando un canestruccio di baccelli e talora un mazzuolo di cipolle malige o di scalogni; e, quando si vedeva tempo, guatatala un poco in cagnesco, per amorevolezza la rimorchiava, e ella cotal salvatichetta, faccendo vista di non avvedersene, andava pure oltre in contegno; per che messer lo prete non ne poteva venire a capo.

 

Ora avvenne un dì che, andando il prete di fitto meriggio per la contrada or qua or là zazeato, scontrò Bentivegna del Mazzo con uno asino pien di cose innanzi, e fattogli motto il domandò dove egli andava.

A cui Bentivegna rispose: «Gnaffé, sere, in buona verità io vo infino a città per alcuna mia vicenda: e porto queste cose a ser Bonaccorri da Ginestreto, ché m’aiuti di non so che m’ha fatto richiedere per una comparigione del parentorio per lo pericolator suo il giudice del dificio.»

Il prete lieto disse: «Ben fai, figliuolo; or va con la mia benedizione e torna tosto; e se ti venisse veduto Lapuccio o Naldino, non t’esca di mente di dir loro che mi rechino quelle combine per li coreggiati miei.»

Bentivegna disse che sarebbe fatto; e venendosene verso Firenze, si pensò il prete che ora era tempo d’andare alla Belcolore e di provar sua ventura; e messasi la via tra’ piedi non ristette sì fu a casa di lei; e entrato dentro disse: «Dio ci mandi bene: chi è di qua?»

La Belcolore, che era andata in balco, udendol disse: «O sere, voi siate il ben venuto: che andate voi zaconato per questo caldo?»

Il prete rispose: «Se Dio mi dea bene, che io mi veniva a star con teco un pezzo, per ciò che io trovai l’uom tuo che andava a città.»

La Belcolore, scesa giù, si pose a sedere e cominciò a nettare sementa di cavolini che il marito avea poco innanzi trebbiati. Il prete le cominciò a dire: «Bene, Belcolore, de’ mi tu far sempre mai morire a questo modo?»

La Belcolore cominciò a ridere e a dire: «O che ve fo io?»

Disse il prete: «Non mi fai nulla ma tu non mi lasci fare a te quel che io vorrei e che Idio comandò.»

Disse la Belcolore: «Deh! andate andate: o fanno i preti così fatte cose?»

Il prete rispose: «Sì facciam noi meglio che gli altri uomini: o perché no? E dicoti più, che noi facciamo vie miglior lavorio; e sai perché? perché noi maciniamo a raccolta: ma in verità bene a tuo uopo, se tu stai cheta e lascimi fare.»

Disse la Belcolore: «O che bene a mio uopo potrebbe esser questo? ché siete tutti quanti più scarsi che ’l fistolo.»

Allora il prete disse: «Io non so, chiedi pur tu: o vuogli un paio di scarpette o vuogli un frenello o vuogli una bella fetta di stame o ciò che tu vuogli.»

Disse la Belcolore: «Frate, bene sta! Io me n’ho di coteste cose; ma se voi mi volete cotanto bene, ché non mi fate voi un servigio, e io farò ciò che voi vorrete?»

Allora disse il prete: «Dì ciò che tu vuogli, e io il farò volentieri.»

La Belcolore allora disse: «Egli mi conviene andar sabato a Firenze a render lana che io ho filata e a far racconciare il filatoio mio: e se voi mi prestate cinque lire, che so che l’avete, io ricoglierò dall’usuraio la gonnella mia del perso e lo scaggiale dai dì delle feste che io recai a marito, ché vedete che non ci posso andare a santo né in niun buon luogo, perché io non l’ho; e io sempre mai poscia farò ciò che voi vorrete.»

Rispose il prete: «Se Dio mi dea il buono anno, io non gli ho allato: ma credimi che, prima che sabato sia, io farò che tu gli avrai molto volentieri.»

«Sì,» disse la Belcolore «tutti siete così gran promettitori, e poscia non attenete altrui nulla: credete voi fare a me come voi faceste alla Biliuzza, che se n’andò col ceteratoio? Alla fé di Dio non farete, ché ella n’è divenuta femina di mondo pur per ciò: se voi non gli avete, e voi andate per essi.»

«Deh!» disse il prete «non mi fare ora andare infino a casa, ché vedi che ho così ritta la ventura testé che non c’è persona, e forse quand’io ci tornassi ci sarebbe chi che sia che c’impaccerebbe: e io non so quando e’ mi si venga così ben fatto come ora.»

E ella disse: «Bene sta: se voi volete andar, sì andate; se non, sì ve ne durate.»

Il prete, veggendo che ella non era acconcia a far cosa che gli piacesse se non a salvum me fac, e egli volea fare sine custodia, disse: «Ecco, tu non mi credi che io te gli rechi; acciò che tu mi creda io ti lascerò pegno questo mio tabarro di sbiavato.»

La Belcolore levò alto il viso e disse: «Sì, cotesto tabarro, o che vale egli?»

Disse il prete: «Come, che vale? Io voglio che tu sappi ch’egli è di duagio infino in treagio, e hacci di quegli nel popolo nostro che il tengon di quattragio; e non ha ancora quindici dì che mi costò da Lotto rigattiere delle lire ben sette, e ebbine buon mercato de’ soldi ben cinque, per quel che mi dica Buglietto, che sai che si cognosce così bene di questi panni sbiavati.»

«O sie?» disse la Belcolore «se Dio m’aiuti, io non l’avrei mai creduto: ma datemelo in prima.»

Messer lo prete, che aveva carica la balestra, trattosi il tabarro gliele diede; e ella, poi che riposto l’ebbe, disse: «Sere, andiancene qua nella capanna, ché non vi vien mai persona»; e così fecero.

E quivi il prete, dandole i più dolci basciozzi del mondo e faccendola parente di messer Domenedio, con lei una gran pezza si sollazzò: poscia partitosi in gonnella, che pareva che venisse da servire a nozze, se ne tornò al santo.

Quivi, pensando che quanti moccoli ricoglieva in tutto l’anno d’offerta non valeva la metà di cinque lire, gli parve aver mal fatto e pentessi d’avere lasciato il tabarro e cominciò a pensare in che modo riaver lo potesse senza costo. E per ciò che alquanto era maliziosetto, s’avisò troppo bene come dovesse fare a riaverlo, e vennegli fatto: per ciò che il dì seguente, essendo festa, egli mandò un fanciullo d’un suo vicino in casa questa monna Belcolore, e mandolla pregando che le piacesse di prestargli il mortaio suo della pietra, per ciò che desinava la mattina con lui Binguccio dal Poggio e Nuto Buglietti, sì che egli voleva far della salsa. La Belcolore gliele mandò.

E come fu in su l’ora del desinare, el prete appostò quando Bentivegna del Mazzo e la Belcolor manicassero; e chiamato il cherico suo gli disse: «Togli quel mortaio e riportalo alla Belcolore, e di’: «Dice il sere che gran mercé, e che voi gli rimandiate il tabarro che il fanciullo vi lasciò per ricordanza.» Il cherico andò a casa della Belcolore con questo mortaio e trovolla insieme con Bentivegna a desco che desinavano; quivi posto giù il mortaio fece l’ambasciata del prete.

La Belcolore udendosi richiedere il tabarro volle rispondere; ma Bentivegna con un mal viso disse: «Dunque toi tu ricordanza al sere? Fo boto a Cristo che mi vien voglia di darti un gran sergozzone: va rendigliel tosto, che canciola te nasca! e guarda che di cosa che voglia mai, io dico s’e’ volesse l’asino nostro, non ch’altro, non gli sia detto di no.»

La Belcolore brontolando si levò, e andatasene al soppediano ne trasse il tabarro e diello al cherico e disse: «Dirai così al sere da mia parte: «La Belcolor dice che fa prego a Dio che voi non pesterete mai più salsa in suo mortaio: non l’avete voi sì bello onor fatto di questa.»

Il cherico se n’andò col tabarro e fece l’ambasciata al sere; a cui il prete ridendo disse: «Dira’le, quando tu la vedrai, che s’ella non ci presterà il mortaio, io non presterò a lei il pestello; vada l’un per l’altro.»

Bentivegna si credeva che la moglie quelle parole dicesse perché egli l’aveva garrito, e non se ne curò; ma la Belcolore venne in iscrezio col sere e tennegli favella insino a vendemmia. Poscia, avendola minacciata il prete di farnela andare in bocca del lucifero maggiore, per bella paura entro, col mosto e con le castagne calde si rappatumò con lui, e più volte insieme fecer poi gozzoviglia. E in iscambio delle cinque lire le fece il prete rincartare il cembal suo e appiccovvi un sonagliuzzo, e ella fu contenta.