Loe raamatut: «Per Sempre È Tanto Tempo»
PER SEMPRE
È
TANTO TEMPO
Per Sempre 1
PATRICIA MORENZ
Traduzione italiana Valeria Bragante
Titolo originale: Para siempre es mucho tiempo
Para siempre, 1
© 2020, Patricia Morenz
©1a Edizione italiana, 2020
Tutti i diritti riservati.
Illustrazione: Camila “Tsuki” Arévalo
Tutti i nomi, i personaggi, i luoghi e gli avvenimenti di questo romanzo sono prodotti dell’immaginazione dell’autrice, o sono utilizzati per mera finzione.
Qualunque somiglianza con persone vive o decedute è pura coincidenza.
INDICE
Pagina del titolo
Diritto d'autore
Dedizione
Prologo
Capitolo 1
Capitolo 2
Capitolo 3
Capitolo 4
Capitolo 5
Capitolo 6
Capitolo 7
Capitolo 8
Capitolo 9
Capitolo 10
Capitolo 11
Capitolo 12
Capitolo 13
Capitolo 14
Capitolo 15
Capitolo 16
Capitolo 17
Capitolo 18
Capitolo 19
Capitolo 20
Capitolo 21
Capitolo 22
Capitolo 23
Capitolo 24
Capitolo 25
Capitolo 26
Capitolo 27
Capitolo 28
Capitolo 29
Capitolo 30
Capitolo 31
Capitolo 32
Capitolo 33
Capitolo 34
Epilogo
Prossimo libro
Ringraziamenti
Informazioni sull'autrice
Contatti
A quei primi amori che non si dimenticano mai,
i più sinceri.
PROLOGO
«I biscotti che fa tua madre sono i migliori» assicurò Jake assaporando quelli che gli avevo portato.
«Lo so … Mia mamma è la cuoca migliore» e poi precisai, «anche la tua mamma cucina molto bene.»
«Certo, ma questo» indicò il biscotto con scaglie di cioccolato che teneva nell’altra mano, «questo è a un altro livello.»
Restammo in silenzio mentre masticavamo, il pomeriggio era perfetto sulla casa sull'albero che c’era nella sua proprietà. Suo padre voleva abbatterla quando si trasferirono qui, anche prima che noi nascessimo, ma ci ripensò vedendo che a Scott – fratello maggiore di Jake – piaceva molto; lui era sempre stato il suo figlio prediletto, lo notai negli anni, dato che la casa rimase intatta. Adesso, tuttavia, Scott aveva molti amici ed era troppo cool per passare il suo tempo qui, quindi era diventata il nostro rifugio.
«Come vanno le cose con i tuoi genitori?» chiese Jake, rompendo il silenzio.
«Bene» risposi facendo spallucce «Bene per quanto possibile … e i tuoi genitori?»
«Bene» disse ripetendo il gesto con le spalle «Bene per quanto possibile.»
Lo facevamo spesso. Ripetevamo le nostre domande e risposte, ci guardavamo sorridendo. Entrambi sapevamo ciò che nascondevano queste parole e riuscivamo a capirci anche senza dire niente.
Erano mesi che a casa le cose non andavano bene e lo avevo raccontato a Jake; lui era il mio migliore amico. Anche se avevamo solo quasi dieci anni, tutta la mia vita ruotava intorno a lui, non ricordo nemmeno quando lo conobbi, perché lo conoscevo da sempre. Eravamo vicini di casa, compagni di scuola e migliori amici, ed io non avevo fratelli, così che lui era diventato quasi mio fratello.
Le nostre madri erano vicine di casa e amiche, poiché qualche volta le avevo sentite scambiarsi ricette di cucina. Ma la mamma di Jake, al contrario della mia, era più riservata – anche troppo in molte occasioni – specialmente quando suo marito, il Sig. Johnson, era presente. Infatti, tutti erano più riservati intorno a lui; era un tipo duro, insegnava all’Università di New York.
Jake mi raccontava sempre le cose per le quali i suoi genitori discutevano ogni giorno o le cose che gli diceva suo padre, paragonandolo a suo fratello, ma ci appoggiavamo l’uno all’altro e ci tenevamo a galla a vicenda. Uno aveva sempre l’altro e questo rendeva tutto migliore.
«Ora del silenzio?» chiesi divertita.
Non era mai un silenzio imbarazzante. Ci piaceva stenderci sul freddo pavimento di legno e semplicemente ascoltare il nulla, sostenerci a vicenda senza dire una parola.
Sentii il suo respiro agitato, stavolta qualcosa era cambiato.
«No» affermò deciso. «Voglio dirti qualcosa …»
Vidi il dubbio nei suoi occhi, anche se non ne conoscevo il motivo.
«Sai che puoi dirmi qualunque cosa» assicurai, con il presentimento di qualcosa di serio.
«Io …» non riusciva a continuare la frase e i suoi occhi vagavano tra il mio sguardo e il pavimento.
«Dillo e basta» lo incoraggiai, avvicinandomi e mettendomi proprio di fronte a lui.
«Io … non posso dirlo … a parole …» sussurrò.
Altri dubbi si accumulavano nei suoi occhi a ogni secondo che passava, ma prima che potessi intervenire di nuovo, annullò i pochi centimetri che ci separavano e stampò le sue labbra sulle mie. Entrambi chiudemmo brevemente gli occhi e poi ci tirammo indietro subito. I miei occhi erano spalancati sicuramente con uno sguardo da cosa-diavolo-è-successo, mentre vedevo Jake deglutire con difficoltà, ma sosteneva il mio sguardo aspettando la mia reazione.
«Ti è piaciuto?» borbottò, incerto.
Mi era piaciuto? Di cosa diavolo stava parlando? Non sapevo nemmeno che cosa era appena successo. Nella mia testa si era scatenata una tempesta di pensieri, ma non riuscivo a smettere di guardarlo.
«Jocelyn!» gridò la mamma di Jake da sotto l’albero, facendoci trasalire e interrompere il contatto visivo, «Jocelyn, tesoro, tua madre ha chiamato, ha detto di andare immediatamente a casa.»
La Sig.ra Johnson era molto seria e il mio stomaco si chiuse ancora di più. Mamma non faceva mai così, io tornavo sempre all’orario stabilito, ma non avrei verificato nulla se prima non arrivavo a casa.
Iniziai a scendere senza dire una parola, seguita a prudente distanza dal mio amico.
«A domani, Sig.ra Johnson» dissi timidamente. «Ciao, Jake» pronunciai appena, uscii rapidamente da un lato della casa.
Appena raggiunto il marciapiede, iniziai a correre con le mie scarpe da ginnastica nere, non sapevo se perché ero preoccupata di arrivare a casa e verificare cosa mamma voleva da me, o perché stavo scappando, da cosa? Non ne avevo idea. Sapevo solo che il mio migliore amico mi aveva baciata ed io non riuscivo ancora a rendermi conto di cosa significava.
Jake era il mio migliore amico. Era? … Non so perché non dissi: É.
Non sapevo se era giusto. Cavolo, no, non era giusto. Eravamo appena due bambini, o no? Anche se il suo bacio non aveva malizia, al contrario era stato così dolce … ed anche impacciato, una goffaggine dolce.
Non sapevo come lo avrei affrontato a partire da quel momento, ma non dovetti nemmeno farlo, perché quella sera stessa lasciai la città.
CAPITOLO 1
CINQUE ANNI DOPO
Appena metto un piede fuori di casa, mi viene voglia di tornare sui miei passi, mettermi a letto, nascondere la testa sotto le coperte e pregare che il tempo torni indietro. Sì, questo andrebbe bene.
Posso quasi vedere Jake passare da casa mia per andare insieme alla fermata dell’autobus della scuola. Quasi … ma non oggi. Mi chiedo se sa già che sono tornata, se conosce le ragioni per le quali me ne sono andata e cosa più importante perché sono tornata.
Scendo i cinque gradini, arrivo sul marciapiede e osservo entrambi i lati della via, ma non c’è alcun segno di lui. Forse è meglio, non saprei cosa dirgli, come spiegare il mio silenzio durante tutti questi anni.
Inizio a camminare di nuovo guardando il terreno e mi rendo conto che indosso delle scarpe molto simili a quelle che avevo il giorno che me ne sono andata cinque anni fa. Quante cose sono cambiate da allora.
Alzo gli occhi al cielo sperando di trovare la consolazione che tanto mi manca. A New York è un giorno piacevole, con cieli sereni e persone di buon umore; per lo meno a me sembra sia così, dato che contrastano con la mia presenza ombrosa. Non è sempre stato così, il mio colore preferito era il giallo. Mi ricordava i giorni di sole. Per questa ragione lo usavo molto in inverno.
Oggi non so cosa mi aspetta, ma andrò là. Non può essere così male, giusto? Iniziare la scuola superiore senza nessun amico. Forse Jake sarà lì e mi odierà. Sì, sarà fantastico. Quello che ogni adolescente spera. Forse no.
Mi concentro sul suono delle suole delle mie scarpe che pestano il terreno, sulla mia respirazione intermittente, sulle ombre delle persone che mi passano a fianco, sui piccoli insetti che trovo a ogni angolo. Sì, sarà una giornata fantastica. Lo ripeto come un mantra.
Sono così concentrata che quando uno stupido suona il clacson della sua auto troppo vicino a me, mi vedo saltare in aria, come un gatto quando viene aperta una scatoletta di umido. Impreco a bassa voce ricordandomi di tutti i suoi antenati e della sua discendenza, ma alla fine guardo davanti a me e tutta l’aria abbandona i miei polmoni. È lui.
Jake è alla fermata dell’autobus e guarda davanti a sé. Dove sono le mie coperte quando ne ho bisogno? Diminuisco la velocità dei miei passi senza avere idea di cosa dirò quando arriverò al suo fianco. È da solo, stringe forte le cinghie del suo zaino sul petto. Poi abbassa lo sguardo e, senza sapere come, finalmente mi trovo alla sua sinistra. Ho di nuovo un anno e sto imparando a parlare, spero che in lui sia rimasto ancora qualcosa del mio migliore amico.
Ingoio la pallina da tennis che attraversa la mia gola e alzo gli occhi. Ora o mai più.
«Ci … Ciao» mi esce una voce rotta, appena udibile, ma è il meglio che riesco a fare e so che mi sente perché solleva lo sguardo e nei suoi occhi vedo qualcosa che non riesco a decifrare. Dolore?
Impiega troppo tempo per rispondere e per un momento credo che non lo farà.
«Ciao» alla fine mia saluta e torna subito alla sua posizione originaria, come se stesse fissando direttamente il sole.
Meraviglioso, questa era la mia strategia migliore e ora non so più cosa dire. È il momento di improvvisare.
«Sei … grande …»
Davvero? Ho appena detto che è grande? Quasi posso sentirlo rispondere: certo, stupida, te ne sei andata per cinque maledetti anni, certo che sono grande. Il tempo per me non si è fermato.
«Suppongo di sì»
Mi guarda di nuovo per un paio di secondi, studiando non solo il mio viso, ma anche il mio corpo, però non m'imbarazza. «Anche tu sei cambiata.»
«Suppongo di sì» ripeto le sue parole come facevamo da bambini sperando di essere spiritosa, ma ottengo solo un sorriso forzato e finto sulle sue labbra.
«Non sapevo che fossi tornata» parla con un tono di voce piatto.
«Sono tornata da una settimana» confesso e immediatamente i suoi occhi mi fissano furiosi, ma sa trattenersi molto bene e fare finta di niente.
So quello che gli passa per la mente. Sono tornata da una settimana. Una settimana in cui non l’ho cercato.
«Resterai?» chiede con un qualcosa che identifico come speranza, ma non sono sicura.
«Sì …»
Ci guardiamo in silenzio per qualche secondo finché lui distoglie lo sguardo verso un punto indefinito dietro di me.
«Ecco che arriva l’autobus» è l’unica cosa che dice e il momento intimo svanisce.
Salgo per prima e torna la paura, non conosco nessuna di queste persone e quasi tutti i posti sono occupati, dato che non siamo molto lontani dalla scuola. Per un momento penso di chiedere a Jake di sedersi con me, ma cambio idea appena sento una voce.
«Hey, Jake. Ti ho tenuto un posto» dice un ragazzo magro, con la pelle scura, che contrasta con Jake non solo per il colore della pelle, ma anche per il sorriso. Probabilmente è il suo nuovo migliore amico.
Vedo Jake prendere posto a fianco del ragazzo, mentre io passo alla fila successiva. C’è una ragazza con i capelli raccolti in un codino stretto, biondo cenere, un colore difficile da descrivere. Guarda fuori dal finestrino assorta nei suoi pensieri o nella musica emessa dai suoi auricolari. Non sembra una brutta persona, mi ricorda Campanellino – sono tentata di cercare Peter Pan -, così decido di tentare la fortuna.
«Scusa … posso sedermi qui?»
Si spaventa un po’ e subito si toglie uno degli auricolari.
«Sì, certo» risponde con cenno di assenso, timorosa e si addossa al finestrino, anche se c’è spazio sufficiente per entrambe, capisco subito che è timida, forse anche più di me.
«Sono Jocelyn» mi presento perché in realtà non ho nient’altro da dire.
«Sono Meryl» risponde e subito aggiunge «Sì, a mia mamma piace molto Meryl Streep. Sai, l’attrice di Hollywood, solo in caso tu viva sotto un sasso e non sappia chi è …».
In quell’istante qualcosa dentro di me si contrae all’udire la parola mamma, ma mi limito a sorridere. Non ho motivo di angosciare gli altri con i miei problemi. Inoltre, la ragazza è così nervosa che continua a divagare sulle qualità di attrice di Meryl Streep.
Riesco a sentire appena le parole di Jake e del suo amico, ma posso ancora osservarlo. I suoi capelli sono più scuri del solito, un poco più alti sopra che dai lati e con uno stile spettinato che sono sicura non è stato creato di proposito. Indossa una maglietta grigia con una giacca scura come i suoi jeans neri e le scarpe sportive. Sì, alcune cose non cambiano mai.
«Anche tu sei nuova?» chiede Campanellino riportandomi al presente.
«Mm … qualcosa del genere» rispondo incerta, «vivevo qui qualche anno fa, ma me ne sono andata e ora sono tornata per iniziare la scuola superiore.»
«Ah …» sembra delusa. «Allora devi avere degli amici qui, io sono di Washington. Mi sono appena trasferita.»
«Io … non lo so, spero di averne ancora qualcuno.»
In quel momento incontro lo sguardo di Jake. Non so se ha udito le mie parole.
«Io qui non conosco nessuno» si lamenta Meryl «ti da fastidio se siamo vicine di posto in autobus? Ho paura di alcune ragazzine sedute dietro.»
«Certo che no, va bene» rispondo mentre il suo viso s'illumina. Pensa che sia io a farle un favore quando è lei che lo fa a me.
«Possiamo andare insieme anche a vedere le nostre classi» propone entusiasta e subito precisa incerta «Ovviamente, se tu vuoi.»
«Grandioso» le sorrido. Potrei forse dirle di no? È così dolce.
Continuo a osservare Jake e il suo amico, cerco di ascoltare la loro conversazione, ma parlano così a bassa voce che ci rinuncio, finché all’improvviso vedo che alza la mano e da un colpo sulla nuca al suo amico, per scherzo, credo.
«Ahia! Okay! Sto solo scherzando» si lamenta il ragazzo, non riesco a sentire la sua risposta.
Dopo un poco mi guarda di nuovo e accorgendosi che anch’io lo guardo entrambi abbassiamo gli occhi. È così triste vedere ciò che resta della nostra amicizia.
«Ahhh!» grida, sussurra Meryl accorgendosi che abbiamo due ore di lezione insieme ed è una fortuna che la prima lezione di oggi sia una di queste.
«Dai cerchiamo questa classe» la incito per farla camminare.
«Possiamo sederci vicine se vuoi» mi dice di nuovo incerta, questa ragazza ha seri problemi d'inferiorità.
La osservo per un momento. Non si rende conto che è una ragazza piacevole se non inizia a dubitare di se stessa?
«Sì, benissimo» dico con un cenno di assenso.
Camminiamo tra la folla, dopo aver individuato i nostri armadietti, entriamo nella classe per la nostra prima ora di lezione. Ho perso di vista Jake appena scesi dall’autobus, ma lo intravedo di nuovo dalla porta dell’aula. Noto un posto vuoto accanto a lui e per un attimo penso di occuparlo, ma poi Meryl m'indica un paio di posti dall’altra parte, in realtà è quasi la stessa cosa perché avrò Jake alla mia sinistra e la mia nuova amica a destra.
«Guarda, il ragazzo dell’autobus che non smetteva di guardarti» lei sussurra al mio orecchio e le mie pulsazioni accelerano.
Jake mi stava osservando? Lo avevo notato appena, un paio di volte. Non rispondo nulla perché in quel momento entra la professoressa. Adesso sono io che non smetto di osservare di sottecchi il suo profilo, il modo in cui tiene in mano la matita e come la fa rimbalzare contro il quaderno.
Jake è mio amico e lo voglio di nuovo, ma non so come far tornare indietro il tempo e il suo silenzio mi sta uccidendo. Allora mi viene in mente un’idea, forse non posso tornare al momento in cui la nostra amicizia è finita, ma almeno posso provare a riprendere la nostra ultima conversazione. Spero che funzioni.
Strappo un foglio di carta senza fare tanto rumore e scrivo la risposta che gli devo da cinque anni, mentre ricordo il sapore dei biscotti con scaglie di cioccolato sfornati da mia madre. Piego il foglio e appena la prof ci da le spalle per scrivere qualcosa alla lavagna, mi armo di coraggio e mi sporgo per toccargli il braccio senza smettere di guardare davanti a me, anche così sento la sua sorpresa (e quella di Meryl che non smette di fissarmi, incuriosita).
Trattengo il respiro mentre lo vedo aprire il foglio e l’aria torna nei miei polmoni quando noto il barlume di un sorriso che s'impegna a trattenere, con la coda dell’occhio vedo che mi osserva un attimo prima di piegare di nuovo il foglio, continuando a scrivere.
Non so perché l’ho fatto, appena l’ho visto leggere quello che avevo scritto mi sono pentita del mio impeto di sincerità, ero disperata per vedere se il mio amico se ne era andato per sempre, oppure no, in ogni caso non avevo scritto nessuna bugia e lui meritava una risposta, anche dopo tanti anni dalla domanda.
Lui mi aveva chiesto se mi era piaciuto il bacio che mi aveva dato nella casa sull’albero. Mi ci erano voluti anni per accettarlo, ma oggi ho soltanto una risposta ed è quella che gli do adesso: sì, mi è piaciuto.
CAPITOLO 2
La mensa della scuola è molto rumorosa. Ho tentato il più possibile di ritardare il mio ingresso in quel recinto infernale. Mi sono accordata con Meryl per incontrarci qui e non sapevo se lei era già arrivata. Do un’occhiata in giro e non la vedo da nessuna parte, ma dei capelli scuri attirano la mia attenzione. Jake, è di spalle e noto che lo sguardo del suo amico si rivolge verso di me con curiosità, stanno pranzando su un tavolo in disparte, da soli. Mi viene l’idea di andare là senza essere invitata, ma non credo sia corretto, quindi cerco un tavolo vuoto all’estremità opposta e aspetto la mia amica.
È stata una mattinata orribile di presentazioni, ho tentato di schivare le domande personali e sono stanchissima, non vorrei fare pena a nessuno. Ho visto alcune facce familiari, ma nessuno mi ha rivolto la parola in tutta la mattinata.
Vedo Jake voltarsi e guardarmi solo una volta, so che lotta con l’idea di avvicinarsi a me o fare finta che non ci sono, ma qualcun altro prende la decisione al posto suo.
«Ciao, mi dispiace per il ritardo, eccomi qui» dice Campanellino «com'è andato il resto della tua mattinata?».
«Niente di buono» mi esprimo, senza molta emozione.
«Sì, un ragazzo ha continuato a darmi dei soprannomi per tutta la lezione, mi ha chiamato persino Campanellino. Ci credi?» non posso evitare di sorridere per queste parole.
«Mi dispiace, ma davvero le assomigli. Ma non farci caso, i ragazzi sono degli idioti.»
«Lo so …» sospira profondamente. «Ma tu, cos’hai con quel ragazzo? Ho visto che gli hai dato un biglietto. Ti piace?» chiede con emozione trattenuta nella voce.
«No !!!» esclamo troppo in fretta.«Lui … una volta era mio amico. Il mio migliore amico, in realtà.»
«E cosa è successo?»
«Me ne sono andata e non ho più saputo nulla di lui.»
«E perché adesso non riprendete la vostra amicizia?»
«Non lo so …» mi stringo nelle spalle.
Il resto della giornata è una noia mortale, abbiamo un’assemblea di benvenuto per i nuovi studenti che viene posticipata, davvero non so come potrò sopravvivere alla scuola superiore. Sono sicura di essere diventata la nemica della ragazza più popolare della scuola quando mi sono scontrata accidentalmente in corridoio con il suo stupido ragazzo, anche lui mi guarda come se avessi dei vermi in faccia. Ragazzi stupidi.
Sono contenta quando termino le ultime ore, ma poi mi ricordo che vedrò Jake continuare la propria vita e il suo nuovo amico sull’autobus e il mio stato d’animo finisce tre metri sottoterra.
Meryl cerca di essere amichevole e simpatica nonostante la sua timidezza, ma in realtà non voglio fare amicizia, voglio solo che finisca questa maledetta giornata. L’autobus si ferma alla mia fermata e vedo Jake alzarsi in piedi mentre io faccio lo stesso. Si avvicina un silenzio imbarazzante, ho questo presentimento.
Iniziamo a camminare senza dire una parola; non avevo mai pensato che il rumore dei passi potesse essere così sconfortante.
«E allora … com'è andata la tua vita?» chiede timoroso.
«Un disastro» ammetto con sincerità, lui sembra sorpreso.
Continuiamo in silenzio per qualche altro metro.
«Mi puoi raccontare, se vuoi» m'incoraggia e lo guardo confusa.
«Perché vorresti saperlo?»
«Perché siamo amici» risponde in un sussurro.
«Lo siamo?»
«Spero di sì.»
«E tu?» cambio argomento «Come va la tua vita?»
«Poteva andare meglio» mi osserva con attenzione.
«Mi puoi raccontare, se vuoi» ripeto le sue parole e questa volta sorridiamo entrambi.
«Sarà per un altro giorno, stiamo già arrivando a casa tua.»
«Sì, ci vediamo domani.»
«Ciao.»
Per la prima volta in tutta la giornata ho la speranza che forse non tutto è perduto.
Elena è stesa sul divano quando entro in casa, credo che stia guardando qualche serie televisiva, è troppo concentrata. Non voglio disturbarla, così salgo tranquillamente nella mia stanza. Va bene, sto mentendo. Sì, voglio disturbarla ed è proprio quello che faccio. Lei è la mia matrigna, ma in realtà non ho alcun rispetto né per lei né per nessun'altra donna che sta con mio padre, che non sia mia madre. Si è sposata con mio padre appena un anno fa e si crede la padrona e la signora della casa.
«Ma tu davvero non hai un lavoro? Eh?» più che una domanda è un'affermazione. Lei subito mi lancia occhiate di fuoco, ma si ricompone.
«Ne avevo uno, ma ho deciso di lasciarlo per un periodo, per occuparmi di tuo padre, della casa e ora anche di te.»
«Di me?!» esclamo offesa. «Non ho bisogno di nessuno che si occupi di me e tantomeno di te o di qualunque donnina che mio padre decida di mettere qui in casa.»
«Jocelyn, non parlare così, tutti vogliamo appoggiarti in questo momento così duro che stai attraversando.»
«L’unica maniera in cui puoi aiutarmi è non incrociando la mia strada» dico con tutto il disprezzo che sento e corro verso la mia stanza.
Mamma … quanto mi manchi. Non dovevi andartene, c’è tanta spazzatura nel mondo che forse questo non era un posto per te, ma ancora non smette di fare male. Mi addormento piangendo, quando vengo svegliata da alcuni colpi alla porta.
«Jocelyn» mi chiama mio padre, più stanco che arrabbiato «scendi a cena, ti stiamo aspettando.»
«Adesso arrivo» è l’unica cosa che riesco a dire.
Mi cambio la maglietta, respiro profondamente preparandomi per una predica di mio padre per aver gridato contro la sua nuova mogliettina. Mi avvicino alla tavola già pronta e mi siedo mentre Elena tira fuori qualcosa dal forno.
«Sai» commenta papà «ti ho dato del tempo perché ti abituassi di nuovo alla casa, ma credo che d’ora in poi potresti iniziare ad aiutare. Inoltre, così ti distrai un po’.»
«Come? Aiutare in cosa?» lo sfido.
Perfetto, ora devo guadagnarmi vitto e alloggio. Non che io sia pigra, ma questa non la sento più casa mia.
«Aiutare Elena a cucinare la cena o preparare la tavola, ogni tanto lavare i piatti o qualcosa del genere.»
«Cosa?! Aiutare Elena? Sei pazzo!» entrambi si guardano imbarazzati. Lei non ha pronunciato una parola finora, ma sicuramente gli ha raccontato la nostra piccola discussione di poco fa.
«Lascia perdere, Charles. Credo abbia bisogno di più tempo» si rivolge a mio padre.
«Non ho bisogno del tuo aiuto» le ribatto.
«Jocelyn, non essere scortese. Elena vuole solo aiutare, entrambi vogliamo aiutarti.»
«Sapete una cosa? … va bene, darò una mano. Per non essere in debito con uno di voi due» gli faccio notare.
«Possiamo cenare in pace, per favore?» protesta papà, sconfitto, mentre Elena fa un cenno di assenso e inizia a servirci.
Mi fa schifo dover mangiare ogni sera qualcosa preparato da questa donna. Sono sicura che il suo cibo piacerebbe a chi non la conosce, ma io riesco appena a digerirlo. E ora vogliono che io la aiuti a prepararlo. Aiutavo sempre mia madre in cucina, era il nostro momento da condividere insieme, se anche la nonna partecipava, la cucina si trasformava in un parco giochi. Niente di più lontano da quello che sarebbe questa piccola esperienza con questa donna.
La osservo di sottecchi prendere con la forchetta un po’ di lasagne, le sue mani magre e le unghie color uva, come il vino rosso che beve mio padre ed è allora che questo piccolo dettaglio che prima non avevo notato si dimostra minaccioso. Lei non ha bevuto una goccia di alcol, né mio padre glielo ha offerto da quando sono qui. Va bene, forse sono paranoica, ma ho visto un paio di foto dove entrambi tengono in mano un bicchiere di vino brindando a chissà cosa. Smetto di pensare sciocchezze e mi concentro sul finire la mia cena. C’è un silenzio di tomba interrotto solo dalle posate che sbattono contro i piatti.
«Jocelyn, vogliamo parlare con te di una cosa importante» inizia papà «sappiamo che questo non è facile per te.»
Allora prende la mano di Elena e il mio stomaco si rivolta.
«No, non lo è» ammetto sprezzante.
«Lo sappiamo, figlia mia, e per questo non do importanza a tutti questi tuoi comportamenti negativi, ma voglio chiederti per favore di non sfogare la tua rabbia con Elena.» Sì, gli ha raccontato tutto. La fulmino con lo sguardo e lei abbassa gli occhi.
«Lei deve stare tranquilla, voglio che cerchiamo tutti di essere una famiglia» sento i miei occhi riempirsi di lacrime, «soprattutto adesso.»
Tutto il mio corpo si paralizza aspettando le sue prossime parole. Non so come, ma lo so prima che lo dica.
«Elena è incinta, avrai un fratello o una sorella, Lyn.»
Sento i muri chiudersi intorno a me e inghiottirmi, sbuffo così forte che mi viene la nausea.
«Stai parlando seriamente?!» mi alzo dalla sedia facendola cadere a terra. «Non ti è bastato sposarti con lei? Ora la metti incinta e speri che io accetti tutto questo e giochi alla famiglia felice. No!» grido impazzita.
«Non sto dicendo questo» esclama papà alzando anche lui un po’ la voce, «voglio solo che tu dia un’opportunità ad Elena e che troviamo il modo per andare avanti tutti insieme.»
«Questa non è la mia vita, papà …» sussurro atterrita. «Non è la vita che voglio!!! Non voglio alzarmi e vedere ogni giorno la puttana che hai sposato che porta in grembo tuo figlio!»
«Scusati subito con Elena» papà sembra sul punto di picchiarmi, ma io non desisto.
«Non ci penso proprio! Non penso di scusarmi a dire la verità!» corro nella mia stanza e chiudo la porta con tutte le mie forze.
Posso sentire i passi di mio padre che salgono le scale e quelli di Elena dietro di lui.
«Jocelyn! Apri questa maledetta porta!» urla fuori di sé, mentre io affondo il viso nel cuscino per soffocare i miei singhiozzi.
«Lasciala stare, Charles. Lascia che si calmi» lei dice a papà tentando di tranquillizzarlo ed è quello che mi dà più fastidio, il ruolo di mediatrice che vuole adottare, so che è falso, deve esserlo.
«Va bene … ma domattina mi aspetto queste scuse» sentenzia mio padre prima di allontanarsi dalla porta.
«Aspetta e spera,» penso.
Perché c’è così poco ossigeno in questa maledetta stanza? Mi sto asfissiando. Sento la necessità di uscire, ma non so dove andare, non ho nessuno a cui rivolgermi. Penso di scappare e andare a trovare Jake, ma ancora non è il momento giusto. Poi ricordo le parole di mia zia.
«Chiamami se hai bisogno di me, non importa l’ora», ma la verità e che non riesco a parlare e la farei solo preoccupare.
Decido di affrontare da sola tutto questo, così tiro fuori il mio quaderno giallo dallo zaino e mi metto a scrivere, non so nemmeno cosa, so solo che le parole che non riesco a esprimere a voce alta si riversano dalle mie dita sulla carta, come le lacrime dai miei occhi.
Con gli auricolari a volume massimo mi addormento ascoltando “Unsteady” degli X Ambassadors. Quanto mi manchi mamma.
***
Sento un movimento nel corridoio anche prima di poter aprire gli occhi. Sicuramente mio padre si sta preparando per andare al lavoro, con Elena che gli ronza intorno come un’ape nel suo alveare, l’immagine mi fa venire i brividi.
So che devo alzarmi, ma non trovo alcuna motivazione per farlo.
Davvero so che non posso rimandare ancora questo momento, devo scendere al piano di sotto e affrontare la mia nuova vita. Quando faccio la mia comparsa in cucina, entrambi stanno facendo colazione in silenzio. Non dico una parola e mi siedo a tavola, aspettando che qualcuno parli.
«E quindi …?» grugnisce papà «Stiamo aspettando.»
«Cosa?» faccio finta di non capire.
«Le tue scuse. Suppongo che tu abbia riflettuto durante la notte, quindi non uscirai da qui finché non le avremo ascoltate.»
Solo l’idea di passare tutta la giornata rinchiusa con questa imitazione di matrigna, mi provoca l’emicrania, non devo sentirlo davvero per dirlo, giusto? Se così posso uscire da questo mondo parallelo dove tutto fa schifo lo farò, che importa. Mi schiarisco la gola prima di scagliare le parole che bruceranno appena pronunciate.