La Macchina Per Scrivere

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«Ciao, come state? … scusa, ero nel bagno» mentì storcendo la bocca, con gli occhi rivolti al soffitto. «Si, io sto bene, e voi? Vi state divertendo? Magnifico… passatemi la mamma… Allora, come ve la passate?… e i ragazzi? Si, io mi annoio da morire e sono ansioso di rivedervi….. ah ho una sorpresa per te… no, non te lo dico cos’è, altrimenti che sorpresa sarebbe? Va bene ci sentiamo presto… salutami i tuoi…”. tagliò corto, poi riattaccò il telefono e corse a sedersi, sbuffando ancora scocciato per quell’inattesa interruzione. Ho trovato: scriverò la storia di un uomo che vive solo si disse.

Squillò il telefono, l’uomo emerse con un sospiro dalla vecchia poltrona di pelle e si trascinò di malavoglia verso l’apparecchio.

«Pronto? Gianni! Io bene, tu come stai? Mi fa piacere sentirti… domani sera? No, domani sera proprio non posso. Ti dico che non è una scusa, lo sai che con voi due non mi sentirei mai di troppo… va bene, alla prossima non mancherò, lo prometto. Dai un bacio a Marta da parte mia» concluse l’uomo, poi ripose la cornetta e gettò un’occhiata ansiosa in salotto, verso il televisore. Ormai stavano scorrendo i titoli di coda.

Accidenti, mi sono perso il finale, si disse innervosito, ma sarà finito sicuramente bene. I film finiscono quasi sempre bene.

Dopo aver spento il televisore, sistemò per bene le sedie sotto il tavolo rivestito di formica verde, in modo che le zampe cadessero esattamente sugli angoli delle mattonelle. Sparecchiò e andò a dare due mandate alla porta di casa, dopo aver poi controllato due volte che il rubinetto del gas fosse chiuso, si recò in camera. Come tutte le sere, passando davanti al grande specchio posto in corridoio, smise di trascinare i piedi a terra e drizzò le spalle per verificare lo spessore della propria pancia. Costituzione pensò rassegnato ancora una volta, scotendo la testa. Più di una volta aveva provato ad eliminare la fascia di grasso che gli contornava addome e fianchi, vietandogli di indossare come si deve le camicie. Erano il capo di abbigliamento che amava di più, ma non aveva mai avuto abbastanza forza di volontà per seguire seriamente una dieta fino in fondo. E così come questa, le cose aveva cominciato nel corso degli anni per poi portarne a termine quasi nessuna erano molte altre. Con il rituale di sempre si preparò per andare a dormire: piegò accuratamente gli abiti e li posò sulla sedia a dondolo che stava sotto la finestra, poi indossò il pigiama preferito, quello grigio a rombi azzurri ormai consumato all’altezza dei gomiti e delle ginocchia. Pose le ciabatte ai piedi del letto in modo che fossero perfettamente parallele e si coricò.

Di nuovo gli occhi rivolti al soffitto e la sigaretta ormai gualcita in bocca, di nuovo sveglio così presto. Ma quella mattina si sentiva peggio della precedente, aveva dormito poco e male e il suo sonno era stato turbato da un brutto incubo: un uomo col camice bianco e gli occhiali gli diceva di non aver paura, che aveva una brutta malattia ma che la poteva vincere. E lui si sentiva impotente, anche se aveva tanta voglia di vivere. Colpa delle zanzare e di questo maledetto caldo minimizzò, ma la solitudine e il silenzio sembravano aver ingigantito quelle brutte sensazioni. Malgrado i suoi tentativi di pensare ad altro, continuava a provare un’angoscia quasi fisica, che lo avvolgeva come le spire di un serpente.

Almeno, sono riuscito a stare un giorno senza fumare… vedremo quanto durerò. Prese dal comò quell’unico foglio che aveva scritto il giorno prima e lo rilesse, nella speranza che gli venisse una qualche idea per proseguire il racconto. Quell’uomo solo scopre di essere ammalato… si è ammalato perché ha perso il senso delle cose… il senso dell’amore… si, ecco: ha perduto il senso dell’amore e si è lasciato andare si disse pensando al protagonista del suo romanzo. Non ha più voglia di vivere, ma forse, se qualcuno glielo insegnerà potrà guarire. Chissà, magari incontrerà una specie di guida spirituale, un guru o qualcosa del genere. In ogni caso sarà un tipo un po’ strano, un uomo che porta con sé una grande amarezza oppure un grande segreto. Lo chiamerò Walter, mentre il protagonista deve avere un nome comune, normalissimo. Lo chiamerò… accidenti, è difficile persino trovargli i nomi, ai personaggi. Mah, per ora lo chiamerò per cognome, poi si vedrà: lo chiamerò Carpetti, mi sembra un cognome abbastanza anonimo. E il romanzo, o racconto, o quello che ne verrà fuori, lo ambienterò in autunno, sperando che questo mi aiuterà a sentirmi più fresco. Seguendo questo lampo di ispirazione scese al volo dal letto per andare a scrivere, senza neanche pensare alla colazione, ma barcollò e cadde. Si rialzò guardandosi intorno perplesso e constatò stupito che ai suoi piedi non c’era niente, quindi non era caduto per aver inciampato in qualcosa. Si preoccupò solo per un istante, poi non ci pensò più: quel suo nuovo bisogno era più forte di lui, doveva mettersi immediatamente a scrivere altrimenti l’idea sarebbe volata via.

CAPITOLO II (CARPETTI DAL DOTTORE)

La radiosveglia si accese alle sei e mezza, giusto in tempo per l’appuntamento con l’oroscopo del nuovo giorno. Mentre lo ascoltava senza crederci più di tanto, Carpetti rifece il letto con cura, in modo che sulla coperta non restasse neanche la più piccola piega. Poi si recò in cucina e aprì due arance, come ogni giorno si preparò una spremuta per prevenire il raffreddore. Tirò fuori dal congelatore il quello che sarebbe diventato il suo pranzo e lo mise nell’acquaio, poi si preparò per uscire. Quella mattina doveva ritirare il risultato delle analisi a cui si era sottoposto qualche giorno addietro per verificare l’origine di alcuni disturbi. Il medico lo aveva tranquillizzato dicendogli che doveva sicuramente trattarsi di una cosa da niente, ma aveva comunque insistito affinché si sottoponesse a un check-up completo. Dato che la mattina non aveva mai troppa voglia di conversare, soprattutto riguardo le banalità tipo il tempo, Carpetti evitò di prendere l’ascensore per non rischiare di incontrare qualcuno. Giunto al portone d’ingresso, trasse un profondo respiro e aprì la porta per tuffarsi nel Mondo. Avviandosi verso la fermata dell’autobus, con le mani in tasca e la testa china, si rese conto che era una di quelle giornate caratteristiche del cambio di stagione tra l’autunno e l’inverno, fresca e luminosa. L’alito formava quelle nuvolette che paiono essere fatte di fumo di sigaretta, l’erba del prato condominiale era coperta di brina e qualche rara folata di vento interrompeva bruscamente il cinguettio degli uccelli. Giunto in Centro scese dall’autobus, guardando l’orologio del campanile si rese conto di essere arrivato troppo presto. Si chiese come avrebbe potuto sfruttare quella mezz’ora ma non gli venne in mente niente, così si strinse nelle spalle e cominciò a curiosare di vetrina in vetrina. Le mamme stavano accompagnando i bambini a scuola, dai panifici usciva un buon aroma che sembrava scaldare l’aria e il camion della nettezza stava rumorosamente svuotando i cassonetti. La città era viva ma lui non se ne accorgeva, riusciva solo a vedere la propria immagine distorta riflessa nelle grandi vetrate. A un certo punto provò un lieve senso d’invidia, o forse di imbarazzo verso sé stesso, nel vedere due ragazzini che entravano a scuola, zaino in spalla e mano nella mano. Ma quella sensazione durò poco, subito dopo si infilò nel portone dello studio medico. La sala d’attesa era ben arredata, con comodi divanetti dai chiari colori sfumati, varie riviste specialistiche erano messe in mostra di proposito su un bel tavolo in ferro battuto col ripiano in vetro molto spesso. Appese alle pareti bianchissime, le copie di alcuni quadri di Picasso facevano compagnia agli attestati di partecipazione a corsi di aggiornamento, inerenti nuove particolari terapie per la cura dell’asma. Completava l’insieme una bella composizione di piante grasse sistemata in un angolo. Carpetti odiava recarsi là, trovava quel posto troppo freddo e silenzioso. Malgrado fosse un maniaco dell’ordine e della pulizia, quell’ambiente così bianco e freddo gli trasmetteva un senso di smarrimento. Si sedette e cominciò a sfogliare una rivista senza leggere perché in realtà stava facendo, come sempre, il gioco dei luoghi comuni. Scommetteva con sé stesso che avrebbe indovinato in anticipo, nella blanda conversazione che stava svolgendosi in sala d’attesa, cosa stava per dire la persona che stava parlando. E’ per questo che il mondo gira storto. La gente ha la testa piena di luoghi comuni, ovunque vai senti gli stessi discorsi…. stava pensando, quando venne il suo turno.

«Buongiorno dottore» salutò entrando, senza mostrare alcun entusiasmo. Il medico sedeva nell’angolo sinistro in fondo alla stanza lunga e stretta, dietro di lui, a fianco alla tabella per la misurazione della vista, una finestra dava su un viale alberato. Carpetti pensò che, a colpo d’occhio, quell’uomo sembrava un pezzo appartenente a quella collezione di oggetti rigorosamente bianchi e silenziosi. Quasi come se fosse privo di una vita propria e stesse sempre là dentro, seduto dietro a quella scrivania. In quel contesto di oggetti rigorosamente chiari, l’unica cosa che spiccava era un orologio da tavolo a forma di piramide, nero, che pareva dominare l’ambiente per lanciare un monito: “Il tempo è prezioso”.

«Buongiorno signor Carpetti. Si accomodi» rispose il dottore, stava giocherellando nervosamente con un’elegante penna rifinita in oro.

«E’ una cosa lunga?» replicò lui, allungando una mano verso una busta con il suo nome scritto sopra.

«Debbo parlarle» lo informò il medico tirando a sé la busta un attimo prima che lui riuscisse ad afferrarla. Allora lui si lasciò cadere di malavoglia sulla sedia, indispettito perché il dottore gli aveva sottratto la sua busta, e incrociò le braccia al petto a mostrargli tutto il suo disappunto. Di tanto in tanto il vento spingeva i rami ormai quasi del tutto spogli di un’acacia contro il vetro della finestra, producendo un orribile rumore stridente, il cielo si era rabbuiato e pareva indeciso se piovere o no.

 

«Avanti, la ascolto» lo esortò Carpetti richiamando il medico, che si era come distratto.

«Lei ha un problema» esordì questi a bassa voce, senza guardarlo negli occhi.

«Accidenti… niente di grave spero.»

«Mi spiace dover essere brusco, ma purtroppo temo di sì.»

Il disagio di Carpetti si trasformò subito in un’angoscia profonda, adesso le parole del dottore avevano fatto sì che la stizza lasciasse il posto alla paura.

«Si spieghi meglio, per favore.»

«Vede, lei deve cominciare ad abituarsi all’idea che non potrà più fare le cose come prima» cominciò a spiegargli l’altro da dietro gli occhiali. Qualche schizzo di pioggia aveva intanto preso a battere sulla finestra per scivolare veloce sul vetro lindo. Il dottore, sempre più imbarazzato, aveva preso a caricare l’orologio da polso, Carpetti sentì il proprio sangue farsi strada a fatica nelle vene, come se fosse diventato improvvisamente densissimo.

«Non capisco» mormorò, e adesso un artiglio gli torceva lo stomaco. Intanto lottava contro un presentimento improvviso, le mani gli si erano fatte umide e gelate.

E ora che malattia gli faccio venire? Mica sono un dottore! Temo di aver scelto un passatempo troppo difficile, forse sarebbe stato meglio provare a scrivere qualcosa di comico pensò Franco mentre si dirigeva verso il frigo per prendere una lattina di birra fresca. Aveva trascorso diverse ore a sedere, giunto davanti al frigo si stiracchiò e un nuovo senso di vertigine lo fece quasi cadere. Ma cosa diavolo mi sta succedendo? si chiese leggermente spaventato, appoggiandosi alla spalliera di una sedia. Non vedo l’ora che mi consegnino i risultati delle analisi, questi giramenti di testa cominciano a preoccuparmi. Tolse la sigaretta di bocca e se la incastrò nell’incavo tra l’orecchio e la testa, poi stappò la lattina e diede una lunga sorsata. Volendo, la malattia di Carpetti me la posso anche inventare. In fondo si tratta di un’opera di fantasia, e poi deve essere quasi una cosa psicosomatica, quindi può essere qualsiasi cosa. Una cosa che deriva dal suo male di vivere, come se lui si stesse pian piano lasciando morire. Magari facendo una scorrazzata su internet trovo qualcosa di interessante, più tardi darò un’occhiata. Seguendo il corso delle sue riflessioni era di nuovo arrivato davanti alla macchina per scrivere.

CAPITOLO III (OTTO MESI)

«Questa malattia nasce nell’emisfero destro del cervello e va a interessare diversi organi, rallentandone progressivamente l’attività fino a bloccarla del tutto.»

«Per favore, dottore, sia più chiaro! Ancora non capisco, dal suo tono di voce sembrerebbe che io stia per morire» lo interruppe Carpetti, a quelle parole il dottore ebbe un sussulto e l’orologio gli scivolò via dalle mani. Non appena toccò terra, il vetro a protezione del quadrante si incrinò mandando un suono secco e aspro. Un’espressione di disappunto attraversò la faccia del medico, ma solo per un fugace attimo, poi questi prese a guardare alternativamente il paziente e la sua busta contente il referto, senza però dire una sola parola.

«Dottore…» lo incalzò allora Carpetti con un filo di voce.

«Si tratta di una malattia che inibisce lo svolgimento dei processi rivolti al rinnovo dei tessuti dei principali organi, portandoli a invecchiare molto rapidamente.»

Il brutto presentimento che aveva accompagnato Carpetti fin dal primo risveglio si era tramutato in una terribile realtà. Si sporse verso l’altro come per sentire meglio, gli sembrava che tutto quanto attorno a lui fosse diventato confuso e molliccio, ovattato, e lui voleva essere sicuro di non aver capito una cosa per un’altra.

«Questa malattia è molto rara, si chiama…» riprese a spiegargli l’altro con una lentezza esasperante, nel tentativo di portare il paziente al dunque nel modo più dolce possibile.

«Basta!» lo interruppe Carpetti, il tono della sua voce si era fatto piagnucoloso. «Voglio sapere quanto mi resta… cosa vuole che mi importi del nome, mi dica quanto mi resta da vivere» implorò il medico ad afferrandolo per un braccio.

«Otto mesi. Forse un anno, se seguirà le cure che le prescriverò. Sono costosissime, dovrà chiedere l’esenzione dal pagamento al Distretto Sanitario della sua zona» sentenziò finalmente tutto d’un fiato il dottore, dopodiché si sentì improvvisamente più leggero. Carpetti si buttò a terra tenendosi la testa tra le mani.

«Otto mesi…otto mesi…»

Franco sfilò il foglio dalla macchina, che gli rispose col tipico rumore che fa il mulinello di una canna da pesca quando si lancia la lenza. Lo adagiò sulla piccola risma e la compattò con le mani sorridendo molto soddisfatto, ma la sua testa cominciò a essere invasa dai dubbi. E adesso come proseguo? Ho il sospetto di essermi spinto troppo oltre, scrivere una storia che tratta un argomento del genere è difficile, e fare in modo che chi lo leggerà non lo trovi noioso e angosciante è praticamente impossibile. E da adesso in poi per scriverla come si deve dovrei immedesimarmi nel personaggio, dovrei riuscire a provare ciò che proverebbe Carpetti, pensare e vivere come penserebbe e vivrebbe lui. Come un uomo che ha pochi mesi di vita… chissà che cosa farei… dovrei essere proprio lui per saperlo.

CAPITOLO IV

LE ANALISI DI FRANCO

Come se si rese improvvisamente conto di trovarsi in una situazione assurda, o come se gli fosse venuto a noia restare appeso, Franco comincia a far oscillare le gambe con l’intenzione di portare un piede fino al bordo sporgente del terrazzo. In quel modo potrà puntellarsi e sfruttare così al meglio la forza delle braccia, a quel punto dovrà soltanto scavalcare la ringhiera e tornare dentro. L’improvviso urlo di una sirena squarcia il silenzio carico di apprensione, le teste degli spettatori si voltano tutte insieme come in una coreografia. L’ambulanza si ferma facendo stridere i pneumatici, subito dopo ci sono movimenti frenetici e ordini concitati, una barella viene rapidamente estratta dal vano posteriore del mezzo di soccorso. Una macchia bianca che si guarda attorno spaesata attira d’un tratto l’attenzione di Franco. Maledetto testardo, alla fine mi ha trovato! pensa riconoscendo il medico, mentre finalmente appoggia anche il secondo piede sul pezzetto di terrazza che sporge oltre la ringhiera.

«Bravissimo, dacci dentro con quelle gambe. Sei forte, ci sei quasi! Non mollare proprio adesso!» lo incita il Vigile del Fuoco da sopra la scala, vedendo che è quasi riuscito ad arrampicarsi sul terrazzo. «Tra un minuto sarò lì, tieni duro per amor di Dio» insiste, ma Franco non lo sta ascoltando. E’ riuscito a puntellare per bene i piedi e adesso sta forzando per spingersi in alto. Quando si sente sicuro lascia libera una mano dalla presa della ringhiera per afferrare il corrimano e issarsi in piedi, ma mentre allunga il braccio verso la stecca orizzontale, la sensazione di due occhi puntati nella schiena gli fanno perdere la concentrazione. Guarda verso il basso e individua nuovamente il medico, lo sta fissando a bocca aperta mentre si passa una mano tra i capelli, apparentemente preoccupato. Quell’uomo vorrebbe correre su da Franco per soccorrerlo Franco, ma un agente pensa che potrebbe essere pericoloso e l’o ha trattenuto dabbasso. Franco nota che quell’uomo stringe in mano una busta di carta gialla, allora gli lancia uno sguardo carico di odio. Tienila per te quella maledetta busta! Non la voglio, non lo hai capito? sta per gridargli mentre si slancia per scavalcare la ringhiera, ma la mano sudata scivola via lungo la plastica di rivestimento del corrimano. Franco ricade ma riesce a tenere la presa dell’altra mano, rimane appeso per un solo braccio penzolando nel vuoto come una foglia secca al vento. Gli spettatori mormorano qualcosa, sgomenti, intanto Franco ha ricominciato a ricordare.

Accidenti, ancora una volta sveglio prima dell’alba aveva pensato turbato Franco quella stessa mattina schiudendo gli occhi. Aveva perso la sua personale battaglia col tabacco appena al quinto giorno di solitudine e aveva ripreso a fumare più forte di prima, con gli occhi ancora chiusi cercò a tentoni il pacchetto e con gesti automatici e rassegnati si accese la prima sigaretta del nuovo giorno, che gli rinnovò il bruciore allo stomaco. Mentre aspirava pensieroso scoprì di non ricordare quante albe consecutive aveva ormai visto e quanti giorni erano che non dormiva nel suo letto. Si sentiva completamente svuotato, privo di energie. Dopo che era stato rispedito due volte indietro a mani vuote a causa di problemi tecnici, quella mattina gli avrebbero finalmente consegnato i risultati degli esami clinici. Non avrebbe saputo dire con precisione quando era successo, ma il continuo andirivieni di dolorose fitte appena dietro l’orecchio destro, che si ripeteva ormai da giorni, lo aveva fatto precipitare nella paranoia. Negli ultimi giorni le fitte si erano fatte sempre più frequenti e dolorose, ad accompagnare i giramenti di capo sempre più lunghi e preoccupanti. E questo aveva generato in lui un brutto presentimento che pazientemente, giorno dopo giorno, aveva minato il suo equilibrio fino a fargli compiere gesti assurdi. Si trattava di quella stessa paura dalla quale era scaturita la sua di volontà di finire ad ogni costo la storia che stava scrivendo, per lasciare qualcosa di sé in quella che si era convinto che fosse una specie di assurda corsa contro il tempo. Ed ogni suo singolo gesto, ogni suo singolo pensiero dettato dalla paura aveva infine generato nuovo terrore, come in una spirale composta di una quantità infinita di anelli. Il terrore di una punizione per ciò che aveva fatto, di una condanna alla sofferenza eterna, di una condanna a morte quasi certa. Andando in bagno passò accanto al corpo senza vita del gattino e fece una faccia schifata, ma subito dopo si fermò per osservarlo meglio, per guardare l’espressione di quegli occhi senza vita. Voleva controllare una volta di più se aveva descritto bene la sofferenza, lo stupore che deriva dal non aver capito il perché della propria morte. Si abbassò un po’, ma la puzza gli penetrò violentemente nelle narici e un violento conato di vomito lo scosse in profondità. Si rialzò e sferrò un calcio stizzito al corpo senza vita, alzando un nugolo di mosche. Andò in bagno e si infilò nella doccia, mentre l’acqua bollente continuava a picchiettargli la schiena si immedesimò in un inquisito ammanettato al banco degli imputati, in attesa della sentenza. Con la fantasia visse chissà quanti processi, così come aveva vissuto a fondo, fino a confondere completamente l’immaginazione con la realtà, le pagine che egli stesso aveva scritto.

L’imputato è colpevole. Deve morire, continuava a ripetersi mentre si asciugava. E mentre si vestiva, e poi camminando per strada verso l’ospedale. E nella sala d’attesa dell’ambulatorio, finché il dottore gli si fece incontro e lo salutò cordialmente tenendo una busta gialla in mano. Alla vista di quella busta Franco aveva improvvisamente sentito il cuore battergli con violenza nel petto, impazzito, come se avesse voluto scappargli via. Il dottore esitò, colpito dal suo aspetto, lo conosceva fin dai tempi della scuola e non l’aveva mai visto in quelle condizioni.

«Ciao, Franco» lo salutò tendendogli la mano, ma Franco non rispose al saluto. «Franco… ti senti bene? Non hai una bella cera» lo incalzò preoccupato il medico, l’altro lo fissava tremando con gli occhi e la bocca spalancati. «Franco… » insisté il suo amico, ma di nuovo lui non rispose. Continuò a guardarlo con espressione folle, gli occhi iniettati di sangue, aspettando la sentenza col fiato sospeso.

«Mi spiace che tu abbia dovuto aspettare tanto, ma i macchinari hanno avuto dei problemi e la maggior parte del personale era in ferie… e poi avevamo un dubbio, che ora finalmente è risolto. I risultati delle tue analisi dicono che… »

«Noooo» gridò Franco, che nella propria mente aveva vissuto mille volte quella scena, si girò su sé stesso e fuggì per sottrarsi alla sentenza. Il dottore lo guardò incredulo correre via, poi cominciò a inseguirlo per fermarlo. Ma pian piano la distanza si era fatta proibitiva, quell’uomo allucinato era inarrestabile. E’ terribile, è proprio come l’ho raccontato. È terrificante… povero Carpetti… povero me… pensava Franco continuando a correre come se alle spalle avesse avuto il Diavolo in persona.

 

CAPITOLO IV (VERSO CASA)

Non è possibile perché proprio io? C’è un errore… ci deve essere per forza un errore continuava a ripetersi Carpetti, seduto sulla poltroncina dell’autobus che lo stava riportando a casa.

“Potrà continuare a lavorare finché se la sentirà. Inoltre la comunità scientifica sta lavorando sodo e sta facendo passi da gigante, è molto probabile che in un tempo così lungo riesca a trovare la maniera per allungarle la vita, se non addirittura una cura definitiva… quindi lei deve cercare in tutti i modi di non lasciarsi andare, di non mollare. In ogni caso posso garantirle che non soffrirà. Non è molto, ma è tutto ciò che posso dirle… mi spiace” gli aveva detto il dottore. D’un tratto Carpetti si sentì come se gli mancasse l’aria, si sbottonò la camicia a quadri e si curvò in avanti, con i gomiti poggiati sulle ginocchia e la busta gialla arrotolata stretta in una mano. Davanti a lui due donne stavano discutendo l’andamento dei prezzi dei pomodori, un’altra, anziana, raccontava a un conoscente le peripezie del figlio emigrato all’estero. Sicuramente c’è uno sbaglio, quello di cui parlano questi fogli non sono di certo io si disse ancora una volta Carpetti, sentiva il bisogno di correre a casa, nel suo rifugio. Là avrebbe potuto pensare un rimedio, trovare una soluzione, avrebbe riletto con calma quei fogli e avrebbe scovato l’errore. Ma la strada non finiva mai, le pensiline delle fermate, coi vetri erano rotti e i poster pubblicitari strappati, sembravano essersi moltiplicate all’infinito. Finalmente l’autobus si fermò giusto davanti al condominio dove abitava, lui scese al volo e salì le scale di corsa, col cuore in gola. Chiuse la porta a chiave e vi si appoggiò contro con le spalle, come per evitare che qualcosa del Mondo esterno potesse penetrare in casa sua a contaminarla. Gettò a terra la giacca si sfilò via la camicia, facendo saltare l’ultimo bottone. Con mani tremanti strappò un lembo della busta, dopo aver riletto chissà quante volte quel foglio si buttò in ginocchio balbettando qualcosa tra sé.

Sudore. Abiti appiccicati addosso a impacciare i movimenti, a renderli perfettamente uguali tra loro come quelli di un soldato che marcia. Il passo risuonava ritmico e veloce, tra i corridoi dai soffitti alti e dalle pareti tinteggiate di bianco plastificato. Franco correva fissando un punto che vedeva soltanto lui, ignorando gli sguardi straniti della persone che al suo passaggio si affrettavano ad appiattirsi contro il muro per evitare di essere travolte. Il cuore sembrava volergli scoppiare nel petto, le vene bluastre sulle tempie si dilatavano sempre di più tendendo ulteriormente la pelle del viso pallido e magro sul quale risaltavano occhi stanchi da pazzo, contornati da un alone violaceo. Sentiva le gambe pesanti come piombo, ogni nuovo passo era una sofferenza indicibile ma lui non poteva fermarsi. Correva per fuggire dall’uomo che lo inseguiva gridando il suo nome e si reggeva gli occhiali per non perderli, quell’uomo con la busta gialla della sua condanna che sorgeva dalla tasca del camice. A ogni passo le spalle di Franco si incurvavano un po’ di più in avanti, i suoi polmoni erano sempre più assetati d’aria, ogni suo movimento sembrava essere l’ultimo prima di una rovinosa caduta. Ma là in fondo c’era la strada, dalla grande vetrata entrava un cubo di sole e lui sentiva già il rombo delle auto ferme al semaforo e la sirena di un’autoambulanza in arrivo. Si guardò le mani che gli apparivano e scomparivano ai fianchi e le immaginò intrise di sangue, gli sembrava che stessero lasciando una scia rossa sul pavimento. E quell’uomo dietro di lui non voleva mollare, non riusciva a raggiungerlo ma non si dava per vinto.

E’ la punizione, pensava Franco mentre ormai era in strada, ma non voglio…..no, non voglio! gridò senza accorgersi delle persone che lo fissavano inorridite. Correva in avanti, senza una méta, ma la sua mente andava all’indietro…

E’ davvero ora che vada a dormire, sono completamente distrutto. No, maledizione, si disse sbattendo un pugno sul tavolo, devo andare a prendere le sigarette. Sono giorni che non fumo, se continuo così impazzisco. Adesso è sera inoltrata e non fa più troppo caldo, non vedo cosa mai potrebbe accadermi di male se esco di casa per dieci minuti. Si infilò frettolosamente una maglietta e passando davanti si soffermò a guardare incredulo la propria immagine riflessa, per un lungo attimo aveva stentato a riconoscersi.

Accidenti, come mi sono sciupato. La barba lunga, questi capelli… e sono anche dimagrito un sacco! E questo sguardo…. non ho mai avuto questa espressione… chi se ne frega, tra pochi giorni andrò in ferie e mi rimetterò in sesto cercò di rassicurarsi, si riavviò con le mani i capelli spettinati e uscì. Devo pazientare ancora solo pochi giorni, poi la convalescenza sarà finita e sarò di nuovo un uomo libero, si stava dicendo poco dopo, mentre tornava a casa con le tasche piene di pacchetti di sigarette. Era ansioso di ritirare il risultato di quei dannati esami che gli avevano azzerato la vita, per potersi finalmente ricongiungere ai suoi familiari. A cavallo di questi pensieri, proprio mentre infilava il vialetto del giardino condominiale giudicando che quella passeggiata gli aveva fatto addirittura bene, si ritrovò disteso a terra perché per un attimo la vista lo aveva abbandonato. Maledizione, ma che accidenti mi sta succedendo? si chiese impensierito, intanto una sensazione simile a quella che aveva descritto poco prima nel suo racconto si stava rapidamente impadronendo di lui. E’ impossibile che io sia malato sul serio, ho sempre fatto vita sana e regolare… e poi non ho mai fatto male a nessuno: non lo meriterei… accidenti, ora parlo proprio come Carpetti! …che stupido, mi sono immedesimato a tal punto che mi sto condizionando da solo! Devo smetterle di pensare a queste sciocchezze! Ma invece, malgrado i suoi ripetuti tentativi di pensare ad altro, quell’angoscia profonda come il mare non voleva proprio saperne di abbandonarlo. Sapendo che teso com’era non sarebbe riuscito a dormire, quando rientrò sedette alla scrivania. Vampate di calore gli salivano dal petto verso le tempie, con mani tremanti aprì il pacchetto e sfilò una sigaretta. La mise in bocca e l’accese, ma non la traspirò perché era ancora spaventato dall’episodio che gi era accaduto poco prima. Trovò che l’odore era buonissimo, gli aveva ricordato la prima sigaretta che aveva fumato tanti anni prima nascosto in giardino, in una bella mattina di Sole. Tirò una boccata e cominciò a tossire. Si sentiva la bocca amara, il sapore sgradevolissimo gli aveva contaminato ogni angolo della lingua e adesso lottava per tenere a freno l’impulso di vomitare. Ma sapeva perfettamente cosa doveva fare per tornare a provare il piacere illusorio del fumo: tirare di nuovo, e poi ancora, e ancora. Aspirò una nuova boccata e la sua tosse si placò, tutto sembrò cominciare a tornare normale.

Potrei chiamare Silvia, magari sentire la sua voce mi calmerebbe… no, è meglio di no. Se la chiamassi a quest’ora, si spaventerebbe. Devo soltanto riuscire a tranquillizzarmi e andare a dormire. Sono solo un po’ stanco, e soprattutto nervoso. Intanto, dopo appena altre due boccate di sigaretta la testa aveva preso a girargli di nuovo e la sua fronte si era imperlata di sudore freddo. Alcune gocce caddero sul foglio a sbiadire le parole scritte da poco, allora si alzò e cominciò a camminare lentamente avanti e indietro per la casa. Sto male, devo sentire Silvia si disse afferrando la cornetta, ma dopo aver composto il numero per metà riattaccò. Andò in camera e si stese sul letto, ma non riusciva a prendere sonno. Una brezza leggera scuoteva le tapparelle producendo un suono simile al ticchettio dei tasti di una macchina per scrivere, il profumo dell’erba umida penetrava fino in casa. Gli tornò a mente la corsa e si rese conto di quanto gli mancasse, il pensiero che presto avrebbe potuto ricominciare ad allenarsi non riuscì a rasserenarlo. E’ inutile pensò dopo aver sbuffato una volta di più. Si portò davanti al frigorifero e prese una lattina di birra, la stappò e si accese un’altra sigaretta, infine tornò ancora una volta a sedersi davanti alla scrivania.