Loe raamatut: «Historische Translationskulturen», lehekülg 14

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4.2.3 Marktwirtschaftliche Anforderungen

Zur Vorbeugung einer Marginalisierung wegen geringer Präsenz auf dem Buchmarkt (vgl. Grutman 2012: 45) herrscht über die Rolle der Binnen- bzw. Selbstübersetzung in der neodialektalen Dichtung Konsens aller an diesem Prozess Beteiligten,1 was die Notwendigkeit einer Übersetzung ins Italienische zur besseren Verständlichkeit der Inhalte betrifft. Zu den Verlagen, die seit den 1960er Jahren zeitgenössische dialektale Werke mit Binnenübersetzungen ins Italienische veröffentlichen, zählen hauptsächlich Nischenverlage, wie die Casa Editrice Menna mit Sitz in Avellino (Kampanien), oder der Verlag Edizioni Cofine mit Sitz in Rom. Zahlreiche Online-Plattformen wie das Centro di ricerca tradizioni popolari „La Grande Madre“ oder die Poeti del Parco, die aus einem Dichter- und Dichterinnenkreis2 entstand, bieten den Autoren und Autorinnen die Sichtbarmachung im Netz in Form von Namenslisten, Biografien, Beispielen aus den literarischen Produktionen mit entsprechender Übersetzung ins Standarditalienische und punktuell mit Rezensionen; zusätzlich organisieren diese Plattformen Lesungen, Kulturveranstaltungen und Preisverleihungen. Auffallend ist die Fülle an Preisverleihungen auf regionaler wie nationaler Ebene, als Beispiel sei hier der jährlich veranstaltete Premio Ischitella-Pietro Giannone für dialektale Dichtung mit Sitz in Ischitella (Foggia) genannt. Bei der Einschreibung zur Teilnahme am Wettbewerb ist eine Übersetzung des eingereichten Gedichts ins Standarditalienische zwingend beizulegen.

5 Résumé

„Molti di noi non lo parleranno mai l’italiano e moriranno in napoletano“1 (De Luca 2001: 20)

Mit diesem Zitat wird die Realität der kleinen vertrauten Welt der eigenen Sprachvarietät angesprochen, die der Realität einer fremden und mächtigen, aber vereinenden Welt der normierten Landessprache gegenübersteht. Noch heute gilt Italien unter den europäischen Nationen als das Land mit dem Privileg, die größte Fragmentierung innerhalb seiner Dialekte aufweisen zu können (vgl. Marcato 2015). Binnenübersetzungen spielen in der italienischen Übersetzungskultur eine wichtige Rolle als Brücke zwischen Hochsprache und Sprachvarietäten bzw. zwischen einzelnen Sprachvarietäten. Auslösende Faktoren für Binnenübersetzungen sind das Bemühen um überregionale Verständlichkeit, größere territoriale Verbreitung von literarischen Werken und höheres Ansehen der eigenen Sprachvarietät. Binnenübersetzungen werden in der Regel als vertikale, asymmetrische Übertragungen bewertet, die horizontale Übertragung gilt als Ausnahme. Ein zentrales Charakteristikum von Binnenübersetzungen ist die Häufigkeit von Selbstübersetzungen, teilweise versehen mit Glossaren, Kommentaren und Reflexionen zum eigenen Werk, um eine bessere Lesbarkeit des Originaltextes zu bieten. Ein weiteres Charakteristikum sind Normbrüche in Form von Parodien angesehener literarischer Werke mit dem Ziel, ein größeres Lesepublikum anzusprechen und eine Aufwertung der eigenen Sprachvarietät zu erreichen. Zur Herausbildung des Segmentes der Binnenübersetzung als Teilbereich der italienischen Übersetzungskultur und untrennbar verbunden mit der questione della lingua tragen identitätsstiftende Bestrebungen, machtpolitische Ansprüche und marktwirtschaftliche Anforderungen bei. Tendenzen zu machtpolitischer Zweckentfremdung konnten festgestellt und können weiterhin nicht ausgeschlossen werden.

Un paese, 6000 lingue:

Binnenübersetzung come ambito specifico della cultura traduttiva italiana

Emanuela Petrucci

1 Cultura traduttiva e concetto di Binnenübersetzung

Il presente articolo si inserisce nel contesto delle riflessioni sulle culture storiche proprie della traduttologia, ponendosi l’obiettivo di analizzare l’area culturale italiana e, in modo particolare, l’aspetto peculiare della Binnenübersetzung, in qualità di componente specifica della cultura traduttiva italiana. In primo luogo, si definiscono i concetti di “cultura traduttiva” e Binnenübersetzung, per passare successivamente a esaminare il ruolo della Binnenübersetzung all’interno della letteratura italiana, dai secoli passati fino ai giorni nostri, alla luce del processo evolutivo della lingua e con l’intento di delinearne le caratteristiche sulla base della letteratura secondaria.

Quando ci si riferisce alla cultura traduttiva si intende “[…] die Praxis der literarischen Übersetzungstätigkeit, die der ‚eigenen‘ Lesekultur ‚fremde‘ Literaturen zugänglich macht und auf diese Weise die ‚eigene‘ Literaturlandschaft ergänzt”1 (Kujamäki 2010: 259). Secondo Kujamäki, l’espressione “cultura traduttiva” è definita da tre aspetti che contemporaneamente rappresentano gli ambiti di ricerca degli studi traduttivi: i fattori storici estrinseci alla traduzione (che cosa, dove, quando, quante volte è stato tradotto?), i fattori storici intrinseci alla traduzione (qual è la natura della traduzione?) e l’analisi delle diverse concezioni relative alla traduzione secondo approcci normativi e aspettative (cfr. ibid.: 261). Considerandone la dimensione storica, nei paragrafi seguenti s’illustrerà brevemente la cultura traduttiva italiana.

In Italia, la pratica traduttiva si svilupperà solo a partire dalla seconda metà del XIII secolo attraverso i volgarizzamenti2, circostanza dovuta al tardivo impiego del volgare come lingua scritta e letteraria rispetto al resto dell’Europa. Se la fase iniziale dei volgarizzamenti (fino alla metà del XIV secolo) si contraddistingue ancora per la presenza di rimaneggiamenti dei testi originali sotto forma di “[…] Einschüben, Aktualisierungen, Vereinfachungen und Umschreibungen”3 (Lieber/Winter 2011a: 1913), successivamente si presterà particolare attenzione allo stile e all’espressività, rinunciando, allo stesso tempo, alla manipolazione del testo di partenza. Attraverso la pratica traduttiva, i volgarizzamenti dei testi classici hanno contribuito “am nachdrücklichsten zu einer Verfeinerung und Ausformung der italienischen (Schrift)sprache und literarischen Kultur bei”4 (ibid.). La varietà dei volgari ed il potenziamento delle loro capacità espressive hanno rappresentato un presupposto decisivo, consentendo alla pratica della Binnenübersetzung di evolversi come segmento specifico nel panorama della cultura traduttiva. Inizialmente, questa pratica è impiegata per l’assimilazione della poesia siciliana nel volgare toscano, mentre a partire dal Cinquecento è intesa come “‚dialektaler Protest‘ gegen das florentinisch-toskanische Primat innerhalb der Literatursprache”5 (Lieber 2011: 1932), per poi giungere nell’Ottocento a una coscienza dialettale “ohne jegliches legitimatorisches Bedürfnis”6 (ibid.) e a una riscoperta del dialetto nel XX e XXI secolo.

Il concetto di Binnenübersetzung è strettamente legato al concetto di “traduzione intralinguistica” di Roman Jakobson, basato sull’interpretazione dei segni verbali. Nel suo articolo “On linguistic aspects of translation” (1959/1995) il linguista russo distingue tre tipi di traduzione: la traduzione intralinguistica, interlinguistica e intersemiotica. I confini tra i singoli tipi di traduzione non sono sempre netti. Jörn Albrecht sottolinea, per esempio, che i confini della traduzione intersemiotica possono essere tracciati in modo più chiaro rispetto a quelli tra la traduzione intralinguistica e quella interlinguistica, dipendendo questi da “welche sprachlichen Zeichen man als zum selben Zeichensystem gehörig ansieht”7 (Albrecht 2008: 12).

La complessità derivante dalla possibile delimitazione dei singoli tipi di traduzione emerge anche dal fatto che possono essere attribuite all’ambito della “traduzione intralinguistica” diverse attività traduttive. Secondo Wolfgang Pöckl sono comprese anche le traduzioni: “[…] aus einem älteren Sprachzustand in den heutigen, aus einem Dialekt in die Standardsprache (und umgekehrt), aus einer medizinischen Fachsprache in die patientenfreundlichere Gemeinsprache, aus der Sondersprache der Drogendealer in die Protokollsprache der Juristen etc.”8 (Pöckl 2007: 73). Anche Özlem Berk Albachten pone l’attenzione sulla sovrapposizione degli ambiti della traduzione intralinguistica e interlinguistica concentrandosi sul concetto di “interdialectal translation” e, per definirlo, fa riferimento ad Anthony Pym: “Translation between idiolects, sociolects, and dialects might be considered ‘no different from those between more radically distanced language systems’” (Berk Albachten 2014: 574). Sempre in relazione ai dialetti, Brian Mossop suggerisce, nel contesto di attribuzioni effettuate in virtù di teorie traduttive, di non assegnare il “dialect rewording” in una lingua al campo intralinguistico, bensì a quello interlinguistico. Egli infatti concepisce la lingua standard e la varietà linguistica come “different ‘linguas’” nel momento in cui un interlocutore di “lingua Y” ha bisogno di aiuto per capire un’affermazione nella “lingua X” (cfr. Mossop 2016: 5).

Secondo Maria Lieber “stellt die Binnenübersetzung, also die im spezifisch italienischen Kontext sprachkulturell verankerte, bewusste übersetzerische Tätigkeit von Autoren, eine durchaus traditionsreiche Konstante der italienischen Übersetzungskultur dar”9 (Lieber 2011: 1932). Robert Lukenda riprende da Lieber la denominazione Binnenübersetzung come peculiarità della tradizione italiana, la cui cultura traduttiva è caratterizzata dalla ricerca secolare di una lingua nazionale sovraregionale (cfr. Lukenda 2014: 43). Lukenda richiama inoltre l’attenzione sulla molteplice funzione della Binnenübersetzung come strumento di mediazione tra lingua e dialetto: “[Ü]bersetzt wurde dabei sowohl in vertikaler Richtung, also vom Standarditalienischen in regionale Varietäten und vice versa, als auch in horizontaler Richtung, d.h. zwischen den einzelnen Dialekten […]”10 (ibid.: 44). Nell’area linguistica italiana non vi è un corrispondente per il termine Binnenübersetzung inteso come ambito specifico della traduzione intralinguistica. Le peculiarità della Binnenübersetzung possono però essere associate al concetto di traduzione endolinguistica (conosciuta anche come intralinguistica) secondo la tripartizione di Jakobson. Lubello (2012: 49) e Desideri (2012: 15) parlano per esempio di autotraduzione endolinguistica o intralinguistica in riferimento all’autotraduzione di Luigi Pirandello dal dialetto siciliano all’italiano o a quella dei poeti neodialettali da un dialetto all’italiano standard e viceversa. Per poter meglio inquadrare il fenomeno della Binnenübersetzung sulla base di un excursus storico della produzione letteraria, è bene considerare prima brevemente l’evoluzione della lingua standard e delle varietà linguistiche presenti in Italia.

2 Cenni storici sulla lingua standard e sulle varietà linguistiche in Italia

La caduta dell’Impero romano d’Occidente nel 476 d.C. e il conseguente epilogo dell’unità politica della penisola italica posero fine all’utilizzo del latino come lingua ufficiale. Solo con la nascita dello stato moderno a partire dal 1861 l’italiano si affermó ufficialmente come lingua nazionale. A partire dal 476 d.C. e ben oltre il 1861, il panorama linguistico italiano si contraddistinse per la presenza di una serie di volgari regionali, sviluppatisi dal latino volgare e solo parzialmente caratterizzati da una tradizione scritta. Per molti secoli tuttavia la lingua dei dotti e quella utilizzata per le comunicazioni scritte rimase ancora quella latina, pur venendo soppiantata in modo lento, ma costante, dai volgari.

Già molto prima dell’unità d’Italia si pose la questione della scelta del volgare più adatto a essere identificato come lingua standard sovraregionale, tema che, nel corso dei secoli, dominò il dibattito linguistico tra i letterati, noto come questione della lingua. Nel XIV secolo, grazie alle opere di Dante e degli altri trecentisti Francesco Petrarca e Giovanni Boccaccio, il volgare toscano fu elevato al rango di lingua letteraria, imponendosi come lingua scritta anche in altri ambiti e ben oltre i confini toscani. Successivamente, nel XVI secolo, la scelta relativa a una lingua “tetto” unitaria ricadde sul volgare toscano dei trecentisti sulla base del canone proposto dall’umanista Pietro Bembo (1470–1547) nel suo trattato Prose della volgar lingua (prima edizione 1525). Si discusse anche su quale nome dare a questa lingua: fino all’unità politica in Italia i termini più frequenti furono “fiorentino”, “toscano” e “italiano”. Nel XV e XVI secolo le opere di grammatici, lessicografi e delle accademie di nuova fondazione, prima tra tutte l’Accademia della Crusca, contribuirono in modo fondamentale alla codificazione del volgare toscano prima, durante e dopo il dibattito sulla lingua. Analogamente, l’invenzione della stampa intorno al 1450 concorse a una normazione linguistica unitaria e promosse la rapida diffusione della lingua scritta.

Al momento dell’unificazione dello Stato italiano nel 1861 solo il 2,5 % della popolazione era italofona. Tra le prime misure volte a favorire l’italianizzazione si annovera l’introduzione obbligatoria dell’insegnamento dell’italiano nella scuola primaria. Rivestirono un ruolo decisivo per una più diffusa affermazione della lingua tra i ceti meno istruiti della popolazione e per il progressivo abbandono dell’uso dei dialetti la leva militare, l’industrializzazione, l’urbanizzazione e l’emigrazione interna (cfr. De Mauro 2002: 44–53). Nel periodo della dittatura fascista (1922/25–1943), successivamente a una iniziale politica linguistica tollerante, si affermò una linea più autoritaria che perseguiva un’imposizione tassativa della lingua nazionale, rifiutando e sopprimendo al contempo dialetti, minoranze linguistiche e influenze provenienti da lingue straniere (cfr. Reutner/Schwarze 2011: 178 sg.). Con l’avvento del boom economico successivo alla Seconda guerra mondiale e con l’influenza consistente dei media audiovisivi si giunse alla definitiva affermazione di una lingua comune (Sabatini/Coletti/Maraschio 2006: 1 sg.; Murrali 2015).

In sintesi, è importante sottolineare che la storia della lingua italiana che abbraccia un arco di tempo di otto secoli – dai volgari illustri, alla sua diffusione e successiva normazione per poi, solo secoli dopo, giungere all’imposizione del toscano illustre come lingua nazionale – rappresenta un processo ancora oggi in corso. La letteratura italiana è da sempre caratterizzata da una reciproca contaminazione tra lingua e dialetto e, secondo Contini (1970: 611), rappresenta “sostanzialmente l’unica grande letteratura nazionale” la cui produzione dialettale è parte imprescindibile del patrimonio culturale. In questo contesto entra in gioco la pratica della Binnenübersetzung “[I]n principio fuit interpres”, scrive Gianfranco Folena nella sua celebre opera Volgarizzare e tradurre (1994: 3) specificando che: “[A]ll’inizio di nuove tradizioni di lingua scritta e letteraria […] sta molto spesso la traduzione”.

3 Binnenübersetzung in Italia: da Anonimo Toscano a Zanzotto

Dante fu il primo a confrontarsi con l’enorme varietà di volgari presenti nella penisola al suo tempo. Nella sua opera il De Vulgari Eloquentia (1303–1305) classificò le quattordici varietà linguistiche principali a seconda delle aree geografiche, affermando: “a considerare anche le varietà‚ secondarie e minime, in questo solo piccolissimo cantone del mondo […] si potrebbe giungere a mille parlate e anche oltre” (Vignuzzi 2010). Da questa ricchezza linguistica scaturì una intensa attività di traduzione. Un capitolo a parte all’interno delle letterature dialettali è riservato proprio alla pratica della cosiddetta Binnenübersetzung che si diffuse a partire dal tardo Rinascimento insieme ai volgarizzamenti (v. Brevini 1999: 1518 sg.; Arcangeli 2015: 12). Il paragrafo seguente tratta una selezione di opere originali inserite nel contesto della Binnenübersetzung, classificate in base alla lingua d’arrivo e all’ordine cronologico.

3.1 Dai volgari illustri al toscano illustre

La pratica della Binnenübersetzung dai vari volgari illustri al toscano illustre affonda le radici nelle trascrizioni manoscritte delle opere originali in siciliano illustre della scuola poetica siciliana del XIII secolo. La motivazione che sottendeva a queste prime forme di traduzione era il desiderio di assicurare e diffondere il sapere del tempo. La maggior parte dei manoscritti fu prodotta a partire dagli ultimi trent’anni del XIII fino al primo decennio del XIV secolo da copisti toscani, tra i quali troviamo sia l’Anonimo toscano che autori conosciuti come Bonaggiunta Orbiggiani o Guittone d’Arezzo. Queste prime forme di Binnenübersetzung rappresentavano una “vera e propria ‘conversione’ da un sistema linguistico a un altro” (Coluccia 2005).

Il prestigioso ruolo riconosciuto al toscano illustre nel dibattito sulla lingua è un’ulteriore motivazione alla trasposizione in toscano illustre di opere scritte in altri volgari. Ne è un esempio l’Orlando innamorato di Matteo Maria Boiardo (1441–1494), il famoso poema epico-cavalleresco in tre volumi redatto in una variante linguistica che presenta influenze del volgare settentrionale, in particolare padano. In seguito al dibattito sulla lingua del XVI secolo, questo volgare venne considerato meno autorevole, alcuni studiosi si impegnarono quindi a realizzare una nuova versione dell’opera in volgare toscano. La versione del poeta toscano Francesco Berni dell’Orlando innamorato (1541), la più conosciuta fino al XIX secolo, presenta, rispetto all’originale, un adattamento ai gusti dell’epoca con la presenza di passaggi burleschi (cfr. Mutini 1967).

La trasposizione di opere da un volgare illustre al toscano illustre aveva, inoltre, l’obiettivo di consentire una migliore comprensione e una maggiore fruizione dei relativi contenuti. L’autore veneziano Carlo Goldoni (1707–1739), nonostante mostri una grande consapevolezza verso la propria varietà linguistica, decise di trasporre in toscano ampie parti delle sue commedie redatte in veneziano “per essere inteso in Toscana, in Lombardia e in Venezia” (Trifone 2015: 198). Le corredò, inoltre, di glossari contenenti singole espressioni per facilitarne la comprensione ma “ohne purifizierende Intention”1 (Lieber/Winter 2011b: 1928).

La pratica della Binnenübersetzung dal volgare illustre al toscano illustre assunse un ruolo importante anche nella ricerca di una lingua letteraria sovraregionale, quale fondamento per il successivo sviluppo di una lingua nazionale. A questo proposito, Alessandro Manzoni (1785–1873) rielaborò due volte la prima stesura del romanzo I promessi sposi, compiendo lui stesso un’opera di traduzione interdialettale nell’ambito della sua revisione linguistica. Tale pratica lo portò quindi a realizzare, partendo da una mescolanza di lombardismi, toscanismi e francesismi, la terza edizione del 1840 redatta in fiorentino contemporaneo. La toscanizzazione dell’opera durò quasi vent’anni (cfr. Lieber 2011: 1932 sg.; Lukenda 2014: 44 sg.).

3.2 Dal toscano illustre ai volgari illustri

Il classico della letteratura toscana, la Divina Commedia di Dante Alighieri (1265–1321), diventò a partire dal XIX secolo oggetto di una “vera e propria Dantemania” (Basile 2015: 15). Tra l’elevato numero di trasposizioni dell’opera, anche di natura parodistica, in diverse varietà linguistiche regionali si annoverano traduzioni sia di canti scelti, sia anche dell’intera opera (ibid.: 19). La prima traduzione fu pubblicata sotto forma di parodia e porta la firma del poeta dialettale milanese Carlo Porta che, all’inizio del XIX secolo, tradusse in lombardo alcuni canti della Divina Commedia (cfr. Isella 1970). Alla fine del XIX secolo furono pubblicate le prime due traduzioni complete della Divina Commedia: nel 1875 la versione veneziana di Giuseppe Capelli e nel 1892 quella calabrese di Salvatore Scervini. Nel suo trattato Riprodurre il senso o la forma (2009) Fiorenzo Toso analizza i diversi approcci alla pratica della Binnenübersetzung, prendendo ad esempio tre traduzioni in genovese dei seguenti autori: Gian Battista Vigo (1889), Angelico Federico Gazzo (1909) e Silvio Opisso (1950). La versione popolare e a tratti parodistica di Vigo ha prevalentemente un valore di intrattenimento, mentre Gazzo aspira a dimostrare le abilità espressive del “suo” genovese illustre e Opisso si sofferma prioritariamente sulla riproduzione del contenuto, talvolta anche a discapito della purezza linguistica (cfr. Toso 2009: 40 sgg.).

Nella seconda metà del XVI secolo il Decameron (1349–1351) di Giovanni Boccaccio (1313–1375) fu sottoposto a una revisione contenutistica e linguistica che prevedeva la trasposizione dal fiorentino del XIV secolo a quello del XVI secolo. Contestualmente a tale processo anche il fondatore dell’Accademia della Crusca, Leonardo Salviati (1540–1589), si dedicò all’opera del Boccaccio e, nell’ambito del dibattito sulla questione della lingua, decise di far tradurre la nona novella della prima giornata intitolata La dama di Guascogna e il re di Cipro in dodici varietà della lingua italiana. Da un lato, questo confronto doveva rendere visibile la continuità linguistica tra la versione fiorentina originale del XIV secolo e quella in fiorentino moderno, evidenziando, dall’altro, anche le grandi differenze con le varianti regionali non appartenenti al toscano quali il bergamasco, il veneziano, il friulano, l’istriano, il padovano, il genovese, il mantovano, il milanese, il bolognese, il perugino e il napoletano. La variante romana non fu presa in esame, mentre quelle delle regioni meridionali furono accorpate ai dialetti napoletani (cfr. Finco 2014: 315). Nel 1875, in occasione del 500° anniversario della morte del Boccaccio e come contributo alla dialettologia, il biografo livornese Giovanni Papanti pubblicò I Parlari Italiani in Certaldo nel V Centenario di Messer Giovanni Boccacci, una raccolta di traduzioni della suddetta novella nei dialetti di 704 località (Vignuzzi 2010).

Nel 1540 un traduttore anonimo traspose il poema l’Orlando furioso (1532) di Ludovico Ariosto (1474–1533), scritto nel volgare illustre toscano, in dialetto bergamasco con il titolo Roland furius de Mesir Lodevic Ariost. Stramudad in lengua bergamesca. Nel 1582 furono pubblicati in dialetto padovano, in una versione anch’essa anonima ma di genere parodistico, Li tre primi canti dell’Orlando furioso tradotti in lingua rustica padovana.

Un’ulteriore opera redatta in toscano illustre che diede origine successivamente a innumerevoli pratiche di Binnenübersetzung nelle varianti dialettali non toscane è La Gerusalemme Liberata (1575) di Torquato Tasso (1544–1595). Il poema eroico divenne oggetto di parodie e travestimenti burleschi nel XVII e XVIII secolo. Fu un esempio di variante popolare a quella toscana la versione in dialetto bolognese di Giovanni Francesco Negri intitolata Tradottione della Gerusalemme liberata del Tasso in lingua bolognese popolare (1628). Una reinterpretazione parodica delle gesta eroiche è invece la versione bilingue veneta di Tommaso Mondini El Goffredo del Tasso cantà alla barcariola (1693) (cfr. Lasagna 2001). Tra le trasposizioni parziali e integrali in altre varietà regionali si annoverano le versioni nelle varianti linguistiche delle città di Belluno, Bergamo, Genova, Milano, e Perugia e della regione Calabria (cfr. Serassi 1785: 562–563). La trasposizione in napoletano intitolata Gierusalemme Libberata de lo sio Torquato Tasso fu realizzata dall’ecclesiastico Gabriele Fasano (1654–1689), il quale, pur impostando la sua traduzione sotto forma di parodia, non la interpretò come pura e semplice rivisitazione burlesca dell’originale ma come una possibilità di riflessione sugli aspetti linguistici (cfr. Marotta 1995). Il suo intento, inoltre, era quello di dimostrare che anche un’opera letteraria così complessa come quella del Tasso poteva essere tradotta in napoletano illustre senza dover ricorrere al linguaggio comune o a espressioni popolari. La prima edizione del 1689 si propone come un’edizione bilingue di lusso con la versione originale del Tasso in toscano e fu dedicata all’aristocrazia napoletana come segno di ringraziamento per il sostegno economico ricevuto (cfr. De Maio [2012]). Partendo dalla versione originaria di Fasano in napoletano se ne pubblicarono altre sette edizioni, l’ultima a cura di Vito Pinto è del 2013: intitolata Lo tasso napoletano è completata da una traduzione in italiano.

Già nel XV secolo Venezia si era affermata come capitale dell’editoria, trasformandosi in un “Zentrum der dialektalen Binnenübersetzung”1 (Lieber/Winter 2011b: 1928). Così nel 1747 Giuseppe Pichi tradusse dal toscano in veneziano un’opera della letteratura italiana di carattere squisitamente popolare. Si tratta della traduzione dei racconti popolari di Giulio Cesare Croce (1550–1609) e Adriano Banchieri (1568–1634) con il titolo Bertoldo, Bertoldin e Cacasenno (1620). La versione di Pichi, intitolata Traduzion dal Toscan in Lengua Veneziana de Bertoldo, Bertoldin e Cacasseno, si presenta in due lingue ed è corredata non solo da un glossario, ma anche da modi di dire veneziani con relative spiegazioni.