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Loe raamatut: «Il ponte del paradiso: racconto», lehekülg 12

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XIII.
Triste risveglio

Ma aveva poi parlato Filippo Aldini? Bene lo aveva promesso a lei, sulla sua fede di gentiluomo; ed ella doveva crederlo risoluto, come le era apparso sincero. Quella fiducia si era avvalorata in lei vedendo ritornare a casa Raimondo così profondamente turbato: ma la fiducia si era dileguata oramai, e tanto più facilmente quanto era stato più rapido il trapasso di Raimondo dalla insolita tristezza al buon umore consueto.

Ch'ella si fosse ingannata nei suoi sospetti? Si trattava egli davvero d'una somma di denaro in pericolo? tutto si riduceva egli adunque ad un episodio volgare della vita bancaria, sempre seminata di rischi? In questo caso, bisognava concludere che Filippo non avesse ancora parlato, e che tutto il rimescolo di Raimondo dipendesse da quell'altra cagione, che le era parsa insufficiente a produrlo. Ma allora, perchè aveva indugiato l'Aldini a parlare? Quando aspettava egli a farlo, mentre il farlo era più urgente che mai?

Ah quella lettera! quella lettera, se a lei fosse riuscito di leggerla, le avrebbe dato modo di procedere a più sicure induzioni. Senza dubbio, quella lettera usciva dal banco Zuliani; lo diceva la busta con tanto di bollo; lo diceva la nota calligrafia commerciale del signor Brizzi degnissimo. Ma il foglio che c'era dentro, che cosa portava nelle sue pieghe? proprio la notizia che un debitore non era scappato?

Questi pensieri, tutti intessuti di dubbi angosciosi, dovevano tenerla quella notte ben desta, facendole dar volta ad ogni momento nel suo letto, sotto gl'impulsi d'una febbrile inquietudine. A un certo punto non seppe più trattenersi. Scivolò dalle coltri, indossò la sua veste da mattina e passò nell'abbigliatoio, che separava la sua dalla camera del marito. Muovendo leggera leggera si accostò all'uscio di questa, e stette un pezzo origliando, per assicurarsi che Raimondo fosse ben preso dal sonno. Di solito, quando dormiva, Raimondo dormiva sodo. Ma come fu lunga per lei la fatica di girar la maniglia che teneva chiuso quell'uscio, traendola così delicatamente, così lentamente, che la toppa non avesse a cantare! Raimondo, benedetto lui, non avrebbe sentito neanche il cannone. E finalmente, se si fosse risvegliato, non mancavano pretesti a giustificare l'apparizione notturna di lei. Poteva dire, ad esempio, di essersi turbata, sentendolo parlare, o dolersi in sogno, come alle volte accade. Ma allora, addio lettera: e su quella lettera appunto bisognava metter la mano.

L'uscio era aperto senza rumore, e Livia entrò guardinga nella camera; inoltrandosi alla fioca luce della finestra, arrivò strisciando fino alla spalliera di un canapé, dove ella sapeva che suo marito usava gittare i suoi abiti. Allungò il braccio, palpò destramente, trovò il soprabito, e ficcò la mano nella tasca di petto; ivi sentì il portafogli, e accanto al portafogli una busta. Era quella? A buon conto la prese, e così lieve lieve com'era venuta, si ritrasse, strisciando sul molle tappeto, fino alla camera sua. Là dentro, al lume di una lampadina da notte, guardò ansiosamente la busta. Era proprio quella, col bollo del banco, e la soprascritta già da lei ravvisata. Tosto, con ansia indicibile, e con pari sollecitudine, ne estrasse il foglio, e lo spiegò, accostandolo quanto più poteva al cristallo. Ah! non c'era più da ammirare là dentro la calligrafia commerciale del signor Brizzi; bensì da stupire, e come! davanti ad una mano di scritto meno regolare, senza sfoggio di filetti e svolazzi, tutta personale, asciutta, rigida, e chiara, poi, chiara fin troppo! Filippo aveva dunque parlato? Sì, certamente, poichè egli appunto scriveva.

Ah, bravo! anche la malizia dello scrivere all'amico sotto la copertina del banco? Tutto ciò, ben inteso, per non dar nell'occhio a lei, per guardarsi da una sua indiscrezione. E come aveva dovuto lavorar di fine, per giungere a tanto! Il banco Zuliani si soleva chiudere poco dopo la partenza del principale. Per usare a quel modo della carta del banco e dell'opera del suo segretario, il conte Aldini era andato a scovare il signor Brizzi. Come ciò fosse avvenuto, s'indovinava benissimo: dal Quadri, ove pranzava l'Aldini, al Cappello Nero, ove il Brizzi faceva i suoi pasti, non era lunga la strada.

Queste cose pensò in un baleno; frattanto leggeva il biglietto. Così scriveva brevemente l'Aldini a Raimondo:

“Hai ragione, ed io sono un pazzo. Ma se tu vedessi nell'anima mia!.. Basta, io non ti dirò altro dei miei turbamenti. Vedi pure il signor Anselmo; io non ho più nulla da opporre alle tue argomentazioni, segnatamente all'ultima, che mi ha troppo commosso. Ah, Raimondo, Raimondo! Tu eri ben degno d'un amico migliore.

“Il tuo Filippo Aldini.„

E nient'altro: ma quel tanto bastava ad illuminare la signora Zuliani. “Vedi pure il signor Anselmo; io non ho più nulla da opporre.„ Oh, caro! Si era egli dunque finito di persuadere da sè? C'erano molte più cose da opporre a lui, e alle sue facili persuasioni. Ma non c'era tempo da perdere. Livia rilesse il biglietto, per non dimenticarne una sillaba; poi lo ripose nella sua busta, e com'era andata una volta, così guardinga ritornò nella camera di suo marito; rimise la lettera al suo posto, mentre Raimondo seguitava a dormire, e si ridusse nella sua camera. Soltanto allora poteva dar libero corso allo sdegno ond'era tutta invasata.

– Ah no! non sarà come tu la pensi, cacciatore di doti! Saltasse il mondo, questa non la spunterai, te lo prometto. Ed io, quando prometto, mantengo. —

Così borbottava tra i denti, mentre la sopraccoglieva un gran freddo, obbligandola a rimettersi in letto. Indossava ancora la veste da camera, e non ci aveva neanche badato. Tra poco, al gran freddo sarebbe succeduto un gran caldo; tanto già incominciava la febbre a darle travaglio. E rileggeva con gli occhi della mente il biglietto fatale. “Vedi pure il signor Anselmo„. Ma dove, se il signor Anselmo era a Milano? Che, forse era egli per giungere a Venezia? Ma sì, l'ordine dato da quell'altro di esser destato alle sette, non indicava che volesse andargli incontro alla stazione? Si faceva tutto a gran furia; e sul tamburo la scritta nuziale! Ah, no, mille volte no! Ella non voleva; non avrebbe mai consentito.

Filippo adunque perduto irremissibilmente per lei! E di lei si era fatto giuoco, il vigliacco! Ogni tentativo, pur troppo, le era andato a male. Aveva parlato alle signore Cantelli, seminando accortamente sospetti; e Raimondo si era affrettato a dissiparli. Curiose quelle donne, che si lasciavano così facilmente persuadere, tanta era la fretta di acciuffare un marito! Aveva parlato a Filippo, ottenendo da lui la promessa di resistere; e Raimondo era venuto a capo di persuadere anche quello, facendogli rimangiare la sua sacra parola. Con tante fatiche, non era dunque riuscita a nulla? E non le si offriva nient'altro, per muovere alla riscossa, per mettere a segno il cacciatore di doti? Ah, se avesse potuto discorrer lei, col banchiere Anselmo! Quello non doveva avere la stupida fretta delle sue donne, e neanche gli stolidi capricci del suo collega di Venezia; quattro ragioni spiattellate lì, senza tanti rigiri, lo avrebbero convinto della necessità di rompere quei negoziati vergognosi. Che cosa gli avrebbe detto? Non lo sapeva ancora; si sarebbe buttata là a capo fitto, anche a rischio di confessargli ogni cosa di sè. Lo sdegno non ragiona; può passar sopra alla vergogna. L'essenziale, per lei, era di vincere.

Ma come poteva sperare di veder subito il banchiere Cantelli, e senza importuni alle costole? Ci pensava, e mulinava disegni, l'uno più sottile e più pazzo dell'altro. Lo sdegno intanto cresceva, cresceva come un fiume in piena, che raggiunge il colmo degli argini, li sormonta e dilaga. Il sangue le dava tuffi frequenti; le tempia le ardevano; le si offuscavano gli occhi. Filippo sposo! Filippo che si rideva di lei e delle sue furie impotenti! Ah, il signorino, il bel conte, così mutato da quello di un giorno! Perchè egli, con tutti i suoi rimorsi, con tutte le sue prudenti esortazioni, non poteva negare a sè stesso di averla ricambiata di amore. Gli avrebbero dato, se mai, una solenne mentita le sue medesime lettere, piene di soavissime cose. Bruciando per tutte le membra, non potendo più stare sotto le coltri, si alzò di scatto, mosse alla volta di uno stipo che stava appoggiato contro la parete, lo aperse, e toccato un segreto nel fondo, ne fece uscir fuori un involtino di carta. Erano lì, strette da una fettuccia color di rosa, le lettere di Filippo Aldini.

Non molte, per altro; l'amico era assai presto diventato sospettoso e prudente: tanto prudente, che si era fatto promettere da lei di bruciare quegli otto o nove messaggi d'amore. Che bisogno di conservarli, se durava nei cuori il sentimento gentile ond'erano stati ispirati? Così egli diceva. Ma qual donna innamorata, o che tale si creda, accetterà mai il consiglio di distruggere i dolci ricordi del tempo felice, i cari trofei della sua stessa vittoria? Aveva promesso di bruciare, ed aveva conservato; rileggeva allora, e si esaltava sempre più. Scoccarono le cinque, ed ella non aveva anche finito di sfogliar quelle pagine, di notarne i pensieri, di meditarne le frasi, di richiamarsi alla mente le sensazioni che s'erano accompagnate alla prima lettura. E se quell'altro si fosse destato? Se udendo il fruscìo delle carte, od altro lieve rumore nella camera di Livia, e imaginando ch'ella non dormisse più, fosse comparso là, dall'uscio dell'abbigliatolo, e l'avesse colta in sull'atto dell'amorosa lettura? Ebbene, comparisse pure, lo spettro della vendetta. Oramai, ella non reggeva più alla violenza del suo dolore; ogni altro male sarebbe stato un sollievo. Ma egli dormiva ancora, dormiva sempre il sonno del giusto; e Livia ebbe tempo a rileggere, a meditare, a richiamar sensazioni antiche, poi a rifar l'involtino, a rimetterlo nel suo cassetto d'acero, e a richiuder lo stipo.

Il freddo la riprendeva, ed ella ritornò a rannicchiarsi nel letto, formando sempre nuovi disegni, non trovando mai nulla che valesse, rabbrividendo, fremendo, gemendo, e nella sua disperazione chiedendo a Dio che la facesse morire. Il mondo le pareva un buio deserto, oramai, se le mancava Filippo, se Filippo doveva appartenere ad un'altra. E vedeva la puppattola sciocca, bianco rosata sotto le ciocche luccicanti dei suoi capelli neri; la vedeva lieta, trionfante, venirle incontro con un sorriso che tradiva lo scherno, per ringraziarla dell'esser venuta ad assistere alla cerimonia nuziale. E a quella, e ad altre feste doveva esser presente la moglie di Raimondo Zuliani, autore glorioso e dissennato della felicità del suo caro Filippo. Ah no, per la collera di Dio, che punisce i traditori, quella felicità non sarebbe giunta a maturanza; no, no, mille volte no; sarebbe morta, piuttosto, ma della collera divina sarebbe stata lei lo strumento.

Intanto albeggiava; il cielo si tingeva di un tenue chiaror cenerognolo, sui tetti dei palazzi nereggianti in grandi masse dall'altra riva del Canal Grande. Ed ella ancora non aveva chiuso occhio; e quell'altro seguitava a dormire, più saporitamente che mai. Attraverso gli usci dell'abbigliatolo, Livia ne udiva il respiro largo, profondo, monotono nel suo ritmo uniforme.

– E tu dormi, sciocco! – mormorava ella, stizzita. – Così tu hai sempre dormito. —

Infatti, che cieca fiducia, in quell'uomo! Quante volte non si era ella trovata sul punto di essere scoperta! Ogni altro si sarebbe insospettito di meno; egli no. Gran fede! gran fede! Si fonda una religione, colla fede, non si governa una donna. Ed era stato lui, a tirare in casa il bel conte; lui a magnificarne ogni atto, ogni parola, ogni gesto; tanto che, sul principio, ella ne era seccata parecchio, avendo perfino accolto nell'anima il sospetto che il suo Raimondo, senza volerne aver l'aria, fosse noiato di lei e chiamasse un aiuto a portar la sua croce. Ma che cosa aveva di tanto miracoloso, quel conte? Era bello, sì, senza eccesso; elegante con misura; scarso di parole, che parevano tutte assai meditate; spesso e volentieri taciturno; sempre in atteggiamento pensoso. Forse per questo lo dicevano un uomo fatale? La uggivano maledettamente, gli uomini fatali. Ma intanto, volere o no, poichè egli era entrato nelle grazie di Raimondo, bisognava studiarlo, ed anche poteva essere utile studiarlo per indovinare con qual segreta malìa avesse egli incantato parecchie bellezze, delle quali in ogni ritrovo più o meno aristocratico si bisbigliavano i nomi. Ahimè, studiare è principio di amare; e quando la signora Livia ebbe molto studiato, si ritrovò pazzamente innamorata del conte Aldini. Un amor pazzo non è sempre, anzi non è quasi mai un amor vero; non è certamente un amore profondo; nasce dal cervello e non dal cuore; l'imaginazione lo ha concepito, il sentimento la ha tenuto a battesimo, secondo l'usanza di tanti padrini, senza calcolar troppo i suoi obblighi. Così travolta dall'impeto della passione, era stata lei la prima cagione del male onde ora aveva a dolersi. Il suo amor proprio non le permetteva di confessarlo; alla peggio, la colpa di tutto andava ascritta a Raimondo. E certo, quel marito non era stato prudente, nè savio: felice tra due diversi affetti dei quali sentiva bisogno il suo gran cuore, non aveva veduto nulla, sospettato di nulla; beatissimo uomo, aveva dormito tra due guanciali, proprio come in quel momento faceva.

Ma per allora, a buon conto, l'amico doveva risvegliarsi. “Paron Nane„ aveva bussato due volte all'uscio della sua camera, discretamente la prima, più forte la seconda; finalmente, a rompergli l'alto sonno nella testa, era entrato, portando il vassoio del caffè, secondo l'ordine ricevuto.

Livia sentiva dalla sua camera la voce del vecchio servitore che riscuoteva Raimondo, e tosto quella di lui, che destato in soprassalto chiedeva:

– È già l'ora?

– Sono le sette, signor padrone; – rispondeva quell'altro. – Non mi ha ordinato di svegliarla ad ogni costo?

– Sì, sta bene, sta bene; versate il caffè, paron Nane, – replicava Raimondo. – Ma in verità, dormivo così di gusto! —

Le sette scoccavano infatti all'orologio dell'anticamera. Le sette; e Livia aveva passata tutta la notte insonne! E il sangue le ribolliva nelle arterie, pulsando forte, martellando alle tempie.

Già Raimondo era sceso dal letto, ed ella lo sentiva andare e venire nella fretta del vestirsi, poi richiamare il servitore e ordinargli che la gondola fosse pronta per le otto alla scalinata del palazzo. Un'ora, dunque, un'ora appena doveva passare, ed egli sarebbe uscito, sarebbe corso dove lo chiamava il suo matto desiderio di far la gente felice. Ella, intanto, era fuori di sè. Tremassero i felici, ai quali Raimondo dedicava le sue cure amorevoli: ella sentiva una voglia furibonda di balzare dal letto, di fare un chiasso, di romperla con ogni riguardo, come con ogni paura. Non ne poteva più, non ne poteva più; o sfogarsi, o morir soffocata.

Raimondo era entrato nell'abbigliatoio; Raimondo veniva ad aprir l'uscio della camera di lei; Raimondo appariva sulla soglia.

– Livia, dormi? – chiedeva egli a bassa voce.

– Che! – rispose lei, coll'accento sdegnoso che Raimondo conosceva così bene, e a cui così bene, se non volentieri, si adattava da un pezzo. – Ma si può egli sapere dove corri a quest'ora?

– Non corro, come vedi; vengo a darti il buon giorno. Per uscire c'è tempo ancora; ma volevo esser pronto: il sonnellino d'oro è così traditore, che guai, a fidarcisi! Debbo trovarmi alla stazione intorno alle nove. —

Ella ebbe al cuore un sussulto violento. Non si era dunque ingannata; Raimondo muoveva ad incontrare il Cantelli. Ma volle averne l'intiero da lui.

– Alla stazione! – ripetè, simulando un alto stupore. – E perchè?

– Sai, arriva questa mattina l'amico Anselmo; – rispose Raimondo.

Non le diceva nulla ch'ella già non sapesse: pure il sentirselo confermare da lui, le diede una stretta dolorosa.

– Ah! – esclamò con accento sardonico. – Sempre per quel matrimonio!

– Ma sì; – diss'egli, stropicciandosi le mani. – Oramai siamo alle porte coi sassi.

– Davvero? – ripigliò la bella sdegnosa. – E si contenterà di quattro sassi sul parmigiano, il babbo dei sette milioni?

– Si è già contentato, mia cara; egli viene soltanto per conoscere il suo futuro genero. Quanto agli interessi, – concluse Raimondo, – avevamo già tutto combinato in questi giorni per lettera. —

Livia si morse le labbra a sangue.

– Che scioccheria! – gridò, esasperata. – Ma che ti salta in mente di far dei felici a loro malgrado?

– A loro malgrado? – ripetè Raimondo. – Spero di no. Si amano tanto! —

Quelle parole, con tanta calma proferite, giunsero aspre al cuore di Livia, acute, cocenti, come un ferro arroventato. Si era rizzata sulla vita, puntando una mano sul letto e con voce stridente gridava:

– Si amano, hai detto? Egli ama dunque davvero quella donna? E non la dote?

– Ma che dote! Ne abbiamo già discorso una volta, e speravo di averti disingannata su questo proposito. L'ama, ti ripeto; me lo confessava ancor ieri; l'ama di un amor disperato.

– E sia; – riprese ella, fremente. – Ma il tuo Aldini non può sposar quella donna.

– Perchè? – domandò Raimondo. – Che vincoli lo potrebbero trattenere?

– Vincoli, o riguardi da buon cavaliere, dovrebbero esser tutt'uno; – replicò ella concitata.

– Ah, vuoi parlare di antiche fiamme? – disse placidamente Raimondo. – Storie del vecchio Testamento, mia cara.

– Eh, non tanto vecchio come tu credi. – Raimondo tentennò la testa, in atto d'uomo che fosse ben sicuro del fatto suo.

– T'inganni, bella mia, t'inganni; – ribadì, più placido che mai. E per un momento, sappi, m'ero ingannato ancor io. Vedendolo sempre così incerto, così facile a volere e a disvolere, mi era passato per la mente quel che tu dici. E gliene domandai, senza tanti preamboli. Figúrati che a tutta prima voleva dirmi di sì. Ma lo faceva parlare in questo modo l'eterna paura di sembrare un uomo interessato, quel che tu dici un cacciatore di doti. Ma io l'ho confessato per bene, sai. Ha dovuto convenire di esser libero, liberissimo di ogni specie d'impegno; così, su tutti i punti ho avuto il piacere di vincerlo. —

Livia guardò suo marito negli occhi. Le parve orribile, con la sua faccia fresca, con la sua asseveranza, con la sua serenità imperturbabile, e più coi suoi canti di vittoria.

– Dunque, tu credi che non abbia vincoli di cuore?

– Lo credo fermamente.

– Sciocco! – gridò la fiera donna, divorata dalla febbre, divampante di collera. – Apri quello stipo; c'è ancor la chiave nella toppa. —

A quelle strane parole Raimondo diede un balzo sulla poltrona ov'era andato a sedersi, presso il letto di sua moglie, fin dal principio del loro colloquio mattutino.

– Che è ciò? – diss'egli turbato. – Che cosa ho io da vedere là dentro?

– Il tuo disinganno, se credi l'Aldini un fior di cavaliere. Ah, egli si è fatto ben pregare, per ingannare te, per ingannar la tua Margherita, per ingannare la signora Eleonora, il banchiere, e tutti quanti. Non ama la tua puppattola, te lo dico io; non l'ama d'amore. Apri!

– Ma, in nome di Dio, che cosa c'è là? – gridò Raimondo, irritato.

Attraverso i vapori della febbre, un lampo di ragione era passato per la mente di Livia, rischiarandole il vuoto di un abisso pauroso. Ma ella non era più in tempo per dare indietro; e del resto, a qual pro? Non era meglio finirla una volta, e per sempre, anzichè dibattersi vanamente tra gl'impeti della gelosia furibonda e dell'ira impossente?

– C'è un involtino di lettere; – rispose, con voce mezzo soffocata da un tuffo di sangue alla gola; – lettere del tuo cavalleresco Aldini… ad una signora. —

Una nube si era stesa sugli occhi di Raimondo; ma egli trovò ancora tanta forza nell'animo per discacciarla da sè.

– E tu, – diss'egli, tentando di dare aspetto di celia ad un modesto rimprovero, – e tu hai fatto da segretaria?

– Apri e vedrai; – replicò Livia, impaziente.

Raimondo andò barcollante verso lo stipo; girò la chiave, e fece cadere lo sportello a ribalta, mettendo in mostra parecchi scompartimenti di cassettini e ripostigli in bella ordinanza disposti a parecchi ripiani, nei quali il mògano si alternava coll'àcero.

– Dove? – chiese egli, non sapendo in qual punto metter la mano.

– A sinistra, il cassettino più basso; fallo scorrer fuori; troverai un assicella di legno bianco. Ancora a sinistra, premi col dito; salterà. —

Egli aveva macchinalmente obbedito alle istruzioni di Livia. L'assicella, premuta appena, scattò, discoprendo il ripostiglio segreto. In quel ripostiglio giaceva un involtino di carta bianca, legato da una fettuccia color di rosa.

Le afferrò, ne sciolse il legaccio, spiegò il foglio, e ne trasse fuori un mazzettino di lettere, che portò nel vano della finestra, sotto la luce scialba di quel mattino invernale. Non avevano soprascritta; certo erano state cambiate le buste. Aperse la prima; gittò un'occhiata sui primi versi dello scritto, e mise un grido; aperse la seconda, lesse ancora poche parole, e il grido di doloroso stupore si mutò in urlo di belva ferita. E ancora aveva sperato, poc'anzi; aveva sperato d'imbattersi in segreti altrui, che poco o punto gli dovesse importar di conoscere. Avrebbe guardato, per contentare sua moglie, strana donna in verità, che di altrui debolezze non si sarebbe dovuta occupare; avrebbe guardato, e non letto. In quella vece… “Mia Livia„, diceva incominciando la prima lettera che gli era venuta sott'occhio; “Adorata„, diceva la seconda; ed anche quella s'intendeva dal contesto che fosse per lei.

– Ah, per l'anima mia! – ruggì, più che non gridasse, il disgraziato Zuliani.

E non voleva più veder altro; il demone della gelosia lo mordeva al cuore; lo torturava l'orgoglio ferito; lo straziava l'amore umiliato. Ma se non fosse vero niente? Se gli occhi suoi avessero traveduto? E leggeva ancora, leggeva con rabbia crescente, cercando invano il segno della innocenza di lei, come della sua propria follìa, e cacciandosi sempre più profondo il ferro nella piaga. Apriva buste, e le gittava sul tappeto, scorreva foglietti e cartoncini, che si venivano l'un dopo l'altro spiegazzando tra le sue dita convulse; ruggiva, intanto, con la schiuma alla bocca e gli occhi iniettati di sangue. Così trangugiato sino alla feccia il suo calice di amarezze, stringendo i fogli maledetti nel pugno, tremando tutto di vergogna e di collera, balbettando parole sconnesse, si volse e andò minaccioso verso il letto.

Ella era là, poggiata sul gomito, con gli occhi sbarrati, e rideva, rideva d'un riso spasmodico. Ma tosto gettò un grido, e diede in uno scoppio di pianto.

– Uccidimi! uccidimi! – mormorò tra i singhiozzi. – Almeno non inganni più te, nè altri, il miserabile! Uccidimi, Raimondo! Amerò la morte, se mi viene da te. —

E già Raimondo si scagliava su lei, con gli occhi fiammanti e con le mani levate.

– Tu… disgraziata… – proruppe, ma non potendo dir altro.

Le parole gli gorgogliavano nella strozza; ed anche i pensieri si agitavano confusi nel suo cervello. Guardò la disgraziata, che ansante e palpitante, riarsa dalla febbre, con atto disperato protendeva il collo verso di lui, come implorando la stretta fatale; mise un urlo di fiera, quasi volesse coll'urlo stimolarsi a vendetta; ma le sue mani levate a minaccia non si aggravarono su lei: una forza arcana combatteva i suoi feroci propositi, trascinandolo indietro.

– Tu… disgraziata, – ripetè allora, in uno sforzo supremo, – vivi colla tua onta, se puoi. Non macchierò le mie mani nel sangue di una donna. —

Ella si era precipitata dal letto, avvinghiandosi alle ginocchia di lui.

– Una disgraziata, sì, hai detto bene; – gemeva. – Uccidimi! uccidimi! —

Rispose egli alla preghiera con un gesto sdegnoso; e poco potevano trattenerlo le braccia di lei. Cacciati in tasca i fogli spiegazzati, dei quali aveva già fatto nel colmo dell'ira un batuffolo, afferrò i polsi di lei, premendo così forte, da strapparle un grido d'angoscia, e da costringerla tosto, sebbene riluttante, ad aprire le palme.

– Va! – disse ancora, respingendola a tutta forza, per modo ch'ella andò riversa sul pavimento.

Fu quella l'unica violenza usata da Raimondo Zuliani contro la donna che lo aveva così crudelmente ingannato, e più crudelmente levato d'inganno.

Si rialzò la misera Livia sulle ginocchia, supplicando. Non diede ascolto Raimondo, e fuggì.

Vanusepiirang:
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Ilmumiskuupäev Litres'is:
25 juuni 2017
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