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Loe raamatut: «Il ponte del paradiso: racconto», lehekülg 13

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XIV.
È il destino!

Livia era rimasta spossata, fisicamente e moralmente spossata, inerte il corpo, inerte la mente. Soltanto dopo un tratto di tempo, cedendo alla sensazione del freddo che la coglieva così discinta com'era, macchinalmente si trascinò fino alla sponda del suo letto, tante volte abbandonato nel corso di quella notte dolorosa; ma fu grande fatica per lei, a ridursi sotto le coltri. Aveva bisogno di riposo; e l'ebbe la persona, non l'anima, pur troppo; non l'anima, che, ravvivata da un ritorno di calore alle membra, non poteva egualmente rinfrancarsi in una serie di quieti pensieri e d'imagini liete.

Dio, che cosa aveva ella mai fatto! Cessate il parossismo della febbre, sentiva allora, riconosceva finalmente tutto l'orrore dell'atto dissennato, commesso in una crisi nervosa. Il suo male! “Mia madre è morta pazza„, aveva ella detto il giorno innanzi a Filippo. E così fosse morta pur lei, che aveva parlato in un vero accesso di follia, e viveva, povera carne sofferente, disdegnata in mal punto da chi avrebbe dovuto farle la carità di una stretta alla gola, che finisse in lei ogni rimorso, ogni spasimo. Ed ora, quante rovine intorno a lei! e fatte nella pazzia d'un istante da lei! Così quando un fiume si gonfia, infuria e straripa; dove già si stendevano campi ubertosi, suscitando speranze di popolo onestamente operoso, tutte in un subito le speranze svaniscono; vanno perdute, col terreno sconvolto e colle piante sradicate, le care promesse di un viver modesto ma sicuro; e i tetri fantasmi degli anni squallidi, che seguiranno al disastro d'un giorno, si levano minacciosi su sterili lande, spogliate d'ogni cosa, fuorchè di rena e di sassi.

Finita in ugual modo la pace signorilmente lieta del palazzo Orseolo; finite le gaie conversazioni, le fastose comparse ai balli, ai teatri, alle pubbliche feste, dove la felicità dei trionfi ottenuti luccicava nel volto, mentre l'invidia doveva esprimersi in sorrisi a fior di labbro, o consumarsi in sè stessa e tacere. In quella vece, oramai, le ciarle assassine del mondo elegante, i sogghigni maliziosi del salotto, gli scherni del crocchio; lei, finalmente, su tutte le bocche, e il suo caso diventato la favola della città.

Orribile idea! E quell'altro? Ah, solo pensando a quell'altro, ella s'irrigidiva nel suo amor proprio offeso, nel suo orgoglio ferito, e poteva sentirsi non del tutto pentita. Quella grande rovina involgeva anche lui. Certo, dopo il suo triste risveglio, Raimondo Zuliani non avrebbe più mosso un dito per la felicità di quell'uomo.

Frattanto la casa taceva, come se fosse incantata, o i servitori temessero tutti di farsi vivi col più lieve rumore. Avevano sentito qualche cosa del terribile colloquio? Forse sì, forse no: ad ogni modo, non era quello il momento di darsene pensiero. La gente di servizio è poi così avvezza a certe scenate padronali, in una casa o nell'altra! Ne bisbiglia discretamente, e tacitamente conchiude: “i vizi dei signori!„ godendone anche un pochino in cuor suo. Il pane che si mangia servendo, non può sgradire questi condimenti, che lo rendono più saporito. Ma infine, che importano i suoi commenti, fossero anche malevoli? La gente di servizio ha l'obbligo di fare l'ufficio suo e tacere, mostrando negli atti di non aver nulla sentito. E per intanto non si sentiva di alcuno nè la voce nè il passo.

Ma infine quel gran silenzio fu rotto da una scampanellata all'uscio di casa. E poco dopo il Giovanni batteva delle nocche sull'uscio della camera, chiedendo il permesso di aprir l'uscio a mezzo, per gittar dentro poche parole. Annunziava una visita. E come una visita a quell'ora? Ma era il signor Brizzi, che domandava per grazia di veder la signora.

– Debbo dirgli che è ancora a letto? – chiedeva il vecchio servitore, quasi precorrendo la risposta.

– No no; – rispose in quella vece la signora Zuliani, – fatelo entrare nel salottino; mi vesto in fretta, e vengo. —

Ella indossava ancora (e se ne avvide in quel punto) la sua veste da camera, tutta discinta, ed anche malamente gualcita dai moti incomposti, dai tramutamenti irrequieti d'una notte febbrile. Ma questo era il menomo guaio; e pel signor Brizzi, che era quasi della famiglia, poteva passare anche un po' di scompiglio nell'assetto mattutino. Raccolta la veste al seno, gittato uno sciallettino intorno al collo, la signora Livia si ravviò alla meglio i capelli davanti alla specchiera, e passando rasente allo stipo, non senza un brivido per l'ossa, ne rialzò e richiuse lo sportello a ribalta, ch'era rimasto calato; indi frettolosa si avviò nel salottino, dove il signor Brizzi aspettava.

Il pover uomo era tutto sconvolto, contraffatto nel viso, tanto ch'ella, al vederlo in quello stato, tremò di qualche nuova disgrazia.

– Signora… signora… – balbettò egli, muovendole incontro, – che cos'è avvenuto stamane? Io veramente, non dovrei farmi lecito… Ma il caso è così grave!..

– Grave! – esclamò la signora. – Che cosa è accaduto di grave? Mi dica Lei, signor Brizzi.

– Il signor Raimondo, – riprese egli allora, – il signor Raimondo… che doveva andare alla stazione per le nove, non è andato. —

Un sorriso sarcastico sfiorò le pallide labbra di Livia.

– Ah, non è andato! – diss'ella. – Come lo sa?

– Lo so, perchè il signor Raimondo è venuto al banco una mezz'ora fa, proprio quando avrebbe dovuto prendere la via della stazione. Ella sa che il banco non si apre mai prima delle dieci. Ma io, questa mattina, c'ero andato per tempo, volendo spacciare con più calma un lavoro urgente. Stavo scrivendo, quando sentii cacciare una chiave nella toppa e subito aprirsi l'uscio. Mi alzai, corsi a guardare in sala; era il principale. Molto alterato in faccia, si avvide appena della mia presenza: lo salutai, mi rispose a stento. Notavo frattanto che con questo freddo egli era vestito alla leggera, in soprabito. Gliene dissi; mi fece una spallata, rispondendo: “ho caldo, molto caldo„. Feci qualche domanda, parendomi che non dovesse star bene; ma egli ripigliò spazientito: “Brizzi, lasciatemi stare, debbo scrivere una lettera„. Non fiatai più, e mi trassi indietro, ma senza uscir dalla stanza, non perdendolo d'occhio. Appena seduto, aveva incominciato a scrivere, ma senza venire a capo di nulla, gettando foglietti nel cestino, l'un dopo l'altro, appena incominciato a vergarne una o due righe. È in collera con qualcheduno, pensai; si scrive male, quando si è agitati: Veduto che uno di quei foglietti, gittato via con atto d'impazienza, era volato fuor della bocca del cestino sul pavimento, mi chinai a raccoglierlo per collocarlo al suo posto. Avrò fatto male, signora; ma gli occhi mi corsero allo scritto, che incominciava così: “Signor Conte„. —

La signora Zuliani aveva inarcate le ciglie; un tremito la prese al cuore, diffondendosi tosto per tutte le membra. Nondimeno, ella si contenne ancora.

– E nient'altro? – domandò.

– Nient'altro; – rispose il signor Brizzi. – Forse in qualche altro foglio ci sarà stato di più. Dopo alcuni minuti di quel vano lavoro, osai interromperlo, e riparlargli del suo abito troppo leggero, offrendogli di mandare a prendere il suo pastrano. “Sì, mi disse, mandate a casa il fattorino. E lasciatemi stare, ho da scrivere questa lettera… parecchie lettere; se voi mi state qui sempre alle costole, non riesco a far nulla; non vedete che ho il cervello in fiamme?„ Chiesi umilmente scusa, e per quella volta mi ritirai davvero. Il fattorino del banco non era ancora arrivato; così mi sono arrischiato a venir io, anche per chiedere a Lei che cosa può essere accaduto, da metterlo in questo scompiglio.

– Signor Brizzi, Ella è un amico… – disse la signora.

– E come! Ella lo sa; vecchio, sincero e fidato.

– Bene! Ad ogni modo, o prima o poi, dovrebbe sapere ogni cosa. Son certa anzi che Raimondo si confiderà a Lei prima che ad altri. Sappia dunque che c'è stato tra lui e me un gravissimo alterco. Finiremo, ne son certa, con una separazione. Ma Ella, prego, non ne fiati con anima viva.

– Si figuri! – gridò il signor Brizzi. – I segreti di casa Zuliani mi son più sacri dei miei. Ma speriamo che non sia il caso, per un semplice alterco, di giungere a quella estremità. —

Oramai il signor Brizzi aveva capito ogni cosa. L'alterco gravissimo colla moglie, onde il suo povero principale era uscito così stravolto dall'ira; la lettera al “signor conte„ ch'egli non poteva tirare innanzi, tanto era agitato; erano quelli i due capi di una catena, che raccostati offrivano la chiave di tutto l'occorso, specie a chi già conoscesse un certo segreto di casa Zuliani. Ahimè, quello era a conoscenza di troppi; vero segreto di Arlecchino, come tanti e tanti altri d'ugual genere nel nostro povero mondo; così facilmente, di leggerezza in leggerezza, d'imprudenza in imprudenza, lasciamo indovinare i fatti nostri più intimi a tutta una turba di sfaccendati, in ogni città che non sia Londra o Parigi! Ed anche si può rinunziare a queste eccezioni, chi pensi che Londra e Parigi non debbono sfuggire neppur esse a certe piccole noie, essendo anche laggiù il mondo elegante e il mondo pettegolo nelle istesse condizioni di buon vicinato, ed esercitando i loro disutili uffici in una sfera piuttosto ristretta, come in tante altre città di minore importanza. Di quel segreto d'Arlecchino il povero signor Brizzi si era sempre doluto in cuor suo, poichè egli amava molto il suo principale, e non era mai stato senza timore che un giorno o l'altro gliene giungesse un cenno all'orecchio. Era un segreto, quello, da non metterci bocca; e cercava, se fosse stato possibile, di dimenticarlo egli stesso; per intanto non permetteva che davanti a lui qualche amico imprudente vi facesse la più lontana allusione.

– Comunque sia, – rispondeva la signora Zuliani, la cui fede era certamente men salda che non fossero le tenui speranze del suo pietoso interlocutore, – il vivere insieme è impossibile. Ella veda frattanto, mio buon signor Brizzi, se può avere qualche altra notizia, che mi giovi di conoscere, nello stato in cui siamo, di aperta rottura. Chi sa? Egli vorrà bene confidarsi con Lei. E a me deve importare moltissimo che si confidi con Lei, anzichè con altri, che sia meno amico di ambedue; non le pare? —

Il signor Brizzi, che era tutto cuore, promise assai volentieri. Se il signor Zuliani, com'era da credere, si fosse aperto delle proprie tristezze con lui, certamente egli avrebbe raccomandato calma e prudenza. Gran cose, la prudenza e la calma; quanti malanni non hanno esse evitati! E ciò senza contare che le famiglie non debbono mettere i loro dissapori in piazza; perchè la gente ne ride, e tra le risate della gente se ne va il loro buon nome, il credito, il rispetto, l'onore, tutto ciò che è più geloso, e dovrebb'esser più sacro per noi.

Con questi ed altri simiglianti discorsi, l'ottimo Brizzi prese commiato dalla signora Zuliani. A lui si accompagnò, recando il pastrano del padrone, il vecchio Giovanni; quel povero “paron Nane„ che pur troppo non doveva aspettarsi la ripetizione della faceta apostrofe con cui dodici ore innanzi era stato salutato.

Ritornata nella sua camera, la signora Zuliani si vestì in fretta e furia, poco o punto giovandosi dei troppo lenti uffici di Giustina, la sua cameriera.

– Andate piuttosto a vedere se Giovanni è tornato; – le disse. – Appena arriva, mandatelo qua. —

Il vecchio servitore giungeva proprio in quel punto, e fu tosto avvertito del comando di lei.

– Avete fatta la commissione? – gli chiese.

– Sì, signora.

– E veduto il padrone?

– No, signora; egli era nel suo studio, ed io son rimasto nella prima camera, dove lavora il signor Brizzi. Ma l'ho sentito rispondere “sta bene, mettete là, su quella sedia„, dopo che il signor Brizzi gli ebbe detto che il pastrano era stato portato da casa. —

Raimondo era dunque rimasto al suo banco. Aveva egli finito di scrivere le sue lettere? Di questo ella non poteva chiedere al servitore, che aveva riferito quanto era in poter suo di sapere, non essendo stato introdotto alla presenza del padrone. Erano le dieci e mezzo: la signora Zuliani fece una pronta risoluzione; mise il cappellino in testa, ravvolse il velo intorno alla faccia, ed uscì prendendo cammino verso il corso Vittorio Emanuele. Di certo, andava a trovare la Galier, avendo anch'essa bisogno di sfogarsi, di versare la piena delle sue afflizioni nel cuore compassionevole della contessa, della sua intima amica, dell'amica più vera, anzi dell'unica, che avesse per tale. Pallida e spossata, con gli occhi pesti, in ogni altra occasione la signora Zuliani avrebbe rinunziato ad una corsa fuori via; ma il momento era grave, ed urgente il bisogno; del resto, quel velo fitto sul viso poteva dissimular molti guasti.

Ella pensava, frattanto: mentre il corpo era in moto così frettoloso, il pensiero non poteva restarsene inerte.

– Ha sdegnato di uccidermi; – diceva ella tra sè. – Vuole sfogarsi contro di lui, è chiaro; gli manda un cartello di sfida. Come non l'ho io preveduto, ch'egli si potesse appigliare a questo partito? E ancora, se lo avessi preveduto, mi sarei io trattenuta dal fare quello che ho fatto? Ora, egli manderà la sua lettera. L'avrà poi potuta scrivere? Ne ha strappate già tante, che altrettante potranno ancor fare la medesima fine. Comunque sia, bisogna avvertire quell'altro, che non sa nulla, avvertirlo ad ogni costo. La contessa è così buona, mi è tanto amica, che vorrà pure aiutarmi. —

Avvertirlo, sì, era bene, e faceva bella testimonianza d'animo compassionevole. Ma era lei, Livia, la terribile Livia, la furia scatenata di poche ore innanzi, che pensava allora in quel modo? Il suo odio implacabile, dov'era andato a finire? Forse odiava quell'uomo, sentendolo felice, prossimo al compimento dei suoi voti più cari, alla consumazione del tradimento più nero; e nell'animo di lei si era stemprato ad un tratto il geloso furore, dando luogo ad un sentimento di pietà, forse di amore per quel disgraziato, allo scatenarsi della bufera che doveva travolgerlo. Arcani del cuore!

Quando fu giunta al portone della Galier, la signora Zuliani entrò nel vestibolo, ma non si volse già verso la scala a collo, che conduceva al quartierino dell'amica; si volse in quella vece al cortile, e prese la scaletta di servizio che metteva allo stabile attiguo.

– Perchè no? – aveva ella detto tra sè. – Sarà tutto tempo guadagnato. Forse egli non ha ancora pensato a serrare col catenaccio, non aspettando più apparizioni di gelose importune; – soggiunse ella sospirando. – Tentiamo! —

Ed era salita; e giunta al noto usciolino, aveva provato nella toppa la piccola chiave inglese, grazioso gingillo da cui non si era ancor separata. La piccola chiave fece liberamente il suo giro; ma l'usciolino non si aperse altrimenti.

Per l'appunto, non aspettando più visite da quella parte, Filippo Aldini aveva dato di dentro il catenaccio. Disperata, bussò colle palme distese, bussò quanto più forte potè, a colpi reiterati. Ah, per fortuna era stata udita; ella sentì aprire la vetrata dello studio, e tosto nell'andito oscuro un passo ben conosciuto, il passo di Filippo. Ancora pochi secondi, e il catenaccio era levato; aperto l'uscio, le apparve Filippo nel vano.

– Voi! – esclamò egli, ancora compreso di stupore. Non l'aspettava infatti; ma l'aveva indovinata poc'anzi al giro di chiave, quindi al batter disperato delle piccole mani.

– Sì, io; – rispose ella, entrando nello studio. – Datemi ospizio per due minuti. So bene che vi annoio…

– Annoiarmi, no; – fu pronto egli a rispondere. – Ma voi intenderete il mio stupore; dopo ciò che avevo promesso ier l'altro, e che ho fedelmente eseguito, ma senza ottenere nulla da lui… lo saprete bene…

– Io non so nulla; – interruppe la signora. – Ho potuto credere in quella vece che non abbiate voluto resistere fino all'ultimo.

– Fino all'ultimo! – ripetè Filippo, con voce impressa di orrore. – L'ultimo… era il suicidio di vostro marito. Me lo aveva minacciato, poichè il mio rifiuto lo disonorava, dopo l'impegno assunto col banchiere Cantelli, ed egli non voleva sopravvivere al suo disonore. Così sono stato debole, così ho ceduto, signora. —

Quelle parole la scossero. Ricordò le frasi del biglietto di Filippo Aldini; ricordò la nera tristezza di suo marito, in attesa di quel biglietto, e il suo mutamento repentino appena lo ebbe ricevuto. Tutto ciò si accordava con le parole di Filippo. Ma ella non era disposta a convenirne; e neanche era tempo da confessarsi in colpa; ben altro aveva ella da dirgli.

– Lasciamo le dispute vane; – replicò, – e le lagnanze e le recriminazioni, egualmente vane. Il mio orgoglio non ne farà; il mio sdegno si è abbastanza saziato. Sono venuta per dirvi ch'egli sa tutto. —

E cadde, così dicendo, sul divano dello studio, ove si tenne rannicchiata, colle palme raccolte intorno agli occhi, non osando levarli a guardare l'effetto che le sue parole producevano in lui.

Filippo era rimasto fieramente colpito. Istintivamente aveva recata una mano al cuore, come se lì avesse ricevuta la punta mortale. Anche intorno a lui, quante rovine in un tratto!

– Sa tutto! – ripetè, dopo un istante di pausa. – In che modo?

– Io gli ho date le vostre lettere.

– Le mie lettere! Non le avete bruciate?

– No; vi amavo… non potevo obbedirvi. Ora il male è fatto; e irrimediabile, non è vero? – soggiunse la signora, accompagnando la frase d'un amaro sorriso. – Vengo ad avvertirvene, per un senso di misericordia, che ho ritrovato ancora in fondo al mio cuore. Badate a voi, conte; non v'incontrate con lui in questi momenti.

– Grazie, – rispose Filippo, sorridendo più amaramente di lei. – Ma come evitarlo?

– Fuggendo.

– Io?.. lo pensate?.. io fuggire?

– Ma non c'è altro scampo; – diss'ella. – Se egli vi cerca, e al primo incontro vi ammazza… come un ladro del suo onore?

– Sarà nel suo diritto, ed avrà fatto bene; – conchiuse Filippo, alzando la fronte, che fino allora, sotto la sensazione del colpo doloroso, aveva tenuta abbassata.

Non c'era nulla da rispondergli; e la signora Zuliani non rispose parola. Filippo Aldini aveva errato; riconosceva il suo fallo, senza voler sottilizzare, senza voler distinguere come e fin dove si potesse creder suo; era disposto a pagarne la pena; non gli si poteva chieder di più. Egli, a buon conto, accettando il suo destino, si sentiva libero una volta per sempre, intieramente padrone di sè.

– Molto male, – ripigliò allora, con accento grave, ma tranquillo, – molto male avete fatto, signora. E adesso, poi, mi avrete gittato quell'uomo sulle braccia, per venirmi a consigliare una viltà? Pagherò il mio debito da gentiluomo, se il signor Zuliani vorrà, come io finalmente penso contro la vostra supposizione, rifarsi con armi e forme da gentiluomini; ed anche lo pagherò, posso prometterlo, da uomo di cuore, che conosce i suoi torti. Se dunque è un bersaglio, quello che vuole, egli ne ha il diritto, e lo contenterò.

– Ed egli vi ucciderà egualmente… – ribattè la signora.

Filippo si strinse nelle spalle, e non rispose.

– O voi ucciderete lui; – proseguì ella, terminando il dilemma.

– Non farò ciò; – diss'egli, più col gesto che con parole formate.

In quel punto si udì una scampanellata all'uscio di casa.

– Ah, lui! – gridò Livia atterrita.

– Non credo; manderà piuttosto qualcuno; – notò freddamente Filippo. – Ad ogni modo uscite, vi prego.

– E non volete ascoltarmi?..

– Non posso, signora. Qualunque cosa egli pensi di fare, io sono a' suoi ordini. Dopo ciò che avete fatto voi, non vedo altro che questo: e sono lo schiavo della sua volontà. —

Una seconda scampanellata, e più forte, avvertì che non era tempo da nuovi discorsi.

– Andate, vi supplico, andate; – disse Filippo, traendola con dolce violenza verso l'uscio a vetri. – E non tremate per lui. —

Ella non aveva più parole, nè volontà per opporsi; obbediva alla esortazione di Filippo.

– E badate; – soggiunse egli, prima di richiudere la vetrata alle spalle di Livia; – serrate voi l'uscio, mentre io vado ad aprire di là. —

Livia era sparita, e la vetrata richiusa. Filippo andò all'uscio padronale, lo aperse e si trovò davanti a Raimondo Zuliani, che già stava per dare una terza strappata.

Filippo aspettava una coppia di padrini, per verità, ma anche, tra varii casi possibili, aveva preveduto quelle di ricever la visita di Raimondo Zuliani. Perciò non fece atto di grande stupore, vedendolo. Soltanto, doveva fingersi ignaro della cagione che gli faceva capitare in casa l'amico, a quell'ora. Da chi, infatti, poteva egli essere informato di ciò che era avvenuto al palazzo Orseolo, quella stessa mattina? Ma egli, per contro, non poteva mostrarsi lieto nell'aspetto, come sarebbe stato naturale, alla vista del suo amico migliore. Si tenne dunque a mezz'aria, e il suo atto di temperata maraviglia non prese colore da nessun sentimento di sciocca allegrezza, o di inopportuna alterigia.

– Ah! – diss'egli, sforzandosi di parer tranquillissimo. – Tu qui?

– Sì, io qui; – rispose Raimondo, con misurata gravità. – E siamo soli, per parlare liberamente?

– Solissimi; entra pure di qua. —

Non era vasto il quartierino di Filippo Aldini. Il suo studio era anche la sua sala di ricevimento. Raimondo fu dunque introdotto nello studio. Egli era serio nell'aspetto, anzi severo ed accigliato; ma non più stravolto, non più contraffatto, nè irrequieto, come lo aveva veduto due ore prima il signor Brizzi. In quelle due ore passate nel suo banco, Raimondo Zuliani aveva avuto tempo di padroneggiarsi abbastanza. E perchè poi, sarebbe egli durato nell'agitazione dei primi momenti? Niente val più d'una risoluzione fatta, sulla quale non si deve più ritornare, per render la calma necessaria agli spiriti dell'uomo. Egli si era tanto padroneggiato, da poter pensare a parecchie cose più o meno urgenti della giornata, da lasciar ordini per alcune operazioni bancarie, e da incaricare il signor Brizzi d'una gita all'albergo Danieli, per far le sue scuse al signor Anselmo del non esser egli potuto andare alla stazione, e dirgli che sarebbe andato a riverirlo più tardi. Non aveva egualmente potuto scrivere la sua lettera al “signor conte„; ma non già perchè gli si fossero schiarite abbastanza le idee. Troppe cose, aveva finalmente pensato, troppe cose gli sarebbe stato necessario di scrivere. Capitava egli in persona, per dirle al “signor conte„. Le cose d'un certo rilievo, si sa, vengon più facili a voce, che non per iscritto.

Entrò nello studio, adunque; e appena fu entrato, fece egli da padrone di casa. Era una cosa da nulla; ma si poteva argomentarne subito la gravità del colloquio.

– Siedi; – aveva egli detto all'Aldini.

– E tu? – disse l'altro, obbedendo.

– Anch'io; – rispose Raimondo, ricusando la poltrona che Filippo gli offriva col gesto, e prendendo in quella vece una scranna. – Vedi come son calmo; – soggiunse, poichè fu seduto. – Pure, ecco un uomo, al quale tu hai tolta la pace e l'onore. —

Filippo Aldini finse di guardarlo con aria trasognata. Ma poichè all'artifizio della bugia non poteva durare, non aggiunse all'atto la ipocrisia della parola; ed anzi il suo atto di stupore si mutò rapidamente in un altro, di rassegnazione umiliata. Ah, se quell'uomo gli fosse capitato là con una rivoltella in pugno, e d'un colpo lo avesse freddato, certo gli si sarebbe mostrato più umano, che non tenendolo lì, alla tortura d'un colloquio angoscioso, lasciandogli pensare la triste cosa che pensò in quel momento supremo.

– Margherita! immagine cara! Perduta, dunque, irremissibilmente perduta! È il destino. —

Vanusepiirang:
12+
Ilmumiskuupäev Litres'is:
25 juuni 2017
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