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Loe raamatut: «Il ponte del paradiso: racconto», lehekülg 18

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XIX.
Al palazzo Orseolo

Raimondo non era ancora tornato a casa, quando fu annunziato alla signora Zuliani l'arrivo della sua inaspettatissima suocera. N'ebbe una scossa di nervi, un tuffo di sangue al cervello, un rimescolo per tutte le fibre. Ma bisognava striderci, e andarla a ricevere. Le due donne si guardarono a lungo, dopo il saluto strettamente necessario; non si baciarono, non si strinsero la mano.

La signora Adriana si presentava in sembiante di giudichessa. C'era tanta espressione di dolore in quella figura veneranda, che Livia ne fu sgomentita e umiliata. Ad un certo punto, essendo uscito il servitore, come soggiogata dallo sguardo severo della vecchia, si buttò ginocchioni, tentando di afferrarle la mano.

– Mamma! – gridò, con voce lagrimosa.

– Cessate! cessate! – disse la signora Adriana, ritraendosi. – Dov'è mio figlio?

– Sarà a casa per le sette. Ma non mi perdonerete voi?

– Non è mio ufficio, perdonare. Dio vede i cuori; Dio giudica le opere e le intenzioni; egli solo può perdonare; non io. —

Livia chinò la fronte, avvilita. Si sentiva mancare, già sfinita com'era da quei due giorni terribili. Il giorno innanzi, Raimondo era venuto a pranzo, ma preceduto da una lettera, che fissava i termini delle loro relazioni, pel breve tempo che sarebbero ancora durate. In presenza delle persone di servizio si era mostrato tranquillo, come se niente fosse accaduto fra loro; aveva discorso di cose vane; poi, subito dopo il caffè, si era ritirato nella sua libreria. Ella, di tanto in tanto origliando agli usci, lo aveva sentito scrivere, rovistar carte, scrivere ancora fino alle undici, e poco dopo andarsene a letto. Fortuna che non erano giorni di ricevimento serale per lei, da obbligarla a sforzi di volontà, di padronanza sull'animo suo, che certamente non avrebbe potuto durare. Spossata, rifinita, era andata a letto tardissimo, passando la notte in un dormiveglia doloroso, pieno di tristi visioni e di oscuri terrori.

Quel giorno, poi, a colazione, era stata la medesima scena. Egli, tranquillo al solito, non taciturno in presenza dei servi, aveva sparsamente condito il breve pasto con piccoli discorsi, e tutti di piccole cose. Aveva perfino toccato di affari, egli che in casa se n'era sempre astenuto; operazioni sbagliate del governo sulla rendita, conseguenti ribassi, fallimenti probabili, rallegrarono la conversazione domestica.

Ella era disfatta, quel giorno, quasi sformata nel viso; tanto che la cameriera, osservandola, non aveva potuto trattenersi dal dirle:

– Signora, si sente male? Vuole che mandiamo pel medico?

– Che! che! – aveva risposto. – Sono i miei soliti sconcerti nervosi. Frutti di stagione! Che cosa potrebbe dirmi di nuovo il dottore? Stasera, per dormire e rifarmi, prenderò il cloralio. —

La sua, frattanto, era una condizione intollerabile. Raimondo le aveva scritto, il giorno innanzi, di voler sciogliere la loro questione, presto, nel modo più netto e più degno, per la pace e per l'onore d'entrambi. Quale era il modo immaginato da Raimondo? Ah, lo sapeva ben lei! ed ora, capitava la suocera; non aspettata, non desiderabile, al certo, in quello stato d'angoscia. La signora Adriana, che a Venezia e nella casa del figliuolo era comparsa in sette anni tre volte, e da oltre un anno non si lasciava vedere, per qual cagione si presentava allora, senza neanche il pretesto di una occasione solenne? Chiamata da Raimondo, forse? Anzi senza il forse; non mostrava ella, appena arrivata, di saper tutto, o quasi? Ne faceva testimonianza manifesta la sua severità, che superava di tanto la freddezza consueta delle sue relazioni con la nuora; si aggiungevano a quella severità di contegno le sue parole così gravi, e lo sdegnoso rifiuto di ragionare con lei, di perdonarle, di ascoltarla almeno.

Venne Raimondo poco prima delle sette. E fu meravigliato, alla vista di sua madre; parve quasi sconcertato all'aspetto. Ma il sentimento figliale vinceva; si buttò nelle braccia della donna veneranda, reprimendo a tutta forza le lagrime. Non voleva piangere, no, non voleva dar saggio di commozione soverchia.

– Figlio mio! figlio mio; – gridava la vecchia signora, non saziandosi di baciarlo, di guardarlo negli occhi, e di baciarlo ancora.

– Eccolo qua; – rispondeva Raimondo sforzandosi di sorridere a quella effusione violenta di affetto materno. – Eccolo qua! Ma anche tu, mamma… che bella improvvisata ci hai fatta, quest'oggi! —

E non proseguì, vedendo negli occhi e nelle labbra di sua madre che quel plurale non tornava gradito. La fiera nemica delle nozze di lui non aveva ancora disarmato, non si era ancora piegata a consigli più miti. Ahi, come presaga, sette anni addietro, dei danni che quelle nozze avrebbero apportato al suo figliuolo infelice!

Il pranzo riuscì freddo in tre, più che non fosse stato quello del giorno innanzi in due. La conversazione, ad onta degli sforzi evidenti di Raimondo, era impacciata e ad ogni tanto interrotta, segnatamente per la risoluzione della signora Adriana di non rivolger mai il discorso a sua nuora. Di ciò che venne in tavola, poi, la signora Adriana assaggiò a mala pena. Aveva fatto più che uno spuntino in viaggio, diceva lei, nella fermata di quasi un'ora a Treviso, dove il treno di Belluno aspettava il treno di Udine. Una scusa, certamente; e il fatto era questo, che la vecchia signora non aveva volontà di mangiare.

Subito dopo il caffè la signora Adriana volle ritirarsi nel suo appartamento. Al terzo piano del palazzo Orseolo erano sempre due camere preparate per lei. Fece per saluto alla nuora un cenno del capo, e si mosse. Il figlio l'accompagnò, dandole il braccio.

Livia rimase sola, in preda ad un'agitazione indicibile. Raimondo, da un quarto d'ora uscito di là per accompagnare sua madre, non discendeva.

Senza dubbio si discorreva molto, lassù, si facevano liberamente tutti i discorsi che in presenza di lei non si erano potuti fare. E si sentiva fischiare gli orecchi di tutte le cose spiacevoli che in quel mentre si dicevano di lei. Il sangue le martellava alle tempie; vampate e brividi, alternandosi con frequenza, davano indizio di febbre crescente. A un certo punto non potè più resistere all'inquietudine che s'impadroniva di lei. Balzò in piedi, e corse alla scala interna che metteva al piano superiore; stette alquanto in ascolto; poi guardinga salì fino al corridoio che collegava parecchie camere dell'appartamento superiore. Arrivata ad un certo punto, di là da quelle che occupava la signora Adriana, poteva anche nascondersi dietro una svolta, caso mai fosse per uscir suo marito. Di servi, che capitassero lassù, non aveva timore. Quella era appunto l'ora che, sparecchiata la mensa dei padroni, la gente di servizio, tutta raccolta a pianterreno, si assideva tranquillamente alla sua. Così d'ogni parte sentendosi abbastanza sicura, si accostò all'uscio della camera in cui madre e figlio stavano parlando insieme, e tese l'orecchio. Erano frasi rotte da prima, e non era possibile intendere a qual punto delle loro confidenze già fossero i due; ma il nome suo ricorreva nel discorso più volte. “Livia„ diceva il figliuolo; “quella donna„ diceva la madre. Ma questa a grado a grado si veniva riscaldando, e la sua voce giungeva finalmente più chiara.

– E per quella donna, infine, ti uccidi! Perchè? – incalzava la signora Adriana.

– Uccidermi! Io? – rispondeva con accento turbato Raimondo. – Chi ve lo ha detto? Chi ve lo ha scritto? Quell'uomo? Sarà un'altra infamia sua. Il suo tradimento, il mio diritto di vita e di morte su lui, ne facevano il mio schiavo. Se la sorte, proposta generosamente da me, gli era stata propizia, egli tanto più doveva obbedirmi e tacere.

– Non accusare quel disgraziato, – replicava la vecchia signora. – Vi ha uditi una coraggiosa fanciulla; Margherita Cantelli.

– Margherita!.. E come? come ha potuto?..

– Non so, ma certamente era lei. In compagnia di suo padre, voglio credere… Non hai tu, ad un certo punto del tuo orribile colloquio col signor Aldini, non hai tu sentito un rumore, che veniva da una cameretta vicina?.. un rumore d'uscio che si chiudeva?..

– Sì, ebbene?..

– Quella fanciulla, attratta da un suo capriccio donnesco nel quartierino del suo fidanzato, non volle esser colta là dentro da estranei; si era rifugiata in quella cameretta, presso una porticina di servizio, donde poteva trafugarsi. Prima di uscire per quell'altro passaggio, volle ascoltare, sapere chi fosse il visitatore del suo fidanzato. Curiosità? gelosia? Comunque fosse, ascoltò, udì il vostro patto feroce. Sbigottita, non volle udire più altro; aperse l'uscio segreto e fuggi. Se tu la inseguivi, eri in tempo per vederla, e per riconoscerla. —

Raimondo era rimasto muto, certamente pensando alla stranezza del caso. E Livia frattanto pensava:

– Ella ha dunque voluto sostituirsi a me… in ogni cosa? Ma infine, perchè? Non forse per salvare Raimondo? Coraggiosa!.. —

Ed accolse nell'animo un raggio di speranza. Era Margherita, che aveva così prontamente avvertita la madre di Raimondo, chiamandola in soccorso. Quella madre avrebbe certamente adoperata tutta la sua autorità. E lei, Livia, lei, cagione di tutto il male, non era stata capace di una così buona ispirazione, di un così felice ardimento!

Ma il raggio di speranza che era penetrato nell'anima di Livia, impallidì tosto, fu per ispegnersi alle parole di Raimondo.

– O madre, madre mia, tutto è vano oramai. La maledizione del cielo si è aggravata su me, dal giorno che ho disobbedito alle tue esortazioni, resistito ai tuoi consigli amorevoli. Ma tu lo vedevi bene… ed avresti dovuto perdonarmi… amavo quella donna… e l'amo ancora, odiandola, con tutte le forze dell'anima. Per me, dunque, è finita. E come vuoi tu ch'io possa vivere? Separandomi da lei? Sarebbe uno scandalo. Voglio morire da gentiluomo, rispettando le donne, anche quando tradiscono. Ho giuocata la mia vita con quell'uomo, nel modo più leale e prudente. Poichè tu sai ciò che la sorte ha deciso preparati. Io non posso più vivere.

– Prepàrati! – ripetè la signora Adriana, con accento di profonda amarezza. – Prepàrati! E sei tu che parli così? Quella infame ti ha dunque guastato a tal punto l'anima e il cuore? Prepàrati! Quando mai potrà prepararsi a questa angoscia un cuore di madre? Ho saputo il patto terribile; e perchè l'ho saputo, son corsa a gridarti: no, per una disgraziata, per una impura, traditrice della fede giurata, non si fa ciò. Il tuo amico pentito… sappilo; quella animosa fanciulla me lo ha giurato con le lagrime agli occhi, venendomi incontro, all'arrivo… si ucciderà egli pure, se tu manterrai quel patto dissennato. E tu, illuso, credevi di poter condannar lui alla vergogna di vivere, di esser felice, a prezzo della tua morte! Ma già il primo a non voler più la felicità di quell'uomo, sarà il padre di lei, un vecchio onorando, che tu avrai profondamente addolorato, fors'anche accorciandogli il vivere. E speri di evitare gli scandali? Ma tu li aggraverai, uccidendoti.

– Mamma! – gemette Raimondo, supplichevole,

– Sì, fammi il tenero, con quel cuore di sasso! Ucciderai altri, per intanto; e prima di tutti tua madre. Morirò, sì, maledicendoti, allora. Ma che cos'è questo vostro furor di morte? – gridò la povera donna, animandosi sempre più. – La vita è vostra, forse? Non di chi ve l'ha data? Non delle vostre famiglie? Non del vostro paese e del mondo, che aspettano opere virtuose e nobili esempi da voi? Vigliacchi, che avete solamente il coraggio di sottrarvi ad una piccola pena! Sì, piccola, e vergognosa ancora, come è sempre una forte passione per una creatura che se ne mostra indegna, per una donna che vi ha tradito, per una donna che vi ha disprezzato, per una donna che avrà ancora la soddisfazione di esser liberata dalla vostra presenza, di ereditare da voi la ricchezza che le avrete lasciata, il rispetto del mondo che le avrete assicurato, come premio del suo tradimento…

Livia, nel colmo dell'angoscia, tendeva verso l'uscio le palme è le labbra supplicanti. No, non è vero, voleva gridare, no, non sarà! E l'avrebbe gridato, se la vergogna del farsi trovar là in ascolto non l'avesse trattenuta. Fremente, tremante, sconvolta, si appoggiò alla parete, per ricuperar le sue forze vacillanti; e pensava, frattanto, vedeva tutto l'orrore della sua condizione, insieme con l'avverarsi possibile degli orrendi pronostici della signora Adriana. Oramai non voleva ascoltare, non poteva udire più altro. Si tolse di là; con uno sforzo supremo misurando il passo e trattenendo il respiro, mosse verso il corridoio e scese la scala.

Sul pianerottolo, al chiarore d'un lume sospeso alla parete, giganteggiava un'ombra, che veniva su dalla scala inferiore. N'ebbe terrore, a tutta prima; poi riconobbe il servo Giovanni, il fedele di suo marito.

– Giovanni, – gli disse, cedendo ad una subita ispirazione, – il padrone è su con sua madre. Ragionano d'interessi. Nessuno vada lassù a disturbarli; e molto meno donne, avete capito?

– Non dubiti, signora; – rispose il colosso. – Mi pianto qui, e non passerà anima viva. —

Livia andò allora nella sua camera. Vi rimase a mala pena tre minuti; poi ricomparve sul pianerottolo, più agitata che mai. Giovanni era là, ritto impalato al suo posto di sentinella.

– Giovanni, – gli disse la signora, – portate su questa lettera al padrone. È una risposta, che aspetta. —

Il servo prese la lettera ed obbedì al comando della padrona, facendo col peso del suo corpo d'atleta un gran rumore su per la scala. Non voleva sentire, il brav'uomo; perciò voleva esser sentito.

Infatti, al rumore de' suoi passi, Raimondo interruppe il suo doloroso colloquio colla mamma; schiuse l'uscio Iella camera ed apparve nel corridoio.

– Che c'è? – domandò egli, vedendo Giovanni, che per allora, ahimè, non poteva chiamare “Paron Nane„.

– La signora… – disse il buon servitore, – manda questa lettera. È la risposta che Vossignoria aspetta, mi ha detto. —

Raimondo lì per lì non comprese che cosa dovesse egli aspettare. Ma tolse dalle mani del servitore la lettera, lo rimandò ai fatti suoi, e rientrò nella camera di sua madre. Colà giunto strappò la busta, lesse in un batter l'occhio (così breve era il messaggio di Livia!), gittò un grido, e il foglio gli cadde di mano.

Lo raccolse la signora Adriana, e lesse a sua volta;

“Obbedisci a tua madre, e vivi. Mi levo io da soffrire, e levo tutti di pena. E dire che ti amavo! Non ho amato altri che te. Lo sento e posso dirlo in quest'ora, che Iddio sta per giudicarmi.

“La tua povera Livia.„

La signora Adriana trasse un profondo sospiro, e seguì il suo Raimondo, che già era fuori, facendo a precipizio la scala.

– Giovanni, – gridava egli, incontrandosi sul pianerottolo col servitore di sentinella, – dov'è la signora?

– Nelle sue camere, credo. Di là è uscita, per consegnarmi la lettera. —

Raimondo corse affannato nelle stanze di Livia. Nel piccolo studio, ov'ella certamente aveva scritto, non c'era; nella camera da letto, nemmeno. Ma era aperta la finestra, e l'aria pungente della sera si cacciava dentro, facendo tremolare la fiamma d'una candela accesa, sulla lastra di marmo d'un cassettone. Atterrito, il poveretto si affacciò al terrazzino, l'ultimo a destra, sulla facciata del palazzo Orseolo, e di lassù gli venne all'orecchio un vocìo confuso, che muoveva dal traghetto vicino. Seguiva un pronto agitarsi di gondole, e tosto un grido che dominava tutte le altre voci: “una donna nel Canale!„

Non volle udirne di più; passato veloce tra sua madre, che era lì esterrefatta sull'uscio, e il fedel servitore che prese tosto a seguirlo, corse in anticamera, aperse l'uscio e guizzò per la scala fino alla gradinata che metteva sull'acqua e chiamò a gran voce una gondola, che tosto accorse per portarlo verso il traghetto. Alla luce dei fanali vide allora un corpo di donna che alcuni gondolieri avevano poc'anzi afferrato, quasi pescato a fior d'acqua, e che traevano a riva, chiamando gente in aiuto.

– Il signor Zuliani! il signor Zuliani! È la sua signora, che si è gettata in acqua.

– Caduta; – tuonò in accento di correzione una voce, al cui suono il signor Zuliani si volse, riconoscendo il suo fedel servitore, che lo aveva seguito ed era entrato con lui, senza che egli pur ne avvertisse la presenza, nella medesima barca.

– Giovanni, un medico! Prendi il primo che trovi; poi va a cercare il dottor Teodoro. —

Sarebbero venute opportune le cure dei medici? La povera donna era fuori dei sensi, come morta, e grondante sangue dal capo. Intanto, chiamato da alcuni pietosi, accorreva un medico dalla farmacia più vicina; vide il caso, che gli parve disperato, e ordinò che per intanto la signora fosse al più presto levata di là, dove non c'era modo, tra per la calca e per la scarsità della luce, di fare un'esplorazione convenevole. Tutti volevano aiutare, a sollevar la giacente: Giovanni si fece avanti a spintoni, e alzandola di soppeso tra le erculee braccia, mosse veloce verso l'uscio da tergo del palazzo Orseolo, che fu tosto richiuso com'egli fu passato, insieme col padrone, col medico e due o tre più solleciti aiutatori. Accorrevano intanto sulla scala le persone di servizio, gridando, gemendo, ma soprattutto chiedendo notizie.

– Caduta! che disgrazia! caduta! – ripeteva il portatore del prezioso fardello.

E giunto nell'anticamera, si faceva spalancare l'uscio delle stanze interne, dove entrando veloce andò a deporre la infelice padrona sul letto del signor Zuliani. Perchè là, e non due camere più oltre, sul letto della signora? Il perchè era presto detto; la camera del signor Raimondo era più vicina all'anticamera: premeva al buon servitore di non isballottare più a lungo quella povera carne semiviva.

Ciò fatto, e lasciando il dottore al suo pietoso uffizio, come il signor Zuliani alla sua desolazione, Giovanni prese in disparte uno dei volenterosi aiutatori che si erano introdotti in casa. Era una sua conoscenza, e se ne poteva fidare.

– Bortolo, – gli disse, – fa un'ottima cosa, anzi due. Va in Calle larga San Marco, e cerca il dottor Teodoro Del Vago: o alla farmacia Mantovani, o in casa sua, che è a due passi dalla farmacia. Poi passa al Cappello Nero e chiedi del signor Antonio Brizzi, segretario del banco Zuliani. Se non c'è, ti diranno dov'è andato. E l'uno e l'altro vengano al palazzo Orseolo. —

Una moneta da due lire, tolta generosamente dal peculio privato di “Paron Nane,„ scivolava intanto nelle mani di quell'altro, che promise di fare le due commissioni a puntino, e per intanto fu lesto a infilare la scala.

“Paron Nane„ non aveva ancora finito di darsi attorno. Fatto un giro a destra, come per andare a chiudere usci e finestre nelle stanze vicine, entrò in quella della padrona. Non c'era nessuno, e la candela accesa seguitava a consumarsi sul cassettone, sotto lo sventolìo della fiamma al riscontro dell'aria. Egli spense prudentemente la bugia traditora, e nel buio della stanza si affacciò al terrazzino. Sporse il capo infuori, come dianzi aveva fatto il padrone. Non c'era nessuno, là sotto, tra il muro del palazzo e i pali del Canale; la ressa delle barche era tutta al traghetto, un cinquanta passi lontano; quella dei curiosi era divisa fra la riva del traghetto e le strade a tergo del palazzo. Si vociava, laggiù, e il rumor delle voci piacque a “Paron Nane„ che per suo gusto lo avrebbe voluto anche più forte. Ed egli, allora, allargando le palme poderose sul davanzale del terrazzino, fece in buon punto, e in tre tempi, da vecchio soldato, quello che gli era passato per la mente di fare.

Nella camera di Raimondo, frattanto, dopo aver liberata la povera signora dalle sue vesti inzuppate, il medico faceva le sue esplorazioni. La ferita del capo non pareva che dovesse essere gravissima; la capigliatura abbondante aveva ammorzata la violenza del colpo; forse anche era da credere che, cadendo col capo all'ingiù, la vetta del cranio fosse scivolata per sua fortuna sulla testa tondeggiante d'un palo. La giacente, per altro, non era rinvenuta ancora; poteva temersi d'una commozione cerebrale, come anche d'una commozione viscerale; onde il medico prudente non si arrischiava di dare un responso. Ma a poco a poco, frizioni ed aspersioni recarono frutto; l'inferma incominciava a riaversi, dandone segno con un rammarichio sommesso, e poscia con gemiti. Sopraggiunse indi a poco il medico di casa, e si unì tosto colla esperienza dell'arte sua alla operosità del primo venuto, approvando, anzi, tutto ciò che aveva incominciato a fare il collega. E non adulava per convenienza professionale, il dottore Del Vago; quel collega trovato per caso era veramente dei buoni.

Eccellenti ambedue; ma il povero Raimondo era disperato, vedendoli ambedue così pieni di ansietà e così reluttanti a dargli speranze, a dirgli almeno ciò che pensavano. E fece un gesto di rabbiosa impazienza, quando vennero a dirgli che un signore, capitato allora, chiedeva di parlare con lui.

– Chi è! che cosa vuole?

– Uno della questura; – rispose il servo. – E pare, a giudicarlo dall'aspetto, un pezzo grosso.

– Ditegli che non sono in istato di ricevere. Abbia compassione; ripassi domani.

– Se mi permette… – entrò a dire Giovanni. – Lo faccia passare. Sarà venuto per sapere come è avvenuta la disgrazia. Gliela spiego io.

– Ma… che cosa vorresti spiegare?.. – disse Raimondo, turbato.

– Mi lasci fare, signor padrone; si fidi di me. – Raimondo lo lasciò fare, e lo seguì in anticamera, dove riconobbe il visitatore. Pel bisogno di prendere informazioni bastava un delegato; trattandosi della famiglia Zuliani era venuto il signor questore in persona. Raimondo lo accolse come meglio potè; ma non sapeva che dirgli, tanto era sconvolto. Venne uno dei dottori, e sommariamente descrisse all'egregio ufficiale lo stato dell'inferma; la quale era ritornata in sè, finalmente, lasciando loro aprir l'animo ad un fil di speranza; filo leggero, per altro, ancor troppo leggero.

Il signor questore si profuse in condoglianze, com'era il caso davvero. Ma come era andato il fatto doloroso? La domanda era naturalissima; nè egli, nè altri in quell'ora e in quella condizione poteva astenersi dal farla.

Gli spiegò il buon servo Giovanni ogni cosa, conducendo il degno personaggio, insieme col signor Raimondo, nella camera della signora, e di là fino alla soglia del terrazzino.

– Badi, illustrissimo; – gli disse, trattenendolo a quel punto; – non si affacci, per carità. Vede che cos'è stato? —

Il terrazzino reggeva ancora dal piede e dai fianchi; ma il parapetto era andato.

– Vedo, vedo; – disse il signor questore, ritraendosi. – La povera signora s'è appoggiata al davanzale; il parapetto ha ceduto…

– Proprio così, com'Ella saviamente osserva; – soggiunse quell'altro. – La signora aveva l'uso ogni sera di affacciarsi di lì, guardando sul Canale, mentre faceva prender aria alla camera. Maledette anticaglie! L'ho sempre detto, io, che un giorno o l'altro questi parapetti avrebbero fatto qualche brutto scherzo. Dio sa da quanto tempo le staffe di ferro si erano corrose, e i pezzi di marmo stavano ritti per miracolo. —

Il parapetto parlava chiaro: diceva nella sua medesima assenza come fosse andata la cosa. E il signor questore, rinnovate le sue condoglianze, si accomiatò dal signor Zuliani, esortandolo ad esser forte, a sperare.

Prima di seguitare il dottore, che già si era mosso per ritornare presso l'inferma, Raimondo andò verso il suo servitore che stava chiudendo le imposte della finestra malaugurata.

– Che è ciò? – gli chiese, accennando il terrazzino. —

Giovanni diede anzitutto una guardata sospettosa intorno, poi ammiccò al padrone, mostrandogli le sue braccia nerborute, e facendo l'atto di scrollare davanti a sè qualche cosa.

– La gente non avrà da malignare; – disse egli poscia, a mo' di commento.

Il signor Zuliani capì, e gli strinse la mano. In tutt'altra occasione gli avrebbe battuta la palma sulla spalla chiamandolo “Paron Nane„. Ma non era quello il momento.

Capitò in quel mezzo il signor Brizzi, ed ebbe, insieme con le altre, la notizia del parapetto caduto. Ci credette egli, che sapeva già tante cose di quelle due tristi giornate? Sì e no; ma pensando da uomo accorto che non fosse savio nè utile scandagliare il fondo delle cose.

Egli, prima di accorrere presso il suo principale, aveva avvertiti i signori Cantelli, che gli erano più vicini, e che certamente, trattandosi d'una sventura come quella, così grave per il signor Zuliani, non dovevano essere lasciati in disparte.

Quando il signor Anselmo e Margherita giunsero al palazzo Orseolo, i due dottori erano ancora presso l'inferma; sicuri oramai che la commozione cerebrale si dovesse escludere; non altrettanto sicuri quanto alla commozione viscerale. E l'uno e l'altro, ad ogni modo, avrebbero passata la notte in casa Zuliani.

Raimondo vide i due ultimi visitatori, a lui tanto cari. Gittò le braccia al collo del signor Anselmo e diede in un pianto dirotto.

– Coraggio! – gli disse Margherita, anche essa più morta che viva!

Coraggio! Il povero Zuliani non sapeva più che cosa fosse oramai.

– Ah! – mormorò egli, oppresso, sfinito dall'angoscia. – Il mio cuore è spezzato. —

Vanusepiirang:
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Ilmumiskuupäev Litres'is:
25 juuni 2017
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