Loe raamatut: «Il ritratto del diavolo», lehekülg 7

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VII

Siamo già presso al gran giorno, e ancora non si è fatta un'intima conoscenza con madonna Fiordalisa, che dovrebb'essere l'eroina della festa. Abbiamo ammirata la sua bellezza esteriore, ma l'anima sua non ci è nota. Abbiamo veduto il fiore, non abbiamo sentito il profumo.

Fiordalisa era vissuta molti anni da sola in casa di mastro Jacopo, padre amoroso, ma burbero e tutto sprofondato nell'arte sua. Esciva appena d'infanzia quando le era morta la madre, e ciò le aveva portato l'obbligo di molte cure domestiche non intese subito, ma vedute ed accettate a mano a mano che in lei cresceva con gli anni il giudizio. Era una bambina grave prima di essere una donnina forte.

Inoltre, ella aveva veduto assai presto la necessità di custodirsi da sè. Il fiorire della bellezza era stato precoce, e il ronzio dei calabroni del pari. Lodata, ammirata, corteggiata alla larga ma con visibile assiduità, bersagliata da sguardi languidi, salutata da esclamazioni subitanee, da voltate e da fermate che dicevano esse sole un mondo di cose, madonna Fiordalisa ci aveva tutte le tentazioni per diventare una vanerella. E forse sarebbe finita così, se la presenza di una mamma, tenendo lontani gli adoratori importuni, avesse lasciato libera quella bella creatura di scegliere nella turba i più modesti, e ad ogni modo di inebbriarsi in tutte le generazioni d'incenso che vaporavano intorno a lei. Ma io ve l'ho detto, Fiordalisa era sola; non aveva tempo nè modo di raccapezzarsi; doveva guardarsi da tutti, non osservando nessuno. E si era concentrata in sè chiudendo nel profondo dell'anima tutte le sue belle fantasie giovanili. Ora, voi sapete che cosa avviene dei liquori generosi, quando sono chiusi appuntino; fermentano da sè, si rinforzano in una specie di meditazione solitaria. E nell'anima di Fiordalisa, la fantasia aveva tanto più lavorato, quanto più era stata rinchiusa. La vita reale l'opprimeva con tutte le sue convenienze, i suoi riguardi, le sue necessità, ma lo spirito si ricattava di quella tortura, affinando, abbellendo, innalzando il proprio ideale.

Mastro Jacopo credeva di comandar lui alla sua bella figliuola, perchè, quando le diceva: "facciamo la tal cosa" ella si affrettava ad obbedirgli. E non sapeva, il babbo, che egli non comandava mai e che non consigliava mai nulla che non fosse ispirato da lei, e preparato da lunga mano con sapienti rigiri. Per esempio, la fanciulla aveva inteso assai presto che un giorno le sarebbe toccato di andare a marito, e che forse avrebbe dovuto escire di casa. E allora, chi avrebbe avuto cura del babbo? Un uomo solo ha bisogno di tante cose, nel governo della casa, che una donna gli è più che utile, necessaria. Nè basta a lui di essere in tal condizione d'agiatezza, che gli consenta il lusso di due o tre donne di governo. Fossero anche dieci, esse non valgono l'occhio ed il cenno di una buona massaia. Perciò, immaginate con quanti graziosi artifizi madonna Fiordalisa s'industriasse a insinuare bel bello nella mente di suo padre che la figliuola di un artista non doveva sposare che un artista. La cosa tornava bene all'umore bizzarro di mastro Jacopo; ed egli aveva fatta sua l'ideina germogliata nel cervello della sua Fiordalisa.

Perchè s'era messa in testa di consigliarlo a quel modo? Son certo che voi, lettor sottile, non mi menate buona la ragione domestica, rammentando la massima, confermata da una osservazione costante, che noi accogliamo le idee savie solamente quando esse s'accordano con una realtà che ci piace. Ma, a farlo apposta per isbugiardare la massima, Fiordalisa non ci aveva nessuna realtà di quelle che potreste figurarvi. Ella non aveva davanti agli occhi la più piccola immagine di genio nascente. Gli scolari di suo padre erano rozzi, o gaglioffi, veri fattori, garzoni di bottega, non artisti da innamorare le fanciulle. Madonna Fiordalisa non aveva condotto l'animo di suo padre su quella via, che per un senso d'orgoglio. Ecco in che modo.

L'arte della pittura incominciava allora ad essere tenuta in qualche pregio, più per la fama di Giotto e de' suoi valenti discepoli, che non per sè medesima, come arte liberale. Solo da pochi anni i pittori avevano istituita in Firenze la loro confraternita speciale, e mastro Jacopo di Casentino, che v'era ascritto dei primi, aveva dipinto per l'oratorio di quella un San Luca che ritrae la Nostra Donna in un quadro. Ma ciò non bastava ancora a nobilitare i pittori, poichè, lo sapete, tutte le distinzioni hanno mestieri di pigliar lustro dal tempo. Inoltre la compagnia di san Luca non era nata con intendimenti molto orgogliosi, ma solo perchè i maestri che allora vivevano, così della vecchia maniera greca, come della nuova di Giotto, ritrovandosi in gran numero e considerando che l'arti del disegno avevano in Toscana, anzi proprio in Firenze, avuto il loro rinascimento, s'erano consigliati di creare la detta compagnia, sotto il nome e la protezione di san Luca evangelista, sì per render lode e grazie a Dio nell'oratorio di quella, sì anco per trovarsi alcuna volta insieme e sovvenire nelle cose dell'anima e del corpo a chi, secondo i tempi, n'avesse bisogno. Il periodo è lungo; ma non è che l'abbreviatura d'un altro, anche più lungo, di messer Giorgio Vasari. Del resto i pittori non erano che una frazione degli scudai, rotellai, palvesai, ed altri artefici di quella fatta; nè si credevano diversi da questi, poichè tutti dipingevano le pezze onorevoli e le imprese negli scudi degli uomini di guerra. La famosa risposta di Giotto a quel villan rifatto che voleva farsi dipinger l'arme da lui, è la riprova di questa comunanza di lavoro. Il rinnovatore dell'arte italiana non si doleva tanto di dover dipingere uno stemma, quanto di dover accettare la commissione d'un uomo di picciolo affare, che ragionava d'armi come se fosse il duca Namo di Baviera.

Accadeva dunque all'arte della pittura ciò che è dei piccoli aquilotti nel nido, che sentono nascer le penne e già batton l'ali, quantunque abbiano ancora i bordoni. Madonna Fiordalisa sentiva il gentile orgoglio dell'arte paterna, e in ciò spero che nessuno le vorrà dar torto. Quegli angioli e quelle Vergini che dipingeva suo padre e che facevano rimanere a bocca aperta tanti gentiluomi di Firenze e di Arezzo, erano quarti di nobiltà per la sua casa, che valevano pure le armi di concessione degli imperatori di Lamagna e dei reali di Francia. Madonna Fiordalisa aveva dunque la sua piccola superbia in testa. E poichè al matrimonio bisognava pensare, per la ragione naturalissima che una bella ragazza come lei non avrebbe potuto sottrarvisi, ella incominciò a fare il suo ragionamento dentro di sè. Un artefice di umili lavori non lo voleva, e ad ogni modo non lo avrebbe voluto mastro Jacopo; ma un gentiluomo, ancorchè fosse piaciuto a suo padre, non lo avrebbe voluto lei sentendo istintivamente che i grandi, i potenti della terra, non erano fatti per la figliuola d'un pittore. Madonna Fiordalisa non amava discendere, ma non voleva neanche salire ad una altezza, dove poi le si potesse rinfacciare l'umiltà relativa dei suoi natali. In quel corpicino leggiadro batteva un cuor di regina.

Nessuno, io spero, vorrà dirmi che io la rendo brutta, dipingendola un tantino orgogliosa. L'ipocrisia non deve guastar l'arte, come qualche volta pur troppo le avviene di guastar la natura. Orgogliosi lo siam tutti la parte nostra, e meglio sarebbe confessarlo sinceramente, ognuno per sè medesimo, anzi che fermarsi a biasimare la cosa negli altri. Fiordalisa a buon conto, era superba come doveva essere, di quella superbia che non reca offesa ad alcuno, ma che basta a farci sentire non indegnamente di noi, ed è stimolo potente ad opere egregie, o almeno almeno a non volgari pensieri.

La realtà piacevole che, come ho detto, mancava ancora alla bella Fiordalisa quando ella incominciò ad insinuare nella mente di suo padre l'idea di non volere che un artista per genero, si presentò finalmente, nella persona di Spinello Spinelli. La fanciulla riconobbe in lui l'ultimo venuto e il più modesto de' suoi adoratori di strada. Si turbò, a tutta prima, immaginando che fosse un temerario introdottosi destramente in casa di mastro Jacopo, sotto colore di una vocazione artistica che non sentisse davvero nell'anima. Fiordalisa era una di quelle donne che non amano gli audaci. Ma ella non istette molto ad accorgersi che Spinello non aveva mentito, e incominciò a vedere in lui l'incarnazione di quell'ideale che ella vagheggiava nella sua mente. Si raccolse allora in sè medesima, assaporando la nuova sensazione che il caso portava nella sua esistenza. Il cuore di Fiordalisa si era svegliato; per contro, la sua fantasia, vigile da prima e avvezza a vagar dietro alle chimere, si addormentava in un bel sogno, che aveva argomento nel vero.

C'è nell'amore un grazioso dormiveglia, di cui come di tante altre cose piacevoli, si sente la delizia, quando la sensazione è cessata, o s'è trasformata in un'altra. Il cuore incomincia a farsi vivo, nel confuso bisbiglio d'una voce arcana. La ragione, acquietata da onesti argomenti, o persuasa dalla lontananza del pericolo, trova nel fatto il suo tornaconto e sonnecchia, lasciando che l'anima si abbandoni intieramente al soave sentimento che la invade. Tutti gli amori lo hanno, questo dolce periodo d'infanzia, del non desiderare, del non discuter nulla, dell'accettare la vita e la cosa come ci sono offerte dalla lieta occasione. È il tempo in cui l'uomo osserva la veste portata da una donna, per rammentarsene poi, come d'ogni parte più appariscente della bellezza di lei; è il lampo in cui la donna medita sulle frasi più insignificanti, e finisce a trovarci un senso riposto. E più tardi l'uomo può dire: "Sapete? la prima volta che ho sentito di amarvi, eravate vestita così e così." E la donna dal canto suo: "Vi rammentate? Un giorno, nel tal luogo, alla tal ora, mi avete detto che non vi piacevano i marrons glacés." Cara infanzia d'amore! In quel soave dormiveglia si è compiuto il grande mistero della compenetrazione (stavo per dire della transustanziazione) di due cuori, di due anime, di due esistenze. E quando ci si trova innamorati a buono, non si sa mica come la sia andata, nè quando sia entrato, nè da che uscio, l'amore. Si vorrebbe saperlo, per appagare una gentile curiosità, e rinnovarne la grata sensazione. Ma invano; l'indagine nostra non può risalire all'origine, o, se vi giunge, non trova nulla di chiaro. Così è l'infanzia del linguaggio, di quest'altro sublime mistero. Come ha imparato a parlare il bambino? Quando e per che vie ha trovati i nessi della frase e i segreti della coniugazione? Cercate e non troverete; bussate e non vi sarà aperto, nè ora, nè mai.

Quando madonna Fiordalisa si accorse di amar tanto il nuovo discepolo di suo padre, mastro Jacopo era già più infatuato dei meriti di Spinello che ella non fosse invaghita del giovane. Una bella mattina mastro Jacopo le disse così di schianto: "Sai? Spinello ti ama; io amo lui; resta che lo ami anche tu, perchè la catena sia fatta". Ella rise della forma bizzarra che suo padre avea dato alla notizia; ma non ebbe a maravigliarsene punto. Come l'amore di Spinello Spinelli, così le intenzioni benevole di mastro Jacopo non erano una novità per lei; le sapeva già, le sentiva nell'aria.

Anche il trionfo artistico di Spinello nell'affresco del Duomo, per grande che fosse, era preveduto. La cosa andava da sè. Era, per dir così, la chiave della camera nuziale, ed era giusto che Spinello facesse miracoli per ottenerla. Di questo ella non aveva mai dubitato, poichè la ragione dell'impresa, il segreto della vittoria di Spinello, era in lei, consapevole virtù teologale. Quante cose sapeva la bella Fiordalisa! Ma badate, non più tante come prima. Per esempio, una volta ella sapeva quanti uomini in Arezzo fossero innamorati di lei. Nè già perchè ella si fosse fermata a contarli, vi prego di crederlo, ma perchè non poteva non vederli, non sentirsi fischiare all'orecchio le loro giaculatorie, anche quelle che non escivano fuori in parole formate. Madonna Fiordalisa vedeva senza guardare, udiva senza ascoltare. Ma quando ella sentì di amare Spinello, non vide, non udì più nulla del mondo. Il sesto senso che hanno le donne, per cogliere ciò che sfugge all'attenzione dell'universale, fu spento d'improvviso in lei. Madonna Fiordalisa non vedeva, non udiva che un uomo. In apparenza, era sempre contegnosa e tranquilla, come quando sentiva il susurro degli inni che volavano a lei d'ogni parte, e direi quasi il crepitio dei cuori che ardevano sul suo passaggio trionfale. Ma nell'anima sua era un pensiero che non pativa rivali, nel suo cuore un'immagine che non lasciava posto a nessuna impressione esteriore.

La rammentate, la favola di quella bella principessa a cui una fata benigna aveva concesso di poter leggere nel cuore di tutti, fino a tanto che ella potesse veder chiaro nel suo? Un giorno la principessa si svegliò più triste dell'usato; guardò nel suo cuore e ci vide torbido. La poverina era innamorata. La favola dice che da principio ella non sapeva darsene pace; ma che poi ne fu consolata dalla sua protettrice. Che ti giova, le disse la fata, di leggere nel cuore di tutti? Le più grandi soddisfazioni della vanità non valgono il più piccolo conforto d'amore.—

Il guasto dell'affresco era venuto in mal punto, per indugiare la felicità dei nostri innamorati; ma non doveva altrimenti distruggerla, poichè la mano che aveva condotto a termine il primo lavoro, poteva incominciarne un secondo. Fiordaliso indovinò la presenza del nemico, e sospettò anzi un geloso. Ma suo padre non ci aveva veduto che il tiro mancino di un compagno d'arte invidioso, e mostrava anche di sapere dove metter le mani. La partenza improvvisa del Chiacchiera, del Granacci e di Lippo del Calzaiuolo dalla bottega di mastro Jacopo, confermava i sospetti del vecchio pittore. E Fiordalisa lasciò in disparte i suoi dubbi, non cercò altro, non si volse attorno per interrogare i sembianti, che avrebbero potuto impallidire. Del resto, che importava cercare il nemico, se Spinello doveva ad ogni modo riportare la palma? Fiordalisa rianimò il coraggio del suo fidanzato e gli persuase che da quel male ne sarebbe derivato un bene maggiore, poichè nella seconda prova egli avrebbe dimostrato, se era possibile, una più grande franchezza di mano.

Così avvenne, com'ella aveva pronosticato. Spinello ebbe vendetta allegra dello sconosciuto nemico, nel plauso di tutti i suoi concittadini, che avevano ammirato il primo dipinto e che levarono a cielo il secondo. E mastro Jacopo, contento come poteva esserlo un padre, diede a Spinello il maggior premio che per lui si potesse, annunziandogli che il matrimonio si sarebbe fatto fra un mese. Un mese! Appena quanto occorreva per gli apparecchi nuziali.

Gran giornata, quella festa di San Luca! Ma ogni santo ha la sua vigilia, e mastro Jacopo pensò giustamente che dovesse averla anche il terzo degli evangelisti e il primo dei pittori cristiani. Il giorno delle nozze doveva essere un giorno di raccoglimento; bisognava dunque solennizzarlo in anticipazione, facendo alla vigilia il pranzo nuziale.

La casa di mastro Jacopo era di persona agiata, ma non ricca. Del resto, a quei tempi, anche i popolani grassi vivevano semplicemente. Al servigi della famiglia di mastro Jacopo non c'era che una vecchia fante, la quale bastava a tutto, e a governare la casa e ad accompagnare madonna Fiordalisa, quando esciva per andare agli uffizi divini. Essa per altro non sarebbe bastata ai bisogni di quella circostanza solenne, e fu mestieri provvedersi di quattro o cinque mezzi servizi per quel giorno di grandi faccende domestiche. Parri della Quercia e Tuccio di Credi, volonterosi aiutanti, si fecero in quattro, per servire il maestro in quelle ricerche e in tutto l'altro che gli fosse bisognevole. Nella necessità si conoscono gli amici; e quello era il meno che potessero fare, per dimostrargli la loro gratitudine.

Il vecchio pittore si rallegrava di vedere raccolta in casa sua tanta gente. I congiunti non erano molti, poichè egli non era nato in Arezzo e messer Luca Spinelli neppure. Ma una zia si trovò, ed anche una copia di cugini o di cugine, a cui si aggiunse una mezza serqua di amici vecchi, che potevano considerarsi come parenti, o giù di lì. C'erano poi gli scolari di Mastro Jacopo, ed anche qualche bell'umore, di quei tali che si invitano a tutte le feste, perchè rallegrino le brigate coi loro motti arguti o con le loro canzoni.

Messer Luca Spinelli, quel giorno, baciò sulle gote la gentil Fiordalisa e la chiamò col dolce nome di figlia. Com'era bella, nella sua veste di ferrandina a larghe pieghe e la radice del collo coperta da un baveretto bianco! Era la veste che ella indossava per recarsi al Duomo; la veste con cui l'aveva veduta per la prima volta Spinello, e voi intenderete, io m'immagino, il delicato pensiero che l'aveva consigliata di vestirsi a quel modo, lasciando al giorno seguente le più sfarzose abbigliature.

Ma ohimè, se Fiordalisa, era bella, non era altrimenti lieta. Messer Luca osservò che la sua nuora futura, anzi, la sua cara figliuola, poichè oramai poteva anch'egli chiamarla così, portava sul volto le traccie d'un interno rammarico.

–Luca mio,—gli disse mastro Jacopo, traendolo in disparte,—che volete? Son donne e ci hanno le loro piccole superstizioni. S'è dovuto prendere quattro o cinque persone a mezzo servizio, per dar mano a tutto il bisognevole in questa casa, dove pare che ci sia il finimondo. E stamane, uno di questi gaglioffi anzi una di queste sventate, poichè si tratta d'una donna, nel riporre certe robe nel forziere di mia figlia, ha lasciato cadere un piccolo specchio, che è andato, come potete immaginarvi, in tanti minuzzoli. E per giunta (vedete che sciocca!) non s'è messa a gridare che era una grande disgrazia?

–Lo è certamente;—notò messer Luca Spinelli.—Costa caro uno specchio!

–Oh, per questo avete ragione; ma non era il caso di vederci altro guaio. La mia figliuola veramente non li aveva, certi pregiudizi per il capo; ma voi mi capirete bene; sentirsi dire che il rompere uno specchio porta sventura, non è certamente una cosa piacevole, specie alla vigilia d'un matrimonio. Io per altro l'ho consolata, dicendole che la rottura d'uno specchio porta sventura, bensì, ma solamente a chi lo ha lasciato cascare. Non ho detto bene? Ma lasciamo queste ragazzate;—conchiuse mastro Jacopo;—e andiamo a tavola, con la benedizione di Dio.

Del resto, se madonna Fiordalisa era grave all'aspetto, non crediate che fosse per quel piccolo guaio, dimenticato pochi istanti dopo che era avvenuto. Ed ella e il suo fidanzato stavano in contegno, come è costume di tutti gl'innamorati, giunti a quel momento, in cui hanno da custodire la loro allegrezza dallo sguardo importuno dei curiosi, ed anche da nascondere, per debito di cortesia, la noia che provano a dover perdere il loro tempo in compagnia di profani.

Fortunatamente, se i due innamorati apparivano un po' malinconici, mastro Jacopo era gaio per essi e per altre undici coppie di sposi. È sempre andata così. I caratteri più burberi quando girano per caso al buon umore, diventano così pienamente e così rumorosamente allegri da mettere in sacco una dozzina di giullari.

Mastro Jacopo aveva ragione d'essere così allegro. La sua figliuola andava a marito. Era la sorte di tutte le ragazze; ma per quella volta la frase non era precisa, poichè Fiordalisa non andava restava, ed era il marito che faceva la strada. Mastro Jacopo aveva voluto tirarsi il genero in casa, e Luca Spinelli che non era ricco, già lo sapete, si acconciava al desiderio del vecchio pittore. Il quale poteva dire giustamente di aver concessa con una mano sua figlia, ma di averla ritenuta con l'altra.

Alle gioie domestiche di mastro Jacopo avevano preso parte moltissimi, in Arezzo, e si potrebbe aggiungere tutti gli abitanti della contrada. Mastro Jacopo era universalmente stimato; la sua figliuola era universalmente amata, anzi per dirla con una iperbole tutta nostrana, adorata. Figuratevi che davanti all'uscio di casa erano stati piantati degli alberi inghirlandati di fiori. Era la confusione del calendario; ii maggio in ottobre! E sotto alle finestre della casa si affollavano i cantori popolari, per festeggiare le nozze di madonna Fiordalisa coi loro rispetti, frammezzati da certe rifiorite, che era una delizia a sentirle.

Non vi descrivo il pranzo. Vi dirò solamente che fu degno della circostanza e lieto per una bella confusione di bicchieri e di lingue. Il vin toscano, specie quello di Val di Chiana, è generoso, non traditore; vi dà una dolce allegria, senza turbar la ragione.

Spinello non mangiava e non beveva che a fior di labbra. Guardava Fiordalisa. Stava a sentire i motti, sorrideva ai complimenti, accettava gli augurii, ma senza meditarci su. Guardava Fiordalisa. Di tanto in tanto, facendo uno sforzo di volontà, si concentrava in sè medesimo e chiedeva:

Son io, proprio io, che la sposo? Non è un sogno, che faccio? In fede mia non lo so. Vedrò di persuadermene domani.—

La giornata era bellissima, forse un po' troppo calda, per il mezzo d'ottobre. Guardando Fiordalisa ad ogni tratto, Spinello s'immaginò ch'ella dovesse soffrire. Come Dio volle, anche il pranzo finì; ed egli, accostandosi alla sua fidanzata, le chiese sotto voce:

–Madonna, che avete? Vi sentite qualche cosa?

–Oh, nulla;—rispose ella.—Un po' di caldo.

–Dovevo figurarmelo;—riprese Spinello.—Si sta male, chiusi qui dentro, ed in tanti! Venite con me, madonna, a respirare un po' di aria libera.—

Fiordalisa accettò l'invito di Spinello, ed escì con lui sul loggiato. Era l'ora di vespro, e il sole incominciava a nascondersi dietro i tetti delle case vicine. Il cielo era splendido scintillante d'oro con riflessi di porpora. L'aria, sul loggiato, era tiepida ancora della lunga refrazione dei raggi solari sulle pareti e sui colonnini di marmo; ma dalla strada incominciava a spirare il timido soffio dell'aria vespertina. Fiordalisa bevve con desiderio quell'alito consolatore.

–Bella sera!—esclamò Spinello!—E miglior giorno sarà domani!—

Fiordalisa si volse a lui e sorrise, ma d'un sorriso stanco, che morì appena nato su quelle pallide labbra.

–Anima mia!—proseguì Spinello avvicinandosi.—Voi non vi sentite bene, quest'oggi!

–È vero;—diss'ella–Non so proprio che cosa sia. Mi parea di morire, là dentro.

–Dio mio!—esclamò il giovane, commosso—bisognerà prendere qualche cosa. Se io sapessi!…

–Oh, non vi date pensiero. Anche oggi, prima di venire a tavola, ho preso un cordiale. Mi sentivo già un poco abbattuta!….—

Spinello si sarebbe turbato per molto meno. Volgendo la testa, come chi cerchi qualche cosa che non sa, gli venne veduta, nel vano dell'uscio che metteva al loggiato, la faccia scura di Tuccio di Credi.

–Tuccio,—diss'egli allora,—vi prego, chiamate mastro Jacopo.—

Tuccio si era inoltrato fin là, con aria tra curiosa e indifferente. Gli dava noia d'esser colto sull'atto di spiare i due giovani; ed era già per tirarsi indietro, sperando di passare inosservato, quando gli giunse la voce di Spinello.

–Subito;—rispose egli, confondendo nella scossa del comando ricevuto quella del vedersi scoperto.

E andò prontamente a far l'imbasciata. Poco dopo, mastro Jacopo giungeva sul loggiato.

–Mi avete chiesto? Che c'è? Che cosa è avvenuto?—gridò egli, vedendo Spinello che si volgeva a lui, con la cera sconvolta.

–C'è… Oh, padre mio, non vi turbate oltre il necessario! Fiordalisa non si sente troppo bene. Il caldo la soffocava, là dentro.

–Eh, capisco;—rispose mastro Jacopo, riavutosi dal primo spavento.—Non è avvezza a queste confusioni. Per fortuna, non vengono che una volta sola. Fiordalisa, figliuola mia, ora ti senti meglio, non è vero?

–Sì, babbo;—rispose la fanciulla, con un filo di voce.—Quest'aria mi fa bene. Ma vorrei berne tanta…tanta! Ho un po' di stanchezza…e un po' di sonno, anche.—

In quel mentre, capitavano sul loggiato parecchi dei convitati.

–Che cos'è avvenuto?—chiese Luca Spinelli. Abbiamo veduto Tuccio di —Credi così stralunato! Ah, Fiordalisa! Si sentirebbe male?

–Un po' di stanchezza; non è nulla;—rispose mastro Jacopo, ma con un tono di voce che contrastava con le parole.—Il caldo della sala da pranzo…le nostre chiacchiere!…

–Già, il caldo; lo sentivamo anche noi;—entrarono a dire le cugine.—Ma l'aria libera le farà bene. Non è vero, Fiordalisa?

–Sì;—mormorò la fanciulla, socchiudendo le palpebre.

–In verità,—disse Spinello, che aveva notato quell'atto.—sarebbe meglio un po' di moto. Non vi pare, Fiordalisa?

E avvicinatosi a lei, le bisbigliò all'orecchio una dolce parola.

–Andiamo;—balbettò ella.—Mi farà bene… con voi.

Ma ella non accennò altrimenti di volersi alzare. Scosse in quella vece il capo e si recò la mano al petto, come se volesse trattenere qualche cosa che era per fuggirle in quel punto.

Spinello si buttò ginocchioni davanti a lei e l'afferrò per le braccia.

–Che è ciò? Dio santo!—gridò egli sbigottito.—Fiordalisa, amor mio!—

Scossa da quell'accento supplichevole, la fanciulla aperse a stento le ciglia e rivolse a Spinello una languida occhiata; ma le palpebre si richiusero tosto. Mosse ancora le labbra, come per dire qualche cosa, indi si abbandonò come persona stanca e lasciò ricader la testa sull'omero.

Due grida strazianti proruppero ad un tempo; il grido di mastro Jacopo e il grido di Spinello Spinelli. Ma la bella Fiordalisa non udì più i disperati richiami di que' due amori che si concentravano in lei.

–Che avete?—entrò a dire messer Luca.—. Ella si è addormentata.

–Ah, diceste il vero, padre mio!—gridò Spinello Spinelli.—Un medico! Un medico! Chi trova un medico?—

Il sospetto di una disgrazia era penetrato nel cuore di tutti. E tutti si offersero di andare in cerca d'un medico. Ma primo tra tutti balzò fuori mastro Jacopo, e nessuno ebbe il coraggio di contendergli quell'ufficio. Il vecchio padre andò via come un disperato. Chi lo vide in volto, mentre usciva a furia dal crocchio, senti corrersi un brivido di terrore per l'ossa.

Intorno alla povera Fiordalisa era una confusione, un tramestio da non dirsi a parole. Tutti volevano esser utili, tutti si confidavano di farle ricuperare i sensi. Prime le donne, che si erano affrettate a slacciarle la veste. Spinello e gli altri uomini, mossi da un sentimento di rispetto, si ritrassero in disparte. Alcuni, obbedendo ai comandi della vecchia zia, che prendeva ad esercitare l'autorità inerente all'età sua ed al suo grado di parentela, andarono a cercare l'aceto, le acque nanfe, e tutto quell'altro che poteva parere più acconcio al bisogno. Il viso e la radice del collo furono abbondantemente spruzzati, ma invano; Fiordalisa non dava segno di vita.

Erano tutti ancora intenti a quell'opera quando ritornò mastro Jacopo. Il vecchio pittore era andato e tornato come un fulmine, trascinando con sè mastro Giovanni da Cortona, uno dei più valenti discepoli d'Esculapio, che fossero allora in Arezzo.

–Orbene?—gridò il vecchio, affacciandosi al loggiato.—È rinvenuta?—

Gli sguardi abbattuti della brigata dissero a mastro Jacopo che la speranza con cui era tornato in casa era vana. Allora il povero padre si cacciò avanti con impeto disperato, gridando:

–Mia figlia! mia, figlia!—

Povero padre! Faceva compassione a vederlo.

–Animo, via,—disse messer Giovanni da Cortona,—non vi disperate così. Sarà uno svenimento.—

E si avanzò in mezzo al crocchio, il degno seguace di Galeno, per vedere da vicino la fanciulla. Notò da principio il volto che ora bianco come il marmo; indi toccò il polso e pose la mano al petto, interrogando le fonti della vita; da ultimo accostò la guancia alle labbra, per sentire se ci fosse ombra di respiro. A mano a mano che egli procedeva nelle sue indagini, gli astanti si stringevano intorno a lui, fissandolo negli occhi, come per indovinare il suo responso, prima che gli escusse dal labbro. Messer Giovanni era grave, da principio; ma, seguitando l'esplorazione, divenne triste senz'altro e una lagrima gli apparve sul ciglio.

–Parlate, in nome di Dio!—gridò mastro Jacopo, in preda ad un'ansia mortale.—C'è speranza, non è vero?—

Messer Giovanni gli rivolse un'occhiata malinconica.

–Povero padre!—rispose.—Avete nominato Iddio; rivolgetevi a lui e pregate. Egli solo, con un atto della sua misericordia, potrebbe restituirvi quest'angiola vostra.

–Ah!—esclamò il vecchio, con voce soffocata dai singhiozzi.—Che avete detto, Giovanni da Cortona? A Dio? Rivolgermi a Dio? Mia figlia! Voglio mia figlia! Medico, medico, hai inteso? Tu devi salvarla; lo voglio.—

Messer Giovanni chinò la testa come un uomo che sente il dolore altrui, ma che non può consolarlo altrimenti.

–Ma è impossibile! Impossibile!—ripigliò mastro Jacopo.—Mia figlia…mia figlia morire? Se non aveva nulla, stamane! Ah,—soggiunse, ricordandosi,—lo specchio! lo specchio!—

Il medico si volse ai vicini, chiedendo col gesto una spiegazione di quelle oscure parole. Messer Luca credette necessario di raccontargli ciò che sapeva, intorno alla rottura dello specchio e alla dolorosa impressione che il tristo presagio aveva fatto sull'animo di Fiordalisa. Messer Giovanni allora volle sapere minutamente ogni particolare dalle donne di servizio.

–E che cosa le avete dato?—diss'egli.

–Un cordiale, messere. La poverina si sentiva languire, e abbiamo pensato di confortarle lo stomaco. S'è ammannito un brodo, con tuorli d'uova sbattute e un poco d'agro di limone. Abbiamo forse fatto male?

–No, niente di male;—rispose il medico.—Ma forse nessuna bevanda confortativa poteva giovarle più, dopo quella commozione violenta. Son cose che avvengono;—soggiunse, come parlando a sè stesso.—Le vene che s'innestano al cuore son troppo deboli, qualche volta, e uno spavento improvviso può romperle. Ah, povera macchina umana!

Chiuso con questo malinconico epifonema il discorso, messer Giovanni da Cortona ritornò verso mastro Jacopo, che veramente aveva bisogno di cure amorevoli. Quel povero padre urlava come un forsennato. Avvinghiatosi al corpo della sua figliuola, baciava il suo volto freddo, accarezzava, cercando di ravviarli, i suoi lucidi capelli castagni, che l'acqua aveva impiastricciati alle tempie; la scuoteva, tornava a baciarla, a carezzarla, e la chiamava per nome. Ma invano; quella povera carne non rispondeva più; le braccia ricadevano penzoloni sui fianchi.