Loe raamatut: «Il ritratto del diavolo», lehekülg 8

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La scena era troppo straziante. Si scongiurò mastro Jacopo a togliersi di là, ma le preghiere non facevano che accrescerne il furore, e fu necessario di trascinarlo a forza. Intanto le donne, preso sulle braccia il cadavere della fanciulla, lo recarono in casa e andarono a deporlo nel suo letticciuolo verginale.

Spinello Spinelli non aveva più proferito parola. Era caduto in uno stato di prostrazione, che meglio si sarebbe potuto dire stupidità. Lo sguardo languido che Fiordalisa gli aveva rivolto, morendo, gli stava sempre negli occhi. Pareva guardarvi, ma non vedeva nulla davanti a sè; pareva ascoltarvi a bocca aperta, ma non intendeva nulla di ciò che si diceva all'intorno.

Parri gli si accostò, e, postogli un braccio intorno alla vita, cercò di trascinarlo in casa.

–Animo, via! Siate forte,—gli disse,—e pensate a consolare quel povero padre, che sta per uscire di senno.—

Spinello guardò il suo compagno d'arte con aria melensa.

–Perchè?—gli chiese.

Ma in quel punto parve risovvenirsi, e diede in uno scoppio di pianto.

–Chi piange qui?—domandò mastro Jacopo con voce tuonante.—Non voglio che pianga nessuno. Finiamola con gli strepiti! Volete farla morire? Non voglio che muoia. È la mia figliuola, è il sangue mio. La custodirò, la rinchiuderò, che non abbia più a vederla anima nata. Nessuno la sposerà, avete inteso? Il Buontalenti meno d'ogni altro. Già,—esclamò il vecchio, con ironico accento,—pretendeva di averla lui, perchè è ricco. Nè ricchi, nè poveri, voglio. Fiordalisa ha da restare con me, sempre accanto a suo padre, per conforto alla sua vecchiaia. Si ostineranno! E noi partiremo, lasceremo questa casa, andremo a cercare sua madre. Medico, tu la salverai, siamo intesi. Bada a te, medico! Sua madre mi ucciderebbe, se io non le riconducessi l'amor suo. Ed io, vedi, prima di morire, ucciderei te con queste mani.—

Messer Giovanni da Cortona guardava con occhio triste il povero pittore impazzito. E pensava dentro di sè che nella compagine umana troppo breve spazio intercede dalla sanità di mente alla follia.

E qual breve distanza altresì dalle nozze alla tomba! Lì, nella cameretta verginale, posava sul letto la bianca salma di Fiordalisa. Si sarebbe detto che dormisse, tanto era riposato l'atteggiamento e tranquillo l'aspetto, e si poteva ripetere col poeta

"Morte bella parea nel suo bel viso."

Le donne stavano intorno al letto piangendo e pregando. Spinello, rannicchiato in un angolo, non dava altro segno di vita che il singhiozzo, ond'era preso alla gola. Nella camera vicina, Tuccio di Credi e Parri della Quercia si guardavano in viso, crollavano la testa e sospiravano, come uomini percossi da una medesima sventura.

Quella sera il curato del Duomo mandò il sagrestano alla casa di messer Jacopo, per chiedere a che ora del mattino gli facesse comodo di andare in chiesa per la cerimonia nuziale.

Mastro Jacopo, custodito da parecchi di casa, i quali reputavano utile per il momento di non contrariarlo nella sua fissazione, si fece innanzi e rispose:

–Non posso dirvelo; mia figlia dorme e non vo' che si svegli. Del resto, le nozze non si faranno più.

–O come?—esclamò quell'altro, volgendo intorno gli occhi attoniti e non intendendo i segni che gli facevano le persone di casa.—Che cos'è accaduto?—

La vecchia zia si fece innanzi e condusse il sagrestano sull'uscio.

–Dite al curato che venga per le preghiere dei defunti;—gli bisbigliò con voce soffocata dalle lagrime.—Fiordalisa è morta.—

VIII

La sventura toccata a mastro Jacopo di Casentino fu profondamente sentita in Arezzo. Il vecchio pittore aveva molti amici, ed era ben voluto anche da coloro che lo conoscevano appena. Madonna Fiordalisa, poi, era celebrata da tutti come un miracolo di bellezza e di grazia. L'annunzio della sua morte fece l'effetto d'uno schianto di fulmine.

Povero mastro Jacopo! Le anime caritatevoli, compiangendo il suo caso, giustamente osservarono che Iddio gli aveva mandato il conforto accanto alla disgrazia, togliendogli la coscienza del suo dolore. In verità, quando siffatte sciagure vengono a rapirvi la vostra felicità, e vi levano ogni pregio alla vita, non è meglio impazzire, che avere dì e notte davanti agli occhi l'immagine spaventosa della vostra miseria? Morire, sì, sarebbe il meglio: ma non è sempre dato questo conforto agli infelici. La vita, che in tante occasioni è sospesa ad un filo, in altre è molto più salda e sembra quasi che lo stesso dolore aiuti a serbarvi questo inutile dono. Ed anche dopo essere stato colpito dalla folgore, che l'ha incenerito a mezzo, il tronco della quercia rimane qualche volta in piedi, nutrendo per un rimasuglio di corteccia i pochi rami superstiti.

Così visse Jacopo di Casentino, ignorando di vivere. Ma, due mesi dopo la perdita della sua Fiordalisa, anch'egli trovò la via dell'eterno riposo. Non aveva potuto serbare in vita la figlia morì, credendo di ricondurla egli stesso a sua madre.

Non compiangete mastro Jacopo. Assai più di chi muore è da compiangere chi vive, condannato ad una esistenza in cui gli sia venuta meno ogni gioia.

Le ossa del vecchio pittore ebbero tomba onorata in Sant'Agnolo, badia dell'ordine dei Camaldoli, fuori di Prato Vecchio, nelle cui vicinanze i parenti avevano condotto il povero pazzo, sperando che le aure natali del Casentino potessero ridare un po' di calma al suo spirito. Ma anche quell'ultima speranza fu vana.

La morte del vecchio scolaro di Taddeo Gaddi risaputa in Arezzo, non fece altro che rinfrescare il dolore di un'altra morte, a cui essa era collegata, come l'effetto alla causa. Si pensava sempre a madonna Fiordalisa e si rimpiangeva la sua fine miseranda; si rammentava la sua maravigliosa bellezza, raggio di sole così presto invidiato alla terra, e nessuno sapeva acconciarsi all'idea di averne perduto per sempre il divino sorriso.

Mi chiederete come avesse accolto il triste annunzio messer Lapo Buontalenti. Il ricco e potente uomo, qualche giorno prima che madonna Fiordalisa morisse, si era allontanato da Arezzo. Che egli amasse la figlia del pittore e l'avesse chiesta in moglie, si sapeva da molti, e si sapeva altresì che mastro Jacopo gli aveva dato un rifiuto. Era naturale che messer Lapo se ne fosse adontato; non essendo piacevole a nessuno di sentirsi dire un no, anche colorito da oneste ragioni. Perciò s'intendeva facilmente come il Buontalenti non avesse voluto rimanere in Arezzo, testimone delle nozze di Fiordalisa con Spinello Spinelli, e non parve strano che egli si fosse ritirato a vivere per qualche tempo in una sua terra sulla montagna pistoiese. Messer Lapo aveva dunque portato il suo rammarico molto lontano da casa, e non c'era modo di sapere se, udendo della morte di madonna Fiordalisa, egli ce ne avesse aggiunto un altro più grande, o se invece non ne dovesse avere la consolazione dei dannati. La quale, come sapete, consiste nel rendere meno grave il proprio dolore, pensando che altri l'ha eguale o maggiore.

Anche Spinello, dopo quella grande rovina della sua felicità, si era allontanato da Arezzo. Se ci fosse vissuto più a lungo, sicuramente sarebbe morto di crepacuore, non essendo maggior esca al dolore che il vivere nei luoghi in cui si è patito il danno e in cui ne è sempre vivo il ricordo. Unico degli scolari di mastro Jacopo rimase nella nota bottega il mite e timido ingegno di Parri della Quercia. Vedete stranezza di casi! Un dipintore di tavole a tempera, che non si era mai arrischiato a lavorare in muro, ereditava il luogo e la tradizione d'un artista come Jacopo di Casentino, che aveva sempre dipinto a fresco, senza lasciar pennelleggiata una tavola. Infatti, la memoria di mastro Jacopo doveva essere ricordata da questo epitaffio in versi latini, della cui prosodia non posso starvi mallevadore:

 
Fingere me docuit Gaddus; componere plura
Apte pingendo corpora doctus eram.
Prompta manus fuit; et pictum est in pariete tantum
A me; servat opus nulla tabella meum.
 

Tuccio di Credi, anima caritatevole, si fece compagno volenteroso ed assiduo al povero Spinello, e questi si lasciò condurre da lui a Firenze. Messer Luca aveva consigliato egli stesso il viaggio, sperando che ne potesse ritrarre qualche giovamento lo spirito conturbato di suo figlio, e immaginate come dovesse esser grato a Tuccio di Credi, che si profferiva custode e guidatore del suo disgraziato figliuolo.

Spinello non aveva più ombra di volontà. Lasciava che Tuccio di Credi provvedesse lui ad ogni cosa. Era come il naufrago che ha tutto perduto, fortune e speranze, e che, dalla riva deserta su cui l'hanno sbalestrato i marosi, guarda con occhi smarriti, senza sdegno e senza paura, il torbido elemento che ha portato i suoi danni. Spinello seguiva alla muta il suo compagno, accettandone i servigi ed ascoltandone i conforti, ma senza avere un'idea chiara di ciò che quell'altro facesse o dicesse. Per fortuna, Tuccio di Credi non era uomo di lunghi discorsi, nè di molte delicatezze, e non c'era pericolo che per quel verso potesse mai diventare importuno. Alla tacita obbedienza di Spinello non poteva convenire che l'amichevole ruvidezza di Tuccio.

Questi badava alle noie della vita comune; l'altro seguiva il corso vagabondo de' suoi tristi pensieri, che lo riconducevano ad ogni istante nel chiostro del Duomo Vecchio di Arezzo, dove egli aveva pregato sulla tomba di Fiordalisa. L'immagine della donna adorata rompeva qualche volta il suggello del sepolcro e veniva a intrattenersi con lui. Ah, se egli avesse mai potuto ritrarla, quale essa gli stava sempre negli occhi!

A Firenze i due amici erano andati ad alloggiare in una povera casa, nella via della Scala. Escivano insieme ogni giorno, passeggiando lentamente fino alla piazza di Santa Maria Novella, dove Spinello andava a sedersi su d'un muricciuolo, e vi restava a lungo, senza parola, guardando il sole che tramontava. Quando era una cert'ora, Tuccio di Credi si avvicinava all'amico e gli diceva: andiamo! Spinello si alzava e lo seguiva senza far motto, come un fanciullino segue la madre. Tornati al loro alloggio, la vecchia padrona di casa dava loro il lume acceso e la buona notte. Era una vita monotona. Ma ai grandi dolori queste vite convengono.

Ora avvenne che, passando ogni giorno per la via della Scala e davanti alla chiesa di San Nicolò, nuova fabbrica edificata allora allora per voto di messer Dardano Acciaiuoli, l'accoramento di Spinello Spinelli desse nell'occhio ad un cavaliere, che per sue ragioni doveva trovarsi spesso colà.

Tra i due taciturni viandanti e il cavaliere sconosciuto s'era stabilita quella mezza dimestichezza di veduta, che occorre in simili casi. Ad ognuno di voi sarà certamente capitato di fare quotidianamente una via e di avvezzarvi così a certi sembianti di persone ignote, da farvi parere quasi una trista giornata, quella in cui non vi è dato di abbattervi nelle persone medesime, e in quegli aspetti, ai quali, come suol dirsi, avevate fatto l'occhio.

Il vecchio gentiluomo (perchè infatti lo sconosciuto non era più di primo pelo) aveva notato l'aria malinconica di Spinello, e veduto in lui un uomo che portava nell'anima il peso di una grande sventura. Un sentimento di pietosa curiosità lo persuase a seguire i due taciturni, e per tre volte alla fila vide Spinello andarsi a posare su d'un muricciuolo in piazza di Santa Maria Novella dove restava lungamente assorto nelle sue meditazioni, mentre l'amico andava alle sue faccende per ritornarne più tardi a riprenderlo. Chi erano quei taciturni? E quale era la cagione della tristezza profonda che si leggeva sul volto del più giovane dei due? Il vecchio gentiluomo volle saperlo; e perciò lasciato che Spinello andasse per la terza volta a sedersi in piazza di Santa Maria, corse dietro al compagno.

–Scusate,—gli disse fermandolo,—forse vi faccio una domanda indiscreta; ma il sentimento che mi consiglia è d'uomo che vorrebbe giovare a' suoi simili.

–Messere,—rispose Tuccio di Credi, inchinandosi.—Il vostro aspetto e di uomo ragguardevole. Vogliate dirmi in che cosa io possa compiacervi.

–Vedo ogni giorno con voi un giovinotto dall'aspetto assai triste;—ripigliò il vecchio gentiluomo.—Egli ha certamente avuto a patire una grave disgrazia.

–Maisì, messere, una disgrazia irreparabile;—replicò Tuccio di Credi.—Gli è morta una donna a cui era fidanzato.

–Ah, dovevo immaginarmelo!—esclamò il cavaliere.—E il suo nome?

–Spinello Spinelli, aretino; ma i suoi maggiori erano di Firenze. La sua fidanzata, poi, era figliuola a mastro Jacopo di Casentino.

–Il pittore?

–Sì, messere, morto anche lui due mesi dopo la sua figliuola.

–Triste cosa!—mormorò il vecchio gentiluomo.—E il vostro amico che fa?

–Nulla, per ora, tanto è rimasto percosso da quella grande sciagura. Ma egli è pittore.

–Come voi, probabilmente.

–Sì, messere; ma io valgo assai meno;—rispose Tuccio di Credi con aria modesta.—Egli s'è già mostrato un valoroso frescante, e un suo dipinto si ammira nel Duomo vecchio d'Arezzo, ove gl'intendenti dicono che non isfiguri al confronto di quelli del suo vecchio maestro.

–Mi sembra d'averne udito parlare:—notò il vecchio gentiluomo.—E voi mi dite che adesso non fa nulla?

–Nulla affatto, messere. La sua afflizione è tale che gli toglie perfino il pensiero delle necessità della vita. Suo padre l'ha affidato alle mie cure; e se non ci fossi io, egli certamente si lascerebbe morir di fame.

–Povero ragazzo!—esclamò il vecchio gentiluomo, crollando malinconicamente il capo.—Vorrei essergli utile…. Egli stesso potrebbe esserlo a me. Vi piacerebbe dirglielo? Anzi, meglio, di condurlo da me?

–Volentieri; ma dove?

–Laggiù, in via della Scala, nella chiesa di San Nicolò. È chiusa, finora; ma potrete passare dall'uscio della sagrestia. Domani stesso, all'ora in cui usate andare a diporto, io sarò ad aspettarvi,

–Ci verremo, messere;—rispose Tuccio di Credi.—Ma, di chi dobbiamo noi domandare?

–Di Dardano Acciaiuoli: è questo il mio nome.—

Tuccio fece un atto di meraviglia, seguito da un inchino profondo. La casa degli Acciaiuoli era una tra le più chiare di Firenze.

Il giorno seguente, scambio di accompagnare l'amico fino in piazza di Santa Maria Novella, Tuccio di Credi si fermò davanti alla chiesa di San Nicolò.

–Entriamo?—diss'egli.

–Per che fare?—domandò Spinello.

–Per vedere. È una chiesa nuova, e forse ci saranno degli affreschi da osservare.—

Così dicendo, senza aspettare la risposta del compagno, Tuccio di Credi si avviò verso l'uscio della sagrestia. Spinello tenne dietro all'amico.

La chiesa era vuota e bianca tuttavia dell'ultima mano di calce. Ma giù, nella navata di mezzo, stava un vecchio cavaliere, in atto di guardare la volta. Spinello pensò che egli fosse l'architetto, oppure uno dei massari della nuova chiesa.

Il vecchio cavaliere si avvicinò bel bello ai due giovani, e rivolgendo il discorso a Tuccio di Credi, gli disse:

–Forse vi occorre qualche cosa, messeri?

–No;—rispose Tuccio di Credi, ammiccandogli;—eravamo entrati per osservar le pitture; ma non ne vediamo traccia.

–Da pochi giorni s'è finito di fabbricare: rispose cortesemente il vecchio.—Gli affreschi verranno, quando avremo trovati i dipintori. Siete dell'arte, voi?

–Maisì, messere; io di poco valore, il mio compagno di molto.

–E il vostro nome, se è lecito saperlo? Io mi chiamo Dardano Acciaiuoli.—

Spinello fece una mezza riverenza, per obbligo di cortesia. Intanto il compagno rispondeva per ambedue alla domanda del gentiluomo.

–Io mi chiamo Tuccio di Credi: il mio compagno è Spinello Spinelli. Tutt'e due della scuola di mastro Jacopo di Casentino.

–Ah!—disse messer Dardano.—Il vostro amico è l'autore d'un San Donato, nel Duomo Vecchio d'Arezzo?—

A quel ricordo, Spinello Spinelli trasse un profondo sospiro dal profondo del petto. E frattanto s'inchinò leggermente, per ringraziare messer Dardano Acciaiuoli del suo accenno cortese.

–Mi congratulo con voi;—proseguì messer Dardano, volgendosi allora a Spinello.—Così giovane e già tanto valoroso dipintore! Ma perdonate, se io penso a me, intrattenendomi con voi. È l'occasione che passa, ed io l'afferro pei capegli. Messer Spinello, volete dipingere per me? Queste mura vi aspettano.—

Spinello Spinelli non si aspettava una simile conclusione, e ne rimase sconcertato.

–Messere,—diss'egli,—in verità…Io debbo esservi grato della stima che fate di me. Ma come volete che io riprenda il lavoro? La mia anima è triste.

–Orbene, che importa? Io non vi dico già d'esser lieto. I grandi dolori non vogliono consolazione, ed io rispetto il vostro. Ma badate, il lavoro è il più possente dei farmachi. Piangete una persona cara? Il vostro lavoro sarà come una preghiera per lei.

–Vorrei morire; la vita mi pesa;—mormorò Spinello.

–Oh, non parlate così, messere. Alla vostra età si hanno ancora degli obblighi col mondo. Ad ogni età, se n'hanno sempre con Dio. Possiamo desiderare di giungere a lui per la strada più breve; a lui sta d'esaudirci, se lo avremo meritato, con una vita scevra di viltà. Accettate la mia proposta, messer Spinello. Voi non lavorerete soltanto per me, lavorando nella casa di Dio.—

Come resistere ad un invito così amorevole? La stessa miscèa che l'Acciaiuoli faceva del lavoro e della preghiera, doveva piacere ad un'anima afflitta come quella di Spinello Spinelli. E il giovane pittore non uscì quel giorno dalla chiesa, senza avere accettata la proposta.

Dardano Acciaiuoli aveva fatto fabbricare quel tempio, per darvi sepoltura ad un suo fratello vescovo. Perciò l'intitolazione a San Nicolò, che in suo vivente era stato vescovo di Bari. E la dedicazione della chiesa, come potete immaginarvi, dava il tema obbligato al pittore, che ideò per l'appunto e compose parecchie storie ricavate dalla vita del Santo.

Una settimana dopo il dialogo che io v'ho riferito brevemente, si rizzavano i ponti e Spinello si metteva al lavoro, aiutato da Tuccio di Credi, il quale macinò e mesticò i colori del suo compagno d'arte, diventato suo principale, assai meglio che non avesse fatto in Arezzo.

Nè messer Dardano Acciaiuoli ebbe a pentirsi della commissione data a Spinello Aretino. Egli dovette anzi lodarsi grandemente della buona idea che lo aveva condotto a seguitare per istrada quel giovine taciturno, e vederci quasi una ispirazione del cielo. In quei tempi di fede viva, la cosa poteva benissimo intendersi per quel verso, e il ragionamento non faceva neppure una grinza.

Spinello si portò tanto bene in quell'opera, così nel colorirla come nel disegnarla, che presto non si parlò più d'altro in Firenze, e tutti gli amici e conoscenti di messer Dardano vollero vedere gli affreschi del giovine aretino, anche prima che fosse levata l'impalcatura. Tirato dalla fama di Spinello, e veduta la bontà delle figure che egli dipingeva, un altro ragguardevole cittadino di Firenze, messer Barone Capelli, volle che il giovane protetto dell'Acciaiuoli dipingesse nella cappella principale di Santa Maria Maggiore molte storie della Madonna, a fresco, ed alcune di sant'Antonio abate, indi la cerimonia stessa della consecrazione della chiesa, che era stata fatta da papa Pelagio. In questo quadro, che ebbe molte lodi dagl'indipendenti, Spinello ritrasse lo stesso messer Barone Capelli, al naturale, in abito di quei tempi, molto ben fatto, e somigliante che nulla più. I ritratti gli riescivano sempre mirabilmente, quasi ad accrescergli il rammarico di non aver potuto cogliere la somiglianza di madonna Fiordalisa!

Finita la cappella principale di Santa Maria Maggiore, lavorò Spinello nella chiesa del Carmine, dipingendo nella cappella dei santi apostoli Giacomo e Giovanni alcune storie del Vangelo; tra l'altre quella della moglie di Zebedeo, madre all'apostolo Giacomo, quando ella domanda a Cristo che faccia sedere uno dei suoi figliuoli alla destra del padre nei regno dei cieli, e l'altro a sinistra. Ai massari della chiesa parve questo un meraviglioso lavoro; e tosto ne vollero un altro, commettendo a Spinello di dipingere un'altra cappella, accanto alla maggiore. Quivi Spinello fece prova d'ingegno singolare, poichè, volendo esprimere l'Assunzione di Maria, e la storia dovendo riescire più grande della vòlta, egli la rigirò per modo, tra la parete e la vòlta medesima, che ai riguardanti parve tutta una cosa, condotta in soavissima curva, senza interruzione d'angoli o di sottosquadri.

Come vedete, le commissioni fioccavano. E non erano solamente queste che io v'ho accennate. In una cappella di Santa Trinita, Spinello fece una Nunziata in fresco, molto bella secondo l'opinione di tutti; indi nella chiesa di Sant'Apostolo una tavola a tempera, ov'era raffigurato lo Spirito Santo quando discende sopra gli Apostoli in lingue di fuoco. Tralascio i dipinti in Santa Lucia de' Bardi e in Santa Croce, per non venirvi a noia, e perchè il racconto non si tramuti in catalogo.