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Loe raamatut: «La plebe, parte IV», lehekülg 47

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CAPITOLO XXXII

Il medichino s'era trovato a fronte all'ipocrisia gesuitica, colla fede sincera ma cieca e condannante la ragione; ora si trovava innanzi una credenza che si appoggiava del pari sopra le aspirazioni più nobili dell'anima umana e sopra le deduzioni del ragionamento, sostenuta dai misteriosi impulsi della natura e dalle verità scoperte dalla scienza moderna. Il grande intelletto di Maurilio, tutto questo aveva raccolto in una sintesi potente, e creatone l'edificio monumentale d'una grandiosa percezione dell'universo. Mai l'ingegno del figliuolo della plebe non era stato così eccitato nella forza della sua comprensione: mai la parola non aveva nel suo linguaggio così giusto e così vivamente tradotto il suo pensiero. Senza indugio, senza preamboli egli aveva affrontato il ponderoso argomento.

– Tu, non è guari, disse al condannato, sei venuto da me, per iniziarmi a certi tuoi concetti affine di conquistare insieme questo povero mondo terreno: io vengo da te in questi supremi istanti, per farti brillare quella luce dell'intelletto onde tu puoi conquistare il mondo dell'idea, del vero e dell'eterno.

Svolse senz'altro quelle sue teorie di cosmogonia del mondo invisibile, compagno ed anima del mondo materiale, quell'indefinito e forse infinito progresso dalla materia alla sensazione, dalla sensazione alla intelligenza, dall'intelligenza al sapere che forse non si arriverà mai, quel grandioso quadro dell'universo in cui la vita umana non è centro, non è principale, non è prova unica, nè definitiva, nè ultima, sibbene un lieve e fugace episodio, un passo, un grado, una fase di svolgimento, come il globo che ci sostiene è nel mondo astronomico non altro che un granello della sabbia infinita de' mondi seminati traverso lo spazio senza limite; svolse tutte quelle idee, insomma, che lo udimmo già adombrare nella prigione del Palazzo Madama al suo amico e compagno, Giovanni Selva, e che qui non si ripetono per evitare accrescimento di fastidio ai buoni lettori. Era tanto felice che poteva dirsi ispirato; le sue idee e il modo ond'erano espresse si presentavano di tal guisa da afferrare l'attenzione di qualunque, da vincergli la mente e scuotergli l'animo. La sua era in quel momento una vera eloquenza, dal cui fascino ogni intelligente doveva restar preso; parlava nello stesso tempo al cervello ed al cuore, trascinava la parte effettiva e convinceva la ragione dell'uomo. Le sue stesse sembianze, la sublime dignità che alla sua faccia volgare dava l'impronta della morte, cui già vi aveva impresso il morbo, quasi una preoccupazione del mondo superiore a cui era chiamato, il fulgore dell'anima traverso gli occhi, la voce cavernosa e pur vibrante con inesplicabile efficacia, tutto concorreva a dare alla sua intraducibile eloquenza una quasi irresistibil forza. Il sentimento della superiorità di quello spirito sopra il suo, sentimento che Gian-Luigi aveva pur sempre avuto in fondo all'animo, senza confessarlo a se stesso si spiccò più netto e più potente nel condannato e represse quella empia ironia onde aveva egli accolte le precedenti esortazioni religiose. In fra' Bonaventura era a parlargli l'interesse di dominazione umana che s'ammanta di religione e non fa capo che ad una superstizione che si vuole imposta allo spirito dell'uomo come freno e impedimento; in Don Venanzio era una sublime ignoranza affermativa alla quale ei credeva sovrastare per intelletto e per dignità l'audace negazione del suo orgoglio; ma qui era il genio con tutto l'ardore del suo intimo fuoco, con tutta l'azione e il prestigio della sua potenza, con tutto il peso e l'efficacia d'una vera scienza acquistata mercè lo studio e la meditazione. Gian-Luigi rimase sovraccolto, fu come sbalordito; gli parve che qualche cosa più che una ragione umana gli parlasse; ebbe primamente sentore d'una intelligenza superiore a quella onde si vantaggia l'uomo in questa vita. Quando Maurilio si tacque affranto dallo sforzo fatto pel lungo parlare, tornato nella sua primiera debolezza, anzi accresciutasi, accasciato come se la forza interiore che lo aveva sostenuto sino allora si fosse esaurita, o da lui dipartitasi, Gian-Luigi stette un istante immoto, in silenzio, gli occhi volti alla terra, pallido, le ciglia aggrottate, le guancie contratte dalla forza con cui l'intentività della sua meditazione gli faceva serrar le mascelle.

– Ebbene? diss'egli poi levando con moto brusco il capo, stringendo forte al petto le sue braccia incrociate, e saettando sul suo compagno d'infanzia uno sguardo in cui c'era un raggio quale forse non vi era mai brillalo per l'innanzi: che cosa conchiuderne a mio riguardo? che devo fare? che deve esser di me?

Maurilio così rispose:

– L'esistenza del nostro spirito immortale è un avvicendamento di vita organica quando unito colla densa materia, e di condizione immateriale, quando traverso la morte del corpo passa ad uno stadio di essere appena forse se cinto di fluidi imponderabili. Ogni vita organica ha da essere un travaglio in cui lo spirto si affina, ogni morte un salire nella scala del progresso indefinito. Chi manca alla sua missione, chi tradisce il suo debito rifarà forse e con più travagli il cammino. Nel periodo di esistenza oltre umana a cui stai presso, tu avrai da far provvista di forza morale per ricominciare forse con ancora più difficili condizioni la prova. Questa forza alla tua intelligenza già avanzata nel suo svolgimento te l'ha da concedere la luce della scienza dell'infinito a cui durante questo stadio che stai per finire, hai chiuso ostinatamente gli occhi. Sarà quello un lavorìo di perfezionamento a cui dovrai la capacità di riconoscere ed amare la virtù nella vita terrena avvenire; quel lavorìo cominciato fin d'ora sul limite di questa esistenza, e ne avrai tanto di guadagno nell'anima tua. Riconosci la legge suprema dell'universo; confessa l'intelligenza ultima verso cui camminano vacillando ed inciampando le deboli nostre; e credi in Dio.

Che fu? Qual raggio di fiamma divina come saetta penetrò nell'intimo di quel petto, squarciandolo? Il condannato era seduto, immobil sempre; a quelle ultime parole si riscosse come crollato da una mano potente, una ondata di rossore gli corse alle guancie ed un calore inesplicabile, subitaneo, invadendolo tutto, gli fece spuntare a goccioline sulla fronte il sudore; mandò un grido che pareva di dolore come uomo trafitto; sorse in piedi come per rispondere ad un subito appello a cui non si resiste.

– Dio! Dio! esclamò egli, cacciandosi le mani entro i capelli come un pazzo. L'infinito, l'assoluto, il vero, la realtà! Mistero, mistero che ho odiato, perchè non ti ho potuto stringere coll'audacia del mio pensiero, possedere coll'ansia desiosa dell'anima mia!.. Parlami nella mia debolezza, parlami nella mia impotenza, parlami nella morte… Rivelami questa sostanza che non so capire nelle manifestazioni delle sue parvenze. Se il velo della carne mi offusca l'intelletto, mi fa ostacolo ai raggi del vero, sono lieto che tu me lo strappi. – Voglio contemplar la luce, dovessi consumare a quella fiamma il mio spirito, e distrurlo… Dio! Dio! ti sento, e vo' comprenderti.

Ricadde come spossato. Maurilio rispettò col silenzio la stanchezza di quella crisi. Dopo un poco Gian-Luigi tese una mano al suo compagno d'infanzia, e disse modestamente:

– Credo alle tue parole, e ti ringrazio.

Stettero un pezzo seduti vicino, tenendosi per mano, discorrendo sotto voce soavemente. Quando la notte era già di molto inoltrata, Maurilio s'alzò per recarsi presso suo padre.

Gian-Luigi lo abbracciò strettamente.

– Non ci rivedremo dunque più: diss'egli con una emozione contenuta, ma quale non aveva forse avuta ancora per l'addietro: forse mai più!

– Con questo corpo, rispose Maurilio, sotto questa forma, di certo no… La forma?.. Chi può immaginare quella che vestiremo nelle esistenze avvenire; qual sia quella che corrisponde allo spirito nostro? Ma quanto a trovarci ancora nel mondo illimitato degli spiriti e nella infinitezza del tempo, ciò avverrà, lo spero, ne sono anzi sicuro, e forse fra non molto. (Sorrise mestamente, soggiungendo:) Picchio ancor io alla porta del sepolcro, e tu mi precederai di poco nel regno dei morti. Sta pur certo, che vi ci riconosceremo, e forse ci riconosceremo avvinti l'uno all'altro dalle memorie di chi sa quali vite anteriori in questo od in altri mondi; memorie che si ridesteranno al nostro spirito ora offuscato, al cadergli intorno della carne che gli fa velo.

– Tal sia di noi! esclamò Gian-Luigi, abbracciando un'altra volta Maurilio. Perchè mi sono io disgiunto da te nella vita? Le tue parole mi avrebbero salvo. In questi momenti che l'approssimarsi della morte fa solenni, vedo con più chiaro sguardo in me stesso; una gran qualità è mancata al complesso delle mie forze: quella dell'amore. Sento ora tutta la pochezza e l'impotenza dell'egoismo… Sì; nel mio intimo c'è una energia che non si può consumare colla morte di questo corpo; bisogna che ci sieno altre vite in cui impiegarla e svolgerla, farla servire a qualche cosa, in cui riparare agli errori della presente. Avrò in esse la facoltà che qui mi è mancata; lo voglio, ed alla possa dell'intelletto, congiungerò l'intelletto d'amore. Ora vanne; addio! Ed a rivederci nell'eternità!

Si separarono con occhi asciutti e con un sorriso pieno di speranza sul labbro; Maurilio entrò nella cella in cui russava ancora Stracciaferro.

L'alba fatale non era lontana che di poche ore; ed un sacerdote che era accorso a confortare il condannato, volendo approfittare di quel po' di tempo che ancora rimaneva, svegliava il misero su cui così imminente incombeva la vendetta sociale. Stracciaferro girava intorno stupidamente il suo sguardo avvinazzato, e per prima cosa diceva:

– Da bere… Quell'acquarzente era buonissima… To' la caraffa è finita… La era troppo piccolina… Me se ne porti un'altra.

Il sacerdote incominciava le sue esortazioni religiose; ma l'assassino, guardatolo alquanto di quella guisa con cui un lupo preso in trappola deve guardare il cacciatore che lo viene a spacciare, lo interruppe con mal piglio.

– Che storia la mi viene a contare Lei? La sappia che a me non piace quella musica, e che non intendo di quell'orecchia… Invece di tante fanfaluche, se la è un brav'uomo, mi faccia dar da bere… Non mi occorre altro.

Avendo quell'altro voluto insistere, il condannato entrava in una specie di furor bestiale.

– Da bere, da bere: gridava egli strepitando. Voglio dell'acquavita… Me se ne dia… Ci ho diritto… La voglio, dico.

E con un'orrenda bestemmia, poichè aveva afferrata la caraffa, che già era vuota, la scaraventò con tanto impeto sul pavimento, a dispetto della camicia di forza onde aveva impacciati i movimenti, che la mandò in mille frantumi. Il prete si allontanò da lui spaventato: i due fratelli della misericordia si accostarono per tentar di capacitare quel forsennato; ma egli strepitava sempre più forte. Ad un punto il prete, che s'era avvicinato e stava recitando esorcismi in presenza del parosismo di quel miserabile, sentì un respiro affannoso dietro le sue spalle ed una voce, che gli disse:

– Mi lascino solo con quest'uomo, li prego… Me gli è Dio che mi manda in questo momento presso di lui.

L'aspetto di Maurilio aveva tale imponenza d'autorità che tutti si ritrassero senza domandargliene altra spiegazione. Egli si avvicinò al condannato che urlava tuttavia, gridando colla schiuma alla bocca:

– Da bere! da bere!

Gli pose tutte due le mani sulle spalle e si chinò verso di lui, facendogli piombare addosso uno sguardo da domatore.

– Tacete ed ascoltatemi: gli disse con un accento di comando insieme e di esortazione.

Stracciaferro lo guardò un istante, stupito, quasi non comprendendo tanta audacia, nè sapendo immaginarsi ciò che quello sconosciuto gli volesse; poi una fiamma selvaggia si accese in que' suoi occhi intorbidati, ed egli parve raccoglier le forze per iscuotere da sè quell'importuno, come fa il toro de' cani da presa che gli si attaccano alle tozze membra coi denti nelle così dette corse in Ispagna. Ma prima che avesse tempo a compir l'atto, il giovane si era chinato vieppiù verso la faccia bestiale e gli aveva detto con forza:

– Michele Luponi: io son vostro figlio.

La fiamma si spense nelle pupille del condannato, che diventarono attonite. Stette un poco immobile, evidentemente senza aver compreso il senso delle parole, ma pur tuttavia colpitone, forse dall'accento con cui erano state pronunciate.

– Sono vostro figlio: ripetè il giovane: e vengo a voi guidato dallo spirito di mia madre.

Il miserabile crollò le spalle ed ebbe una ferina occhiata che annunziava prossimo uno scoppio d'ira.

– Figlio! disse. Che figlio d'Egitto?.. Io non ho figli… Non mi rompere le tasche… Voglio da bere.

– Ricordatevi una notte tremenda a Milano… la notte dei morti… Sono ventiquattro anni… Una povera madre vegliava sulla culla del suo bambino… Due uomini entrarono e fecero a strapparle il nato delle sue viscere… Ella volle difenderlo, e s'afferrò colla forza disperata d'una madre che non ha soccorso ad uno dei rapitori: e quell'uomo per liberarsene le piantò un coltello nel seno.

Gli occhi di Stracciaferro sbarrati avevano presa l'espressione del più alto spavento.

– Che sapete voi?.. Che volete voi?.. gridava egli: e pareva che l'ebbrezza, sotto l'azione del commovimento destato da quel ricordo, sparisse dal suo ottuso cervello.

– Quell'omicida eravate voi, e il bambino era vostro figlio.

– No, no, non è vero: urlò il condannato cui le chiome arruffate si drizzarono in capo. Chi ha parlato mai di ciò? Nel processo non se n'è trattato… Nessuno lo sa, nessuno l'ha da sapere. È forse Graffigna che mi ha tradito?.. Io lo ammazzerò come egli ha ammazzato Macobaro… Sono già condannato a morte: che cosa mi si vuole di più?.. Lasciatemi stare; lasciatemi stare; ch'io passi almeno in pace questi pochi momenti che mi rimangono. Datemi da bere, che il diavolo vi porti!..

Le nebbie dell'ebrietà tornavano ad invadere quella già mezzo estinta intelligenza; egli era ricaduto nel suo imbestiamento peggio di prima.

– Da bere! da bere! ripeteva coll'accento, collo sguardo, colla mossa d'uno scemo.

Maurilio lo scosse con una emozione che pareva di rabbia.

– Ma quel bambino che avete rubato, cui la povera madre ha difeso inutilmente a prezzo del suo sangue, quel bambino che avete venduto ed era vostro figlio – quel bambino sono io. – Io sono vostro figlio e vengo in queste vostre ore d'agonia a recarvi il mio perdono, il perdono di mia madre.

E il miserabile ormai dissensato del tutto:

– Figlio: balbettava con lingua grossa: non ho figli, io… Non mi si venga a seccare… Vo' da bere… In confortatorio ci si deve dar tutto quello che domandiamo… Io domando dell'acquavita… Od almeno mi si lasci dormire… Ho un sonno che non posso tener gli occhi aperti… Ho una sete che mi divora la gola… Ah! se non avessi le braccia in queste maniche d'inferno, vorrei ben io mettervi alla ragione tutti.

– Io non v'abbandonerò, padre mio: disse con mestizia, ma con risoluzione Maurilio: è mia madre che mi ha mandato presso di voi; lo sento, lo so; non vi abbandonerò più fino all'ultimo fatale momento… Questo momento si appressa: e come ci siete voi preparato?.. Dite, dite: non vi ricordate voi che qualcuno vi parlasse un giorno della vita futura, e di Dio?.. Di certo nella vostra infanzia ve ne ha parlato vostra madre, perchè voi non foste tolto all'amor suo… Oh richiamatevi alla memoria quegli anni. La madre vi ha fatto inginocchiare, stringer le mani e pronunziar parole che avevano una misteriosa virtù di confortarvi… Ricordatevi! Ricordatevi!.. Quel qualche cosa che allora si rasserenava, si calmava, si consolava in voi, non era questo corpo che il cibo satolla ed il liquore assonna; quegli intimi, ineffabili diletti toccavano ben altra parte di voi che quella cui solletica il vizio… V'è alcun che in voi diverso da quelle membra dallo stravizzo intorpidite: questo che fu assopito in voi dalla sciagurata vita materiale, ma non è estinto, perchè non può estinguersi, perchè è immortale. Cercatelo in voi con uno sforzo di volontà e ce lo troverete, e potrete ridestarlo. È immortale, vi dico, è quello che chiamiamo l'anima; e che la distruzione del corpo non distrugge. Voi dovete morire… perchè lo sapete bene che dovete morire, non è vero?.. non dimenticatelo… Dovete morire tra poco: ma dovete morire voi, uomo qual siete adesso, voi Michele Luponi, voi Stracciaferro; ma quella parte intima di voi non morrà… quella parte che si commoveva alle dolci parole materne, alle preghiere infantili… quella parte vivrà ancora, vivrà sempre, vivrà secondo la sorte di cui si è fatta degna.

Parlò a lungo in cosiffatta maniera; parlò della virtù del pentimento; parlò del riscatto possibile di ogni colpa coll'espiazione e colla volontà; cercò tutte le fibre del cuore umano per farne vibrar una in quello del condannato; si commosse fino alle lagrime, fino a quel trasporto onde pare che un'anima effonda il più intimo di sè nell'anima d'un altro; aspettò con quell'intensità di desiderio che è tanta da farci credere impossibile venga delusa, che un cenno, un cenno solo si manifestasse del ridestarsi dello spirito in quella massa di carne caduta al di sotto dell'umanità.

Stracciaferro aveva appoggiato un braccio all'inginocchiatoio presso cui stava seduto e sul braccio aveva reclinata la testa; poteva la sua mossa esser creduta quella d'un uomo cui le cose udite fanno profondamente meditare. Maurilio si chinò palpitante su di lui. Il miserabile, al suono delle parole di suo figlio, cui non aveva riconosciuto, cui non avrebbe riconosciuto, s'era riaddormentato. Anche questo massimo dolore era riserbato a Maurilio: percuotere su quel masso e non poterne sprigionare pur una scintilla della divina fiaccola; cercare in quella corrotta macerie d'uomo l'anima e non trovarla; e quello era suo padre! Provò uno spasimo così acuto che minore certo giudicò dover essere quello della morte; strinse le mani con atto convulso, torcendosi le dita da rompersele, e levò verso il cielo gli occhi ardenti di febbre con uno sguardo disperato che pareva un'accusa.

– Madre mia! Madre mia! Esclamò egli come un'invocazione, come un rimprovero, come uno sfogo.

– Da bere! ripetè l'ebbro, facendo un movimento per cui ebbe a destarsi.

Maurilio voleva parlare ancora; ma erano tornati nella cella e stavano sulla soglia i fratelli della misericordia, il sacerdote ed un uomo dalla faccia pallida e mesta che teneva in mano una corda a nodo scorsoio.

Maurilio sentì agghiacciarsi il sangue. Il condannato vide que' nuovi personaggi e si riscosse; fermò la sua attenzione su quell'uomo pallido, dalla faccia mesta, che teneva la corda in mano, e conobbe chi fosse ed a quale scopo venuto, perchè lo saettò di uno sguardo che pareva quello d'un infelice che tutto è invaso dal veleno della rabbia canina, e si drizzò di scatto, come per fuggire, o per opporre resistenza al fero atto che veniva a compiere presso di lui quel ministro della umana giustizia.

Il primo di quegli uomini che giungesse accosto al condannato fu il sacerdote.

– Coraggio! gli disse. Il momento fatale si appressa. Nulla più di bene o d'aiuto avete da sperare nella terra: rivolgetevi a Quel di lassù che accoglie ogni sincero pentimento, che perdona a qualunque peccatore a Lui di cuore si raccomandi.

Stracciaferro guardò il prete che gli parlava, mandò un grugnito soffocato, e dall'espressione di ferocia la sua faccia e il suo sguardo passarono a quella d'una stupidità bestiale che non capisce. Il fugace baleno d'intelligenza, che era corso nella sua mente ottusa, erasi già dileguato, ed egli ricaduto nella tenebra. L'uomo dalla corda gli si era accostato e dicevagli con voce sommessa e priva affatto d'ogni sonorità:

– Perdonatemi, fratello mio, se io vengo a compiere questo doloroso uffizio presso di voi; ma il mio dovere me lo comanda.

Ed alzò le mani e le braccia per fargli passare dal capo intorno al collo il laccio fatale.

Maurilio a quella vista mandò un gemito e fece un passo innanzi, senza sapere pur egli che si volesse fare.

– Lasciateci: gli disse il sacerdote arrestandolo: ora non tocca più che a me lo star presso a quell'infelice a compire il debito del mio ministero.

Maurilio si nascose la faccia tra le palme delle mani, e fu preso da un tremito universale. Il condannato aveva tentato levar le mani per allontanare da sè la corda che gli si alzava sul capo; ma la camicia di forza gli aveva impedito tal mossa; allora, come affranto di colpo, s'era lasciato ricader seduto colà dove stava dapprima, e non aveva mostro più che una completa apatia. Suo figlio, sollevando dalle mani il viso, lo vide colla ignominiosa corda pendente dal collo, il corpo accasciato in uno svigorito abbandono, e vicino a lui il prete che gli susurrava parole cui il misero non pareva udire nemmanco. Non resse a quella vista: uscì barcollando di quella cella, e sorreggendosi alla fredda parete umidiccia, venne lungo quei cupi corridoi in cui densa era la tenebra entro la quale appena parevan macchie rossigne i fumosi lucignoli di rade lanterne che stavano per ispegnersi. Aveva egli tracannato sino alla feccia del suo calice; aveva tutta consumata la sì gran parte dei dolori assegnati all'anima sua nella vita terrena; aveva il cuore infranto; sentiva esser compita la sua infelice giornata: camminava come il gladiatore antico che aveva ricevuto il colpo mortale e andava cercarsi un angolo nella sanguinosa arena, in cui sdraiarsi e morire.

Ad un tratto udì a pochi passi innanzi a sè un accorrer di gente, un susurro di persone, un agitato scambiarsi di domande, di risposte e d'interiezioni; vide un venire, un aggrupparsi, un muoversi irrequieto di lumi. Era giunto presso la cella in cui era stato posto a passare le ventiquattr'ore d'agonia il medichino. Maurilio non ebbe bisogno di chiedere che fosse avvenuto: le parole che udiva incrociarsi nel capannello raccoltosi sulla soglia di quella cella ebbero pure la forza di penetrare sino alla sua mente, richiamarne l'attenzione ed apprenderle la causa di quella emozione: il medichino era caduto a un tratto come colpito da un fulmine; la subita, misteriosa morte lo aveva salvato dal patibolo.

Il figliuolo di Stracciaferro si spinse innanzi entro la carcere che era divenuta la camera mortuaria del suo compagno d'infanzia, e contemplò tremando lo spettacolo che gli si offerse alla vista. Gian-Luigi giaceva lungo e disteso per terra, le braccia larghe, le mani mollemente ripiegate, la testa un po' tirata all'indietro e quindi la faccia volta verso il soffitto: nei suoi lineamenti v'era una placidità, a cui però faceva contrasto la ruga caratteristica della fronte che era disegnata nettamente nella pallidezza d'avorio, ma che andava via via spianandosi, come se a poco a poco scancellata dalla mano della morte. Era forse la traccia dell'ultima lotta di quell'organismo contro la volontà, e forse meglio, di quell'anima contro l'idea; dell'ultimo cozzo dei pensieri, in mezzo a cui quello spirito inquieto e superbo, si era violentemente sottratto ai dubbi della vita per fuggire l'ignominia, per precipitarsi avidamente nel mistero della tomba, ansioso di trovarci il motto dell'enimma.

Maurilio stette mirandolo alquanto. Ad ogni momento cresceva la calma nelle sembianze del cadavere: e con questa calma veniva fuori agli occhi del giovane che lo contemplava una rassomiglianza di quei lineamenti con altri che gli erano impressi da lungo tempo nell'animo: il dolce viso leggiadro di Virginia. S'inginocchiò presso di lui, e depose un bacio su quella fronte che già era diventata ghiaccia.

– Addio per sempre, corpo che hai chiuso quella misera anima combattuta; ritorna i tuoi elementi al gran serbatoio della natura, e possa fin la memoria distrursi della tua vita. Tu spirito, che ora te ne sei sciolto, possa arrivare nella nuova esistenza immateriale a tanto progresso da essere poi, in altra prova terrena, oltre che un intelligente, un onesto.

Quanto più s'avvicinava l'alba e tanto più cresceva nel medichino l'agitazione ch'egli aveva dapprima dissimulata, ma cui ora non poteva nascondere più. Se la Zoe mancasse all'assunto impegno e fosse in qualunque modo impedita di recargli, come aveva promesso, la morte! Gli toccherebbe percorrere le strade della città sull'infame carro, coll'infame accompagnatura, in mezzo all'infame curiosità del volgo; gli toccherebbe salire gl'infami scalini del patibolo e pendere dal legno infame, ignominioso spettacolo ad una vil turba che ne prenderebbe codardo diletto. Questo pensiero tanto lo tormentava da toglierlo quasi di senno, sentiva sfuggirgli il dominio che aveva conservato sino allora su sè stesso; la volontà pareva sul punto di cedere travolta dall'impeto della passione e dell'istinto. Guardava intorno a sè con occhio smarrito, come per cercare un mezzo di morte, poichè quello invocato e sperato non gli giungeva; aveva già entro sè maledetta e sacrata al demone della vendetta la cortigiana da cui si credeva ora abbandonato. Quando udì all'orologio d'una chiesa vicina suonare le cinque ore, ogni speranza fuggì da lui: digrignò i denti, si morse le mani, e guatò intorno con tanta ferocia che i fratelli della misericordia se ne allontanarono impauriti. Due ore appena lo separavano dal supplizio; anche presentandosi tuttavia la Zoe, egli temeva che non le sarebbe più stato concesso giungere sino a lui. Ma allora appunto ch'egli si riteneva perduto, la salvezza arrivava. Un uomo dalla faccia scialba, con una strana espressione di stanchezza nelle sembianze, che parevano d'infermo, si presentò, accompagnato da una donna velata, alla porta del confortatorio e disse con accento di comando:

– Lasciate penetrare questa signora presso il condannato.

Si ubbidì al sotto-ispettore delle carceri; e quella donna entrò dove stava il moribondo. Questi udì il fruscio delle vesti e sollevò il capo; benchè velata la riconobbe; sorse di scatto con un'esclamazione di gioia e le mosse vivamente all'incontro.

– Sei tu, Zoe? Sei tu pur finalmente?

La cortigiana levò il velo dalla faccia.

– Sono io! rispose con voce cupa, sorda, stentata.

Ah! quanto era ella diversa dalla Leggiera che vedemmo lieta e procace nel palchetto del teatro! Come l'aveva cambiata quella notte trascorsa, stendendo sulla sua bellezza il pallore dell'angoscia, incavandovi le rughe della vergogna! Il medichino medesimo ne fu sovraccolto.

– Che hai tu? le chiese prendendola per le mani che strinse forte fra le sue.

– Ho comperato il diritto di venirti a recare la morte; rispose sommessamente la Zoe: e l'ho pagato molto caro.

Gian-Luigi non domandò pure spiegazione di queste parole.

– Tu hai dunque teco la mia libertà? disse con vivace èmpito di gioia.

– Sì: rispose essa tremando tutta ed atterrando quasi impaurita gli sguardi.

– Quale io te la chiesi?

– Sì: ripetè la donna.

– Che tu sii dunque benedetta! L'ultimo favore e l'ultima gioia mi verranno da te… Solleva la fronte, Zoe, e guardami bene entro gli occhi.

Ella tremava sempre più forte e le sue pupille non potevano staccarsi dal suolo.

– No, no: disse; non son degna di guardarti.

Ma egli, stringendo nuovamente quelle mani che teneva ancora fra le sue:

– Noi siam degni l'un dell'altra, oh va!.. E tu almanco avrai amato!.. Mi vai innanzi per ciò… Guardami, Zoe, perchè tu possa leggere ne' miei occhi la mia riconoscenza, perchè ti possa stampare un'ultima volta nella mente le mie sembianze. Fu una vita scellerata la mia, di cui devo desiderare si disperda presso tutti ogni memoria; ma è una strana passione dell'uomo che, a dispetto di tutto, lo attacca a questa miserabile esistenza terrena. Mi è di una folle dolcezza, anche in questi momenti, il pensiero che, morto, vivrà ancora nell'anima tua lo sparito esser mio, mercè il ricordo. Guardami adunque!.. Presso te sola vo' riviver così; da tutti gli altri non domando che oblìo: presso te sola!.. Per quanto tempo?..

– Sempre, sempre, per tutta la vita: esclamò la Zoe che affondava i suoi negli occhi di lui, e gli pendeva palpitante dal labbro.

Gian-Luigi sorrise mestamente.

– Non ti domando l'impossibile: riprese a dire. Finchè nuove impressioni abbastanza forti e vaste per occupar tutto il tuo animo non me ne avranno scacciato. Non voglio che tu faccia il menomo sforzo per ritenere la mia immagine quando accenni a dileguarsi. Obliato dai viventi in questo mondo, chi sa che non abbia anch'io allora tutte dimenticate le cose terrene!.. E ciò avvenisse pure sollecitamente!.. Zoe, noi abbiamo sbagliato la vita… Auguro anche a te di morir presto, prima che la vecchiaia t'abbia raggiunta, prima che anche quel piccolo carbone acceso d'amore che ti rimane nell'anima si sia spento… Ora addio!.. Bisogna che io m'apra le porte del sepolcro… Sento un palpito in me che rivela le riluttanze della natura; ma la mia volontà è impaziente; l'anima anela di slanciarsi nell'incognito mare. Prendi fra le tue labbra la morte, e porgimela nel tuo ultimo bacio. Questo sacro bacio mortale cancellerà l'onta dei baci menzogneri e brutali che abbiamo dato, che ci siamo scambiati.

Zoe si torse le mani con disperazione.

– No, no; disse: darti io la morte, non posso… Vederti cadere innanzi a me!..

– Non mi vedrai. Aspetterò a rompere l'involto in cui è rinchiuso il veleno quando tu sarai partita di qui.

Uno di quegli impeti di generoso affetto, a cui sono aperte le impressionabili anime delle donne, anche le men nobili, assalse allora la cortigiana.

– Piuttosto, esclamò ella, moriamo insieme: rompi la fragil crosta, mentre le nostre labbra si toccano, e beviamo tuttedue la morte.

– No, Zoe: perchè vuoi tu accrescere il mio delitto? Lasciami morir solo.

Un'ombra nera comparve in mezzo ai fratelli della misericordia che s'erano ritirati presso la porta: era fra' Bonaventura che, secondo i presi accordi, veniva per essere compagno in quelle ultime ore al condannato.

– Il tempo preme: soggiunse Gian-Luigi che vide il gesuita, e gli fece colla mano cenno di aspettare un momento: coraggio, Zoe.

Questa si recò la mano alla bocca e vi pose una pillola grossa come una piccola nocciuola. Gian-Luigi afferrò la donna con un impeto che pareva di passione; la strinse al petto con abbraccio furibondo; ne cercò avidamente colle sue le labbra e le tenne suggellate in un bacio lungo, tenace. Nel silenzio di quella stanza e di quell'ora, si sentiva il palpito del cuore della Zoe; tanto era forte. Quando il medichino la sciolse dal suo amplesso, ella indietrò per alcuni passi vacillando, come se stesse per cadere: la pillola mortale dalla sua bocca era passata in quella di Gian-Luigi.