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UNA NUOVA CHANCE

(UN MISTERO DI MACKENZIE WHITE—LIBRO 2)

B L A K E P I E R C E

Blake Pierce

Blake Pierce è l’autore della serie di successo I misteri di RILEY PAGE, che si compone (al momento) di sei libri. Blake Pierce è anche autore della serie dei misteri di MACKENZIE WHITE, composta (al momento) da tre libri; della serie dei misteri di AVERY BLACK, composta (al momento) da tre libri; della nuova serie dei misteri di KERI LOCKE.

Avido lettore e appassionato da sempre di gialli e thriller, Blake riceve con piacere i vostri commenti, perciò non esitate a visitare la sua pagina www.blakepierceauthor.com per saperne di più e restare in contatto con l’autore.

Copyright © 2016 di Blake Pierce. Tutti i diritti riservati. Ad eccezione di quanto consentito dalla Legge sul Copyright degli Stati Uniti del 1976, nessuna parte di questa pubblicazione può essere riprodotta, distribuita o trasmessa in qualsiasi forma o con qualsiasi mezzo, né archiviata in un database o un sistema di recupero senza aver prima ottenuto il consenso dell’autore. La licenza di questo e-book è concessa solo ad uso personale. Questo e-book non può essere rivenduto o ceduto a terzi. Se si desidera condividere il libro con altre persone, si prega di acquistare una copia per ciascun destinatario. Se state leggendo questo libro senza averlo acquistato, oppure senza che qualcuno lo abbia acquistato per voi, siete pregati di restituire questa copia e acquistarne una. Vi ringraziamo per il rispetto nei confronti del lavoro dell’autore. Questa è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, aziende, società, luoghi, eventi e fatti sono frutto dell’immaginazione dell’autore, oppure sono utilizzati in modo fittizio. Qualsiasi somiglianza a persone reali, in vita o decedute, è puramente casuale. Copyright immagine di copertina lassedesignen, concessa su licenza di Shutterstock.com.

LIBRI DI BLAKE PIERCE

I MISTERI DI RILEY PAIGE

IL KILLER DELLA ROSA (Libro #1)

IL SUSSURRATORE DELLE CATENE (Libro #2)

OSCURITA’ PERVERSA (Libro #3)

IL KILLER DELL’OROLOGIO (Libro #4)

KILLER PER CASO (Libro #5)

CORSA CONTRO LA FOLLIA (Libro #6)

I MISTERI DI MACKENZIE WHITE

PRIMA CHE UCCIDA (Libro #1)

UNA NUOVA CHANCE (Libro #2)

PRIMA CHE BRAMI (Libro #3)

I MISTERI DI AVERY BLACK

UNA RAGIONE PER UCCIDERE (Libro #1)

UNA RAGIONE PER CORRERE (Libro #2)

UNA RAGIONE PER NASCONDERSI (Libro #3)

I MISTERI DI KERI LOCKE

UNA TRACCIA DI MORTE (Libro #1)

INDICE

PROLOGO

CAPITOLO UNO

CAPITOLO DUE

CAPITOLO TRE

CAPITOLO QUATTRO

CAPITOLO CINQUE

CAPITOLO SEI

CAPITOLO SETTE

CAPITOLO OTTO

CAPITOLO NOVE

CAPITOLO DIECI

CAPITOLO UNDICI

CAPITOLO DODICI

CAPITOLO TREDICI

CAPITOLO QUATTORDICI

CAPITOLO QUINDICI

CAPITOLO SEDICI

CAPITOLO DICIASSETTE

CAPITOLO DICIOTTO

CAPITOLO DICIANNOVE

CAPITOLO VENTI

CAPITOLO VENTUNO

CAPITOLO VENTIDUE

CAPITOLO VENTITRE’

CAPITOLO VENTIQUATTRO

CAPITOLO VENTICINQUE

CAPITOLO VENTISEI

CAPITOLO VENTISETTE

CAPITOLO VENTOTTO

CAPITOLO VENTINOVE

CAPITOLO TRENTA

CAPITOLO TRENTUNO

CAPITOLO TRENTADUE

CAPITOLO TRENTATRE’

CAPITOLO TRENTAQUATTRO

PROLOGO

Susan Kellerman capiva la necessità di vestirsi bene. Rappresentava la compagnia e doveva cercare di conquistare nuovi acquirenti, quindi il suo aspetto contava. Quello che invece non capiva era perché, in nome di Dio, dovesse portare i tacchi. Indossava un grazioso abitino estivo e aveva un paio di ballerine perfette da abbinarci. Invece no... l’azienda insisteva con in tacchi. Era una questione di eleganza.

Dubito che i tacchi abbiano qualcosa a che fare col successo di una vendita, pensò. Soprattutto se il potenziale cliente era un uomo. E, stando al suo elenco, la persona che abitava nella casa in cui si stava dirigendo era un uomo. Susan quindi controllò la scollatura del proprio abito. Era leggermente profonda, ma nulla di scandaloso.

Questo, pensò, dimostra eleganza.

Con in mano un espositore piuttosto grosso e pesante, salì i gradini nelle sue scarpe coi tacchi e suonò il campanello. Mentre aspettava, diede una rapida occhiata alla casa. Era un’abitazione piccola e semplice, ai margini di un quartiere borghese. L’erba era stata tagliata di recente, ma le aiuole che fiancheggiavano gli scalini del portico d’ingresso erano invase dalle erbacce.

Era un quartiere tranquillo, ma non il tipo in cui Susan avrebbe abitato volentieri. Le case disseminate per la strada erano tutte a un piano e con il tetto asimmetrico. Immaginò che nella maggior parte di esse vivessero coppie di anziani o persone che riuscivano a fatica a pagare le bollette. Quella casa in particolare pareva a un passo dal diventare proprietà della banca; sarebbe bastato un violento temporale o una crisi finanziaria.

Allungò la mano per suonare di nuovo il campanello, ma la porta si aprì prima che ci riuscisse. L’uomo che aveva aperto era di corporatura media. Immaginò avesse sui quarant’anni. C’era in lui qualcosa di effeminato, qualcosa che traspariva anche semplicemente dal modo in cui aveva aperto la porta e le aveva rivolto un ampio e luminoso sorriso.

“Buongiorno” disse l’uomo.

“Buongiorno” rispose lei.

Conosceva il suo nome, ma le era stato insegnato di usarlo solo una volta che le linee di comunicazione fossero state ben aperte. Quando chiamavi le persone subito per nome, le facevi sentire come obiettivi, non clienti, anche se avevano prenotato l’appuntamento.

Non volendo lasciargli l’occasione per fare domande e prendere così il controllo della conversazione, aggiunse: “Mi chiedevo se avesse un momento per parlare della sua dieta attuale.”

“Dieta?” domandò l’uomo con un sorrisetto. “Non sono esattamente a dieta. Mangio quello che mi va.”

“Ah, dev’essere bello” commentò Susan in tono allegro e sfoderando il suo sorriso più affascinante. “Come sono certa saprà, non molte persone al di sopra dei trent’anni possono dire una cosa del genere e mantenere un fisico sano.”

Per la prima volta, l’uomo guardò la valigetta che Susan aveva nella mano sinistra. Fece un altro sorriso, stavolta uno pigro, di quelli che fanno le persone quando capiscono di aver abboccato.

“Allora, cosa vende?”

Era un commento sarcastico, ma almeno non le aveva sbattuto la porta in faccia. Lei la considerò una piccola vittoria che le avrebbe permesso di entrare in casa. “Be’, sono qui per conto dell’Università del Miglioramento” spiegò. “Offriamo agli adulti con più di trent’anni un metodo facilissimo di restare in forma senza dover andare in palestra o modificare troppo il proprio stile di vita.”

L’uomo sospirò e poggiò la mano alla porta. Sembrava annoiato e pronto a cacciarla via.

“E quale sarebbe questo metodo?”

“Si tratta di una combinazione di frullati proteici fatti con preparati di nostra produzione e più di cinquanta ricette salutari per migliorare la sua alimentazione giornaliera.”

 

“Tutto qui?”

“Tutto qui” confermò lei.

L’uomo ci pensò su un momento, spostando lo sguardo da Susan alla valigetta che aveva in mano. Quindi guardò l’orologio e diede un’alzata di spalle.

“Le dirò una cosa” disse. “Devo andarmene tra dieci minuti. Se nel frattempo riesce a convincermi, avrà guadagnato un cliente. Farei di tutto per evitare di tornare in palestra.”

“Splendido” disse Susan, con un tono allegro di voce talmente finto che la fece rabbrividire.

L’uomo si spostò e le fece cenno di entrare in casa. “Si accomodi” le disse.

Lei entrò, trovandosi in un piccolo salotto. Un televisore dall’aspetto antiquato poggiava su un mobile segnato; negli angoli della stanza c’erano vecchie sedie polverose e un divano sgualcito. Ovunque c’erano statuette di ceramica e centrini. Sembrava più la casa di un’anziana che quella di un quarantenne single.

Senza capirne il motivo, nella sua testa si accesero dei campanelli d’allarme. Tuttavia, tentò di sconfiggere la propria paura con la logica. O è davvero fuori di testa, oppure questa non è casa sua. Magari vive con la madre.

“Va bene se ci mettiamo lì?” disse lei indicando il tavolino davanti al divano.

“Sì, va bene lì” disse l’uomo. Le sorrise mentre chiudeva la porta.

Nell’istante in cui la porta si chiuse, Susan avvertì qualcosa agitarsi dentro di sé. Era come se la stanza si fosse fatta gelida e i suoi sensi si fossero messi in allerta. C’era qualcosa di sbagliato. Era una sensazione bizzarra. Guardò la statuetta di ceramica più vicina a lei – un ragazzo che tirava un carretto – come in cerca di una risposta.

Cercò di distrarsi aprendo la valigetta-espositore. Tirò fuori alcune bustine di Proteine in Polvere dell’Università del Miglioramento e il mini frullatore in omaggio (del valore di 35$, ma completamente gratis per te al primo acquisto!).

“Allora” disse, cercando di restare calma e ignorare i brividi che avvertiva. “Le interessa di più perdere peso, aumentare di peso oppure mantenere il suo peso attuale?”

“Non saprei” disse l’uomo osservando gli oggetti restando in piedi davanti al tavolino. “Lei cosa dice?”

Susan faticava a parlare. Adesso aveva paura e senza un motivo preciso.

Guardò la porta, col cuore che le martellava in petto. L’aveva forse chiusa a chiave? Da dove si trovava non riusciva a capirlo.

Poi realizzò che l’uomo aspettava ancora una risposta. Cercò di riprendersi e tornare in modalità di venditrice.

“Be’, non saprei” gli disse.

Voleva guardare di nuovo la porta. Improvvisamente, le sembrò che tutte le statuine nella stanza la fissassero con in loro occhi di porcellana, come se fosse una preda.

“Non mangio poi così male” disse l’uomo. “Però ho un debole per la torta al limone. Se seguo il vostro programma potrei continuare a mangiare torta al limone?”

“Forse sì” rispose lei. Si mise a spulciare tra i documenti nella valigetta, stringendola a sé. Dieci minuti, pensò, sentendosi sempre più a disagio man mano che i secondi passavano. Ha detto di avere dieci minuti. Posso farcela.

Trovò l’opuscolo che spiegava cosa l’uomo avrebbe potuto mangiare se avesse seguito il programma e glielo porse guardandolo in faccia. Quando lui lo prese, le sfiorò la mano per un istante.

Ancora una volta, nella sua mente scattarono gli allarmi. Doveva andarsene da lì. Non le era mai capitato di avere una simile reazione entrando nella casa di un potenziale cliente, ma adesso si sentiva così sopraffatta da non riuscire a pensare ad altro.

“Mi dispiace” disse raccogliendo tutto il materiale e rimettendolo nella valigetta. “Mi sono appena ricordata di avere una riunione tra meno di un’ora, dall’altra parte della città.”

“Ah” disse lui, osservando l’opuscolo che aveva in mano. “Certo, capisco. Spero che non faccia tardi.”

“Grazie” disse lei frettolosamente.

Le porse l’opuscolo, che lei prese con mano tremante. Lo sistemò nella valigetta e andò alla porta d’ingresso.

Era davvero chiusa a chiave.

“Mi scusi” disse l’uomo.

Susan si voltò, la mano ancora sulla maniglia.

Notò a malapena il pugno arrivare verso di lei. Tutto ciò che vide quando la colpì alla bocca fu un lampo bianco. Sentì subito il sangue scorrere, avvertendone anche il sapore sulla lingua. Cadde all’indietro sul divano.

Aprì la bocca per gridare, ma la parte destra della mascella era come bloccata. Mentre cercava di rimettersi in piedi, l’uomo le si parò davanti e stavolta le sferrò una ginocchiata allo stomaco. Tutta l’aria le uscì dai polmoni e riuscì solo a rannicchiarsi, annaspando in cerca d’aria. Si rese debolmente conto dell’uomo che la sollevò e se la mise in spalla, come se fosse un primitivo che riportava la sua donna nella caverna.

Provò a divincolarsi, ma non riusciva ancora a respirare bene. Si sentiva come paralizzata, come se stesse annegando. Tutto il suo corpo era molle, anche la testa. Il sangue le colava dalla bocca finendo sulla camicia dell’uomo, e fu tutto ciò che vide mentre lui la trascinava per casa.

Ad un certo punto si accorse che l’aveva portata in un’altra casa, che era in qualche modo collegata a quella dove si era trovata fino a poco prima. La lasciò cadere come un sacco di patate, facendole sbattere la testa sul pavimento di linoleum consunto. Quando infine riuscì ad inspirare, il dolore le fece comparire tanti puntini luminosi davanti agli occhi. Si rigirò sul pavimento, ma quando riuscì a rimettersi in piedi, l’uomo era di nuovo lì.

Le si stava annebbiando la vista, ma riuscì comunque a vedere che l’uomo aveva aperto una specie di porticina nel muro, nascosta da un falso pannello di legno. Dietro la porta c’era uno spazio buio e polveroso, con uno strato di materiale isolante rigonfio che cadeva a pezzi. Il cuore prese a batterle in petto furiosamente, come a cercare di sfondarle le cassa toracica, quando capì che era lì che l’avrebbe portata.

“Qui sarai al sicuro” le disse l’uomo, chinandosi e trascinandola nel nascondiglio.

Si ritrovò al buio, sdraiata sulle rigide assi di legno del pavimento. L’uomo... sapeva il suo nome, ma non riusciva a ricordarlo. Il suo mondo si era ridotto a dolore e sangue, mentre continuava a respirare a fatica.

Infine riuscì a trarre un respiro profondo, e pensò di usarlo per gridare aiuto. Invece, lasciò che le riempisse i polmoni, portando un po’ di sollievo al suo corpo. In quel breve istante di tregua, udì la porta del nascondiglio chiudersi da qualche parte dietro di sé, poi si ritrovò nella completa oscurità.

L’ultima cosa che aveva sentito prima che il mondo si tingesse di nero era la risata dell’uomo, appena fuori dalla porta.

“Non preoccuparti” disse. “Presto sarà tutto finito.”

CAPITOLO UNO

La pioggia cadeva incessantemente, abbastanza forte da impedire a Mackenzie White di udire i suoi stessi passi. Bene. Questo significava che anche l’uomo che stava seguendo non li avrebbe sentiti.

Doveva però procedere comunque con cautela. Non solo pioveva, ma era anche notte fonda. Il sospettato avrebbe potuto facilmente sfruttare l’oscurità a proprio vantaggio, esattamente come lei. E i lampioni dalle luci fioche e tremolanti non le erano certo d’aiuto.

Con i capelli quasi zuppi e l’impermeabile così bagnato che le stava incollato al corpo, Mackenzie attraversò la strada deserta a passo sostenuto. Più avanti, il suo partner aveva già raggiunto l’obiettivo. Riusciva a vedere la sua sagoma accovacciata sul fianco del vecchio edificio in cemento. Mentre gli si avvicinava, illuminata soltanto dalla luna e da un lampione lontano, rafforzò la presa sulla Glock datale in dotazione dall’Accademia.

Iniziava a piacerle tenere una pistola in mano. Non era soltanto una questione di sicurezza, era qualcosa di più, una sorta di relazione. Quando teneva in mano una pistola e sapeva che l’avrebbe usata, avvertiva un legame intimo. Non aveva mai sperimentato nulla del genere mentre lavorava in Nebraska come detective sottovalutata; era qualcosa di nuovo che le aveva tirato fuori l’Accademia dell’FBI.

Raggiunse l’edificio e si appostò sul fianco con il suo partner. Lì, almeno, la pioggia non la raggiungeva.

Il suo partner si chiamava Harry Dougan. Ventidue anni, muscoloso, arrogante in modo sottile e quasi rispettabile. Fu sollevata di constatare che anche lui pareva un po’ nervoso.

“Hai avuto una visuale?” gli domandò Mackenzie.

“No, ma la stanza all’ingresso è libera. Si vede dalla finestra” disse indicando davanti a loro. C’era una sola finestra, irregolare e coi vetri rotti.

“Quante stanze?” chiese lei.

“Tre che so per certo.”

“Vado avanti io” gli disse, facendo in modo che non sembrasse una domanda. Persino lì a Quantico, le donne dovevano imporsi per essere prese sul serio.

Lui le fece cenno di avanzare. Lei lo sorpassò e si portò davanti all’edificio. Si sporse oltre l’angolo e vide che la via era libera. Quelle strade erano deserte in modo inquietante e tutto pareva morto.

Fece un rapido cenno a Harry per dirgli di venire avanti e lui non esitò. In mano aveva anche lui una Glock, che durante gli inseguimenti teneva con presa ferma e puntata in basso, proprio come erano stati addestrati a fare. Insieme si mossero verso la porta d’ingresso. Era un casermone abbandonato – forse un vecchio magazzino o un deposito – e la porta non era certo nuova. Inoltre era leggermente aperta, e l’interno dell’edificio si intravedeva dalla fessura.

Mackenzie guardò Harry e fece il conto alla rovescia con le dita. Tre, due... uno!

Si appiattì contro il muro di cemento, mentre Harry si abbassava per aprire la porta ed entrare, quindi lo seguì all’interno. Ormai insieme funzionavano come una macchina ben oliata. Una volta dentro l’edificio, però, il buio era quasi totale. Mackenzie afferrò prontamente la torcia che teneva sul fianco. Proprio quando stava per accenderla, si fermò. La luce della torcia avrebbe rivelato la loro posizione, e il sospettato li avrebbe potuti individuare facilmente e scappare... di nuovo.

Rimise al suo posto la torcia e riprese il comando, portandosi davanti a Harry con la Glock puntata verso la porta davanti a lei sulla destra. Quando i suoi occhi si furono abituati al buio, riuscì a distinguere altri dettagli del luogo. Era per lo più spoglio. Delle scatole di cartone umido erano accatastate contro un muro. Un cavalletto e molti vecchi cavi erano buttati in un angolo della stanza. A parte quello, la stanza era vuota.

Mackenzie andò verso la porta alla sua destra. In realtà rimaneva soltanto lo stipite, mentre la porta era stata rimossa. Oltre la soglia, tutto era avviluppato dalle ombre. A parte una bottiglia rotta ed escrementi di topo, la stanza era vuota.

Si fermò e fece per voltarsi, poi si accorse che Harry la seguiva troppo da vicino e per poco non gli pestò i piedi nell’indietreggiare.

“Scusa” sussurrò lui nel buio. “Credevo che...”

Fu interrotto dal suono di uno sparo. Subito dopo udì un verso uscire dalla bocca di Harry, che finì a terra.

Mackenzie si appiattì contro la parete quando udì un altro colpo. Lo sparo colpì il muro dalla parte opposta e lei ne avvertì le vibrazioni con la schiena.

Sapeva che, se avesse agito in fretta, avrebbe potuto abbattere il criminale subito, piuttosto che dover affrontare una sparatoria da dietro la parete. Guardò Harry e vide che si muoveva ancora ed era più o meno lucido, quindi gli porse la mano e lo tirò oltre la soglia della porta, fuori dalla linea di tiro. Giunse un altro sparo, che le passò sibilando vicino alla spalla.

Una volta messo Harry al sicuro, non sprecò tempo e decise di agire. Afferrò la torcia, l’accese e la lanciò oltre la porta. Pochi secondi dopo cadde a terra sbatacchiando, il fascio di luce bianca che ballava sul pavimento dall’altra parte del muro.

Approfittando del rumore della torcia, Mackenzie si spostò dalla soglia. Tenendosi bassa, fece una rapida capriola. Mentre rotolava verso sinistra, vide la sagoma del malvivente alla sua destra, ancora distratto dalla torcia.

Terminando la capriola, distese la gamba destra con molta forza, colpendo il malvivente dietro la gamba, appena sotto il ginocchio. Lui si piegò leggermente, ma le bastò. Balzò in piedi e gli avvolse un braccio intorno al collo, finendo a terra con lui. Con un ginocchio sul plesso solare e un’abile mossa con il braccio sinistro, Mackenzie bloccò il malvivente, disarmandolo.

 

Da un altro punto nel vecchio edificio giunse una forte voce che disse: “Fermi!”

Una serie di lampade si accesero con un clic, inondando l’edificio di luce.

Mackenzie si alzò in piedi e guardò il sospettato. Le sorrideva. Era un viso familiare, che aveva visto in parecchie occasioni durante le sue sessioni di addestramento, e che solitamente abbaiava ordini e istruzioni alle reclute.

Gli tese la mano e lui l’afferrò. “Davvero un ottimo lavoro, White.”

“Grazie” disse lei.

Harry arrivò barcollando e tenendosi lo stomaco. “Siamo davvero sicuri che quei cosi siano caricati con proiettili di gomma?” chiese.

“Certo, anzi, sono considerati leggeri” spiegò l’istruttore. “La prossima volta useremo i proiettili antisommossa.”

“Fantastico” brontolò Harry.

Alcune persone iniziarono a entrare nella stanza, mentre l’inseguimento nella Hogan’s Alley giungeva al termine. Era la terza sessione che Mackenzie faceva lì; la Hogan’s Alley era la riproduzione di una strada disabitata usata spesso dall’FBI per simulare situazioni reali nell’addestramento delle reclute.

Mentre due istruttori spiegavano a Harry cosa avesse sbagliato e come avrebbe potuto evitare di essere colpito, un altro istruttore si diresse verso Mackenzie. Si chiamava Simon Lee ed era un uomo che pareva aver preso la vita a calci in culo dopo che questa gli aveva riservato solo miseria.

“Fantastico lavoro, Agente White” le disse. “Quella capriola è stata così veloce che a momenti non la vedevo. Però... è stata una mossa azzardata. Se là fuori ci fossero stati dei complici, sarebbe potuta andare molto diversamente.”

“Sì, signore. Me ne rendo conto.”

Lee le sorrise. “Lo so.” disse. “Lascia che ti dica una cosa. Siamo solo a metà del tuo addestramento, ma io sono già al settimo cielo per i tuoi progressi. Sarai un’agente eccellente. Bel lavoro.”

“Grazie, signore” disse lei.

Lee si allontanò verso un’altra area dell’edificio, per parlare con un altro istruttore. Quando fecero per uscire, Harry la raggiunse, il viso ancora contratto in una smorfia.

“Ben fatto” si complimentò. “Non fa così male se la persona che ti ha superato nella prova è eccezionalmente carina.”

Lei alzò gli occhi al cielo e rimise la Glock nella fondina. “L’adulazione non serve a niente” gli disse. “L’adulazione, come si dice, non ti porterà da nessuna parte.”

“Lo so” replicò Harry. “Ma almeno mi porterà qualcosa da bere?”

Lei ridacchiò. “Se offri tu.”

“Certo, pago io” disse lui. “Non vorrei che mi prendessi a calci nel sedere.”

Uscirono dall’edificio tornando sotto la pioggia. Adesso che l’esercitazione era terminata, la pioggia era quasi piacevole. Tra gli istruttori e gli agenti che ripulivano il terreno, Mackenzie finalmente si concesse di sentirsi orgogliosa di sé.

Dopo undici settimane, aveva superato gran parte delle sessioni di addestramento dell’Accademia. C’era quasi... le mancavano circa nove settimane, poi avrebbe terminato il corso e sarebbe potuta diventare agente operativo dell’FBI.

Improvvisamente si domandò perché avesse aspettato così tanto per lasciare il Nebraska. Quando Ellington aveva fatto il suo nome all’Accademia, era stata praticamente la sua occasione d’oro, la spinta che le serviva per mettersi alla prova e spingersi oltre il suo ambiente sicuro. Si era liberata del lavoro, del fidanzato, dell’appartamento... e aveva iniziato una nuova vita.

Pensò alle vaste pianure, ai campi di granoturco e al cielo azzurro che si era lasciata alle spalle. Anche se avevano una loro bellezza, per lei erano stati come una prigione.

Ma ora era tutto passato.

Adesso che era libera, non c’era niente a trattenerla.

*

La sua giornata proseguì con l’allenamento fisico: flessioni, scatti, addominali, ancora scatti e sollevamento pesi. Durante i suoi primi giorni all’accademia, aveva odiato quel tipo di allenamento, ma quando corpo e mente si erano abituati, le sembrò addirittura di desiderarlo.

Tutto veniva eseguito con velocità e precisione. Fece cinquanta flessioni così velocemente da rendersi conto che i muscoli delle braccia le bruciavano solo quando ebbe finito e iniziò il percorso a ostacoli nel fango. Qualunque fosse l’attività fisica, si era abituata a considerare di aver raggiunto il limite soltanto quando braccia e gambe iniziavano a tremarle.

Nella sua unità c’erano sessanta apprendisti, ma solo nove erano donne, lei compresa. Questo però non la turbava, probabilmente perché quando era in Nebraska si era talmente temprata da fregarsene del sesso dei colleghi di lavoro. Si limitava a tenere la testa bassa e lavorare al meglio delle proprie capacità, che, non faticava ad ammettere, erano piuttosto eccezionali.

Quando l’istruttore dichiarò concluso l’ultimo percorso – una corsa di tre chilometri tra sentieri fangosi nella foresta – la classe si disperse e ognuno andò per la propria strada. Mackenzie sedette su una delle panchine a bordo campo e distese le gambe. Non aveva più niente da fare quel giorno, ma si sentiva ancora carica per il successo nella Hogan’s Alley, così pensò di fare un’ultima corsa.

Per quanto detestasse ammetterlo, era diventata una di quelle persone che amava correre. Anche se non si sarebbe iscritta a nessuna maratona, aveva imparato ad apprezzare la corsa. Oltre ai giri e ai percorsi previsti dal suo addestramento, trovava anche il tempo per correre lungo i sentieri boschivi del campus che si trovava a dieci chilometri dal quartiere generale dell’FBI, tredici chilometri dal suo nuovo appartamento a Quantico.

Con il top sportivo impregnato di sudore e il viso arrossato, fece uno sprint finale lungo il percorso a ostacoli, notando due uomini che la guardavano. Non con espressione trasognata o lasciva, ma come se l’ammirassero, e questo le diede un’ulteriore spinta.

A dire la verità, qualche occhiata interessata ogni tanto non le sarebbe dispiaciuta. Il suo nuovo fisico snello, per il quale aveva lavorato sodo, meritava di essere apprezzato. Le sembrava strano sentirsi così sicura del proprio corpo, ma si stava abituando e le piaceva. Anche a Harry Dougan piaceva, nonostante non le avesse mai detto niente. E anche se avesse detto qualcosa, Mackenzie non era sicura di cosa gli avrebbe risposto.

Quando ebbe concluso la sua ultima corsa (di quasi tre chilometri) fece la doccia negli spogliatoi e uscendo prese un pacchetto di cracker dalla macchinetta. Aveva il resto della giornata per sé; quattro ore per fare quello che voleva, prima di andare in palestra a fare il tapis-roulant – una piccola routine alla quale si era abituata per avere un vantaggio su tutti gli altri.

Cosa poteva fare? Magari poteva finire una volta per tutte di disfare i bagagli. C’erano ancora sei scatoloni nel suo appartamento ai quali non aveva nemmeno tolto il nastro adesivo. Quella sarebbe stata la cosa intelligente da fare. Però si domandò anche quali fossero i programmi di Harry per la serata, e se avesse detto sul serio quando aveva proposto di andare a bere qualcosa. Intendeva quella sera o un’altra sera?

Inoltre, si chiese anche cosa stesse facendo l’Agente Ellington.

Lei ed Ellington erano quasi usciti insieme un paio di volte, ma non di più, e probabilmente era meglio così, per Mackenzie. Sperava proprio di non doversi più ricordare della situazione imbarazzante che si era creata fra loro in Nebraska.

Mentre decideva cosa fare del suo pomeriggio, si avviò verso la macchina. Mentre inseriva la chiave nella portiera, vide qualcuno di familiare che faceva jogging. Si trattava di un’agente in addestramento come lei, Colby Stinson, che le sorrise quando vide che la guardava. Arrivò correndo alla macchina di Mackenzie, con un’energia che le fece dedurre che Colby avesse appena iniziato la sua corsa.

“Ehi, ciao” disse Colby. “Sei rimasta indietro?”

“No, ho fatto una corsetta extra.”

“Ah già, ma certo.”

“Cosa vorresti dire?” chiese Mackenzie. Lei e Colby si conoscevano piuttosto bene, anche se sarebbe stato un po’ azzardato definirle amiche. Non capiva mai quando Colby scherzasse e quando la stesse provocando.

“Voglio dire che sei ultra determinata e forse un po’ troppo ambiziosa” disse Colby.

“Beccata.”

“Allora, che fai?” chiese Colby. Poi indicò il pacchetto di cracker in mano a Mackenzie. “È il tuo pranzo?”

“Già” disse. “Triste, eh?”

“Un po’. Perché non andiamo a mangiare qualcosa? Della pizza andrebbe benissimo per me.”

Anche per Mackenzie la pizza era una buona idea, soltanto che non se la sentiva di sopportare le chiacchiere di una donna che tendeva a incentrare le conversazioni sempre sui pettegolezzi. D’altra parte, sapeva che la sua vita non poteva limitarsi ad addestramento, ancora addestramento e a stare rinchiusa nel suo appartamento.

“Ok, andiamo” disse Mackenzie.

Era una piccola vittoria uscire dal suo guscio e cercare di farsi degli amici in quel posto nuovo, in quel nuovo capitolo della sua vita. Con ogni passo, una nuova pagina veniva voltata e lei era impaziente di iniziare a scriverci.

*

La Pizzeria Donnie era piena solo per metà quando Mackenzie e Colby arrivarono nel pomeriggio, dato che la gente aveva già pranzato e stava uscendo. Si sistemarono ad un tavolo in fondo al locale e ordinarono una pizza. Mackenzie si concesse un po’ di relax, riposando gambe e braccia, ma non riuscì a goderselo a lungo.

Colby si sporse in avanti e sospirò. “Allora, possiamo parlare dell’elefante nella stanza?”

“C’è un elefante?” chiese Mackenzie.

“Proprio così” disse Colby. “Solo che è tutto coperto di nero e di solito passa inosservato.”

“D’accordo” concesse Mackenzie. “Spiegami questa storia dell’elefante. E dimmi anche perché non me ne hai parlato prima.”

“Non ti ho mai detto che il primo giorno che sei arrivata all’Accademia io sapevo chi eri. Quasi tutti lo sapevano. Giravano molte voci. Se ho aspettato fino adesso per dirtelo, è proprio perché non so in che modo le cose cambieranno.”