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Loe raamatut: «Capitan Tempesta», lehekülg 2

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Che cosa ne faranno di lui questi mostri? Lo faranno morire lentamente fra i più atroci martirî? È impossibile che lo tengano solamente prigioniero: egli che era diventato il terrore dei pascià, egli che aveva inflitto tante sanguinose sconfitte a queste orde barbariche, a questi lupi sbucati dai deserti dell’Arabia.

Povero e valoroso Le Hussière!

– L’ami molto dunque? disse l’arabo che l’aveva ascoltata in silenzio, senza staccarle di dosso gli occhi.

– Se l’amo! – esclamò la giovane duchessa, con voce appassionata. – Amo come le donne del tuo paese.

– Forse di più ancora, signora – rispose El-Kadur, soffocando un nuovo sospiro. – Un’altra donna non avrebbe fatto quello che facesti tu, non avrebbe lasciato il bel palazzo di Napoli, non si sarebbe vestita da uomo, non avrebbe assoldato coi propri denari una compagnia e non sarebbe venuta qui a rinchiudersi in questa città assediata da centomila infedeli, a sfidarvi la morte.

– Potevo io restare tranquilla in patria, quando io sapevo che egli era qui e che correva un così grave pericolo?

– E non pensi, signora, che un giorno i turchi riusciranno a superare i bastioni e che si rovesceranno sulla città assetati di sangue e di stragi? Chi ti salverà quel giorno?

– Siamo tutti nelle mani di Dio, – disse la duchessa, con voce rassegnata. – D’altronde se Le Hussière venisse ucciso, io non sopravviverei, El-Kadur.

Uno spasimo aveva fatto fremere la pelle abbronzata dell’arabo.

– Signora, disse, alzandosi – che cosa devo fare? È necessario che io approfitti delle tenebre per tornare al campo dei turchi.

– Cercare sempre per sapere ove lo hanno condotto disse la duchessa. – Dovunque si trovi, noi andremo a salvarlo, El-Kadur.

– Domani notte sarò qui.

– Se sarò ancora viva disse la giovane.

– Che cosa dici, padrona! – esclamò l’arabo, con accento spaventato.

– Mi sono impegnata in una avventura che potrebbe finir male. Chi è quel giovane turco che tutti i giorni viene a sfidare i capitani cristiani?

– Muley-el-Kadel, figlio del pascià di Damasco. Perchè questa domanda, padrona?

– Perchè domani andrò a misurarmi con lui.

– Tu! – esclamò l’arabo, col viso trasfigurato. – Tu, signora? Questa notte andrò a ucciderlo nella sua tenda onde non venga a sfidare i capitani di Famagosta.

– Oh! Non temere, El-Kadur. Mio padre era la prima lama di Napoli ed ha fatto di me una spadaccina, che può tener testa anche alle spade dei più famosi capitani del Gran Turco.

– Chi vi costringe a misurarvi con quell’infedele?

– Il capitano Laczinki.

– Quel cane d’un polacco, che pare nutra verso di te un segreto rancore? Agli occhi d’un figlio del deserto nulla sfugge ed avevo indovinato in lui il tuo nemico.

– Sì, il polacco.

El-Kadur aveva fatto un salto innanzi, mandando un ruggito da belva, mentre il suo viso assumeva una espressione così feroce e selvaggia che colpì la giovine duchessa.

– Dove si trova ora quell’uomo? – chiese con voce strozzata.

– Che cosa vorresti fare, El-Kadur? chiese la capitana con voce dolce.

L’arabo, con un gesto rapido si levò dalla fascia l’jatagan, facendo scintillare la lucente lama alla luce della lampada.

– Questo acciaio questa notte berrà sangue polacco, – disse, con voce cupa. – Quell’uomo non vedrà alzarsi il sole di domani, così la sfida non avrà più luogo.

– Tu non lo farai gli rispose la capitana, con voce ferma. – Si direbbe che Capitan Tempesta ha avuto paura e che ha fatto assassinare il polacco. No, El-Kadur, tu lo lascerai vivere.

– E dovrò io vedere la mia padrona, misurarsi in un combattimento mortale con quel turco? chiese l’arabo con selvaggio accento. – Potrei io vederla cadere morente sotto i colpi di scimitarra di quell’infedele? La vita di El-Kadur è tua, fino all’ultima stilla di sangue, padrona, ed i guerrieri della mia tribù sanno morire in difesa dei loro signori.

– Capitan Tempesta deve mostrare a tutti che non ha paura dei turchi, – rispose la duchessa. – È necessario, per allontanare qualsiasi sospetto sul mio vero essere.

– Lo ucciderò, padrona, – rispose l’arabo con voce sibilante.

– Te lo proibisco.

– No, signora.

– Te lo comando: obbedisci, – disse la duchessa.

L’arabo piegò il capo e qualche cosa d’umido apparve sotto le sue palpebre.

– È vero disse – sono uno schiavo e debbo obbedire.

Capitan Tempesta gli si avvicinò e, posandogli su una spalla la sua bianca mano, gli disse con voce raddolcita:

– Non schiavo: sei mio amico.

– Grazie, signora, rispose El-Kadur – farò quello che vorrai, ma ti giuro che se il turco ti atterra, io gli brucerò le cervella. Lascia almeno che il tuo fedele servo ti vendichi, nel caso che ti succedesse qualche disgrazia. Che cosa varrebbe la mia vita senza di te?

– Farai quello che meglio crederai, mio povero El-Kadur. Va’, parti prima che sorga l’alba. Se tu tardassi non potresti più raggiungere il campo degli infedeli.

– Ti obbedisco, signora. Io saprò presto dove hanno condotto il signor Le Hussière, te lo prometto.

Uscirono dalla casamatta e risalirono sul bastione, dove le colubrine ed i moschettoni continuavano a tuonare con crescente fracasso, rispondendo vigorosamente alle artiglierie dei turchi, colpo per colpo, onde impedire che minassero le mura, semicadenti, della sfortunata città.

Capitan Tempesta si avvicinò al signor Perpignano che dirigeva il fuoco dei moschettieri e gli disse:

– Fate sospendere per qualche minuto il fuoco. El-Kadur deve ritornare ai campi turchi.

– Nient’altro, signora? chiese il veneziano.

– No, ma non chiamatemi che Capitan Tempesta. Non siete che in tre soli a sapere ch’io sia; voi, Erizzo ed El-Kadur. Silenzio: potrebbero udirvi.

– Perdonatemi, capitano.

– Fate cessare il fuoco per un solo minuto. Non sarà già la rovina di Famagosta.

La duchessa non comandava più come una donna, bensì come un vecchio capitano, incanutito sui campi di battaglia, con frasi secche ed incisive, che non ammettevano alcuna replica.

Il signor Perpignano passò l’ordine agli artiglieri e agli archibugieri, mentre l’arabo, approfittando di quella momentanea tregua, si spingeva fino all’orlo del bastione accompagnato da Capitan Tempesta.

– Guàrdati dal turco, signora le sussurrò prima di scavalcare la merlatura. – Se morrai tu, morrà anche il povero schiavo, dopo averti però vendicata.

– Non temere, amico rispose la duchessa. – Conosco la terribile scuola della spada, meglio di tutti i capitani rinchiusi in Famagosta. Addio, va’, te l’ordino.

L’arabo, per la terza volta, represse un sospiro, più lungo forse degli altri due, s’aggrappò alle pietre sporgenti e scomparve nell’oscurità.

– Quanta affezione in quell’uomo, mormorò Capitan Tempesta – e forse quanto amore segreto. Povero El-Kadur! Era meglio che tu fossi rimasto per sempre nei deserti del tuo paese.

Ritornò lentamente indietro, mettendosi al riparo d’un merlo, continuando le grosse palle di pietra dei turchi a cadere sul bastione e si assise su un cumulo di sassi, appoggiando il mento e le mani sul pomo della sua spada.

Intanto le detonazioni si succedevano alle detonazioni, Artiglieri ed archibugieri coprivano la tenebrosa pianura di ferro e di piombo o di uragani di mitraglia, per fermare gli audaci minatori islamici, che si avanzavano con un coraggio più unico che raro, sfidando intrepidamente i tiri dei veneziani e degli schiavoni.

Una voce lo trasse dalle sue meditazioni.

– Sicchè, ancora nulla, capitano?

Era il signor Perpignano che si era avvicinato, dopo d’aver dato il comando agli schiavoni di non far risparmio di munizioni.

– No – rispose Capitan Tempesta.

– Sapete almeno se egli sia vivo?

– El-Kadur mi ha detto che Le Hussière è sempre prigioniero.

– E di chi?

– Lo ignoro ancora.

– Mi sembra strano che quei terribili combattenti, che non accordano quasi mai quartiere, lo abbiano risparmiato.

– È quello che penso anch’io, – rispose Capitan Tempesta – e forse è quello che mi rode più il cuore.

– Che cosa temete, capitano?

– Non lo so, eppure il cuore delle donne che amano difficilmente s’inganna.

– Non vi comprendo.

Invece di rispondere alla domanda, Capitan Tempesta si alzò, dicendo:

– L’alba fra poco spunterà ed il turco verrà sotto le mura a lanciare la sua sfida. Andiamo a prepararci al combattimento. O tornerò vittoriosa o rimarrò morta e le mie angosce saranno finite.

– Signora, – disse il tenente – accordatemi la grazia di combattere il turco. Se anche soccombessi, nessuno mi piangerebbe giacchè sono l’ultimo discendente dei conti di Perpignano.

– No, tenente.

– Il turco vi ucciderà.

Un sorriso sdegnoso sfiorò le belle labbra della fiera duchessa.

– Se io non fossi stata così forte e risoluta, Gastone Le Hussière non mi avrebbe amata – disse. – Io mostrerò ai turchi ed ai comandanti veneti come sa battersi Capitan Tempesta. Addio, signor Perpignano. Non dimenticherò mai nè El-Kadur, nè il mio prode tenente.

S’avvolse tranquillamente nel suo ferraiuolo, posò la sinistra sulla spada con un gesto superbo e scese dal bastione, mentre le artiglierie degli assediati e degli assedianti tuonavano con crescente furore, illuminando, di quando in quando, sinistramente la notte.

CAPITOLO III. Il Leone di Damasco

L’alba incominciava a sorgere, illuminando le pianure di Famagosta cosparse di rovine fumanti. Il cannone non era stato zitto un sol momento quella notte e tuonava ancora, ripercuotendosi contro le vecchie case della città assediata ed entro le strette viuzze già quasi tutte ostruite da macerie.

L’immenso campo delle orde turche a poco a poco si scopriva. Miriadi e miriadi di tende coprivano l’orizzonte, alcune altissime a tinte svariate, ma sempre smaglianti, sormontate da aste con una mezzaluna sulla cima e una coda di cavallo sotto ed altre più piccole.

In mezzo a quel caos, giganteggiava quella altissima e vastissima del vizir, il comandante in capo del formidabile esercito, tutta in seta rossa, collo stendardo verde del Profeta spiegato sulla cima, quello stendardo che bastava da solo a fanatizzare gli infedeli ed a renderli formidabili e furibondi come i leoni dei deserti arabi.

Miriadi d’uomini, chi a piedi e chi a cavallo, si agitavano sul margine dell’accampamento, facendo scintillare ai primi raggi del sole le loro armature, i loro elmetti e le loro scimitarre. Guatavano con occhi sanguinosi Famagosta, meravigliandosi che quel nido di cristiani non fosse ancora stato espugnato dopo il furioso bombardamento della notte.

Capitan Tempesta, che era tornato, dopo aver avvertito il comandante della piazza della sfida corsa fra lui ed il polacco, guardava l’accampamento dal vano di due merli sfuggiti miracolosamente alle enormi palle di pietra, che avevano coperto il bastione di rottami e di schegge.

A pochi passi, il polacco, aiutato dal suo scudiero, si faceva stringere la corazza, sagrando incessantemente perchè non la trovava mai sufficientemente a posto. Era un po’ pallido e non pareva molto tranquillo, quantunque, dobbiamo dirlo a onor suo, non fosse già la prima volta che si misurava cogli infedeli.

Il signor Perpignano, aiutato da uno schiavone, teneva invece per le briglie due splendidi cavalli di razza incrociata italiana ed araba, osservando di quando in quando minutamente le cinghie e mormorando fra sè:

– Certe volte una correggia troppo allentata può compromettere la vita d’un uomo.

Il cannoneggiamento era cessato da una parte e dall’altra. Nel campo nemico si udivano le voci dei muezzin a recitare la preghiera mattutina, che terminava sempre con una incitazione a sterminare i giaurri, ossia i cani cristiani; sugli spalti di Famagosta i veneziani facevano colazione con un po’ d’olive e qualche pezzo di pane quasi immangiabile, poichè le provviste erano diventate ormai così scarse, ed i poveri abitanti, per non morire di fame, si vedevano costretti a cibarsi di erbe cotte e di cuoio bollito.

La preghiera dei muezzin era appena terminata, quando si vide un cavaliere turco lasciare il campo e spingersi al galoppo verso le mura di Famagosta e più precisamente verso il bastione di San Marco, seguito da un soldato che reggeva un’asta portante, al di sotto della mezzaluna e della coda di cavallo, un fazzoletto di seta bianca.

Era un bel giovane di ventiquattro o venticinque anni, dalla pelle bianca, i baffi neri, lo sguardo vivo e ardente, e vestito superbamente. Attorno al cimiero aveva una pezzuola di seta rossa, arrotolata come in forma di turbante e sulla cima una lunga penna di struzzo bianca; il petto l’aveva racchiuso in una corazza lucentissima arabescata ed argentata, ai polsi portava bracciali d’acciaio e sulle spalle un lungo mantello bianco infioccato, con una larga striscia azzurra all’estremità inferiore.

I calzoni, pure di seta, erano invece ampi, alla turca e calzava stivaletti di marocchino che sparivano quasi tutti entro le larghe staffe di acciaio brunito.

Teneva in pugno una scimitarra e nella fascia che gli stringeva le reni portava un jatagan leggero, colla lama lievemente curva.

Quando giunse a trecento passi dal bastione, fece segno al suo scudiero di piantare in terra l’asta come per segnalare agli assediati che si presentava sotto la protezione della bandiera bianca e dopo d’aver fatto caracollare per qualche minuto, con maestria impareggiabile, il suo magnifico cavallo arabo, tutto bianco, con una criniera lunghissima adorna di nastri e di fiocchi, gridò con voce maschia:

– Muley-el-Kadel, figlio del pascià di Damasco, sfida per la terza volta i capitani cristiani, ad armi bianche. Se non accettano ancora io li tratterò da vili sciacalli, indegni di combattere contro i forti guerrieri della Mezzaluna.

Vengano dunque a misurarsi, uno alla volta, se hanno nelle vene del vero sangue.

Muley-el-Kadel aspetta.

Il capitano Laczinki, che finalmente si era accomodata la corazza, si fece innanzi, salì sull’orlo del bastione e con un vocione che parve il muggito di un toro rispose, sguainando nel medesimo tempo, con un gesto tragico il suo spadone:

– Muley-el-Kadel non tornerà a sfidare i capitani cristiani, perchè fra cinque minuti io lo inchioderò sul suo cavallo come una scimmia. Siamo in due che abbiamo giurato di farti la pelle, cane d’un miscredente.

– Che vengano,– rispose il turco, continuando a far caracollare il suo bianco cavallo, come per dimostrare quale abile cavaliere egli fosse, – e si misurino con me uno alla volta.

– Siamo pronti tuonò il polacco.

Poi, volgendosi verso Capitan Tempesta, che stava per salire sul proprio destriero, gli disse con una certa ironia che non isfuggì alla giovine duchessa:

– È vero che noi lo uccideremo?

– Sì, – rispose freddamente la capitana.

– Giuochiamo prima a chi tocca affrontare quel mascalzone.

– Come volete, capitano.

– Ho ancora uno zecchino in tasca: testa o croce?

– Scegliete voi.

– Preferisco la testa: sarà un buon augurio per me, pessimo pel turco. A chi toccherà la croce sarà colui che si misurerà con quel cane.

– Gettate.

Il polacco lanciò in aria lo zecchino e mandò una bestemmia.

– Croce, – disse – giuocate voi.

Capitan Tempesta prese la moneta ed a sua volta la lanciò.

– Testa disse colla sua solita voce fredda. – Tocca a voi, capitano, affrontare pel primo il figlio del pascià di Damasco.

– Lo infilerò come un gufo rispose il polacco, – Se io sbaglierò, spero che voi mi vendicherete per l’onore dei capitani di Famagosta e della cristianità, quantunque dubiti assai del vostro coraggio e del vostro braccio.

– Ah! Davvero? esclamò Capitan Tempesta, con accento beffardo.

– Non mi fido che della mia spada.

– Ed io della mia: andiamo.

Il polacco montò sul suo cavallo, la saracinesca del bastione fu alzata per ordine del comandante degli artiglieri, ed i due valorosi uscirono, galoppando per la pianura.

Tutti i difensori di Famagosta e anche gli abitanti, già avvertiti che due capitani cristiani avevano deciso di raccogliere la sfida del turco, si erano affollati sulle diroccate mura, ansiosi di assistere a quel tragico duello.

Le donne pregavano a mezza voce, invocando dalla Madonna la vittoria per i due campioni cristiani, mentre i guerrieri veneziani e schiavoni alzavano i loro elmetti ed i loro morioni di ferro sulle punte delle spade e delle alabarde, gridando a piena voce:

– Datele al turco!

– Mostrate all’infedele il valore delle spade dei capitani veneti!

– Infilzate quel prepotente!

– Viva Capitan Tempesta!

– Viva il capitano Laczinki!

– Portateci la testa dell’infedele! Viva Venezia! Viva i figli della Repubblica!

La giovane duchessa e il polacco cavalcavano l’uno presso l’altro, muovendo verso il figlio del pascià di Damasco, che li aspettava a pié fermo, provando il filo della sua scimitarra.

La prima serbava un sangue freddo ed una calma assolutamente meravigliosa in una donna. Il capitano di ventura, invece, malgrado le sue rodomontate, pareva più inquieto che mai e sagrava contro il cavallo che non gli pareva troppo ben bardato, nonostante le cure minuziose del signor Perpignano, nè sufficientemente scaldato con della biada per cimentarsi in un simile combattimento.

– Sono sicuro che questo stupido animale mi giuocherà qualche brutto tiro, nel momento in cui infilerò il turco come un gufo. Che cosa ne dite, Capitan Tempesta?

– Che mi sembra che il vostro cavallo si comporti come un vero destriero di battaglia rispose la giovine.

– Voi non ve ne intendete di cavalli; non siete un polacco.

– Può darsi rispose asciuttamente la duchessa. – Io m’intendo meglio di colpi di spada.

– Uhm! Se io non vi sbarazzassi di quella testa di legno, non so come ve la cavereste. Tuttavia farò il possibile per mandarlo all’altro mondo, per salvare, insieme alla vostra, la mia pelle, tenendoci a conservarmela il più che mi sarà possibile.

– Ah! fece semplicemente la duchessa.

– Se però mi ferirà solamente…

– Allora?…

– Mi farò islamita e diverrò un capitano turco. Per quegli imbecilli basta rinnegare la Croce e per mio conto rinnegherei anche la mia patria, pur di continuare a menar le mani e giuocare zecchini.

– Bel capitano della cristianità! disse Capitan Tempesta, gettandogli uno sguardo pieno di disprezzo.

– Sono un uomo di ventura, io e battermi per la Croce o per Maometto è tutt’uno. La mia coscienza non ci soffrirebbe affatto, – disse il polacco cinicamente, sbozzando un sorriso. – Non è così per voi, è vero, signora?

– Avete detto? chiese Capitan Tempesta, frenando il cavallo e aggrottando le sopracciglia.

– Signora ribattè il polacco. – Vivaddio, non sono un imbecille come tutti gli altri, per non essermi accorto che questo famoso Capitan Tempesta è un capitano in gonnelle.

Volevo appunto impegnare un duello con voi per squarciarvi con un buon colpo di spada, sia pure senza ferirvi, la vostra cotta d’acciaio e mostrare agli altri quale realmente siete, mia signora. Allora sì che avrebbero riso.

– O pianto? chiese la giovane duchessa con voce sibilante. – Io so uccidere e forse meglio di voi.

– Uh! Una donna?

– Ebbene, giacchè avete indovinato il mio segreto, capitano Laczinki, se il turco non vi ucciderà, dopo la tenzone noi daremo alle genti di Famagosta un altro spettacolo.

– Quale?

– Quello di due capitani cristiani che si batteranno fra di loro, come due mortali nemici rispose freddamente la duchessa.

– Sia pure, ma vi prometto, da parte mia, che essendo voi una donna, cercherò di farvi il minor male che mi sarà possibile. Mi basterà squarciarvi la cotta d’acciaio.

– Ed io farò il possibile per trafiggervi la gola, affinchè non possiate più mai divulgare il segreto sul mio vero essere e che appartiene a me sola.

– Riprenderemo più tardi questa conversazione, signora, giacchè il turco sembra impazientirsi.

Poi, dopo un momento di esitazione, aggiunse, con un sospiro:

– Eppure sarei stato felice di dare il mio nome ad una donna così audace.

La duchessa non si degnò nemmeno di rispondere e trattenne il cavallo.

Il figlio del pascià di Damasco non si trovava che a dieci passi da loro e osservava attentamente i due capitani, come per giudicare la loro forza.

– Chi è il primo che si misurerà col giovane Leone di Damasco? – chiese.

– L’Orso delle Foreste della Polonia rispose Laczinki. – Se tu hai le unghie lunghe e robuste come le belve che abitano i deserti o le selve del tuo paese, io ho la forza poderosa dei plantigradi delle mie paludi. Ti taglierò in due con un sol colpo del mio spadone.

Parve che il turco trovasse lo scherzo di suo gusto, perchè proruppe in una risata, quindi alzando la scimitarra ed estraendo colla sinistra l’jatagan che portava alla cintura disse:

– Le mie armi vi aspettano: vedremo se il vecchio Orso della Polonia avrà ragione del giovane Leone di Damasco.

Più di centomila occhi erano fissi sui due combattenti, perchè anche le immense falangi degli infedeli si erano radunate sul margine del campo, ansiose di veder la fine di quel duello cavalleresco.

Il polacco strinse colla sinistra le briglie del suo destriero, mentre il giovane turco si metteva fra i denti le sue, avendo le mani impedite, ed i due rivali si guardarono per alcuni istanti fissi, come se avessero cercato di ipnotizzarsi a vicenda.

– Giacchè il Leone non attacca, assalirà l’Orso disse finalmente il capitano Laczinki, facendo colla spada tre o quattro mulinelli. – Non mi piace aspettare troppo.

Spronò vivamente il cavallo, strappandogli un nitrito di dolore e s’avventò sul turco che lo aspettava, fermo come una rupe, coprendosi il petto e la testa colla ricurva scimitarra e con il jatagan.

Appena però si vide piombare addosso l’avventuriero, con una semplice pressione delle ginocchia fece fare al suo bianco arabo uno scarto improvviso e avventò un colpo di scimitarra così terribile che guai se avesse colto l’avversario.

Il polacco, che forse si aspettava quella sorpresa, fu pronto a parare con rapidità meravigliosa e lo incalzò subito, vibrando stoccate su stoccate.

I due cavalieri lottavano con pari bravura, coprendo nel medesimo tempo le teste dei loro destrieri, per non trovarsi, da un momento all’altro, scavalcati.

Il capitano di ventura assaliva impetuosamente, con ferocia, sagrando come era sua abitudine, per spaventare o per lo meno impressionare il turco e giurando che l’avrebbe spàccato in due come un semplice ranocchio.

La sua spada batteva con furore la scimitarra, cercando di spezzarla e qualche volta toccava la corazza; ma anche Muley-el-Kadel non risparmiava le botte ed a sua volta la sua arma scrosciava su quella dell’avversario, facendo sprizzare scintille.

Gli spettatori, di quando in quando, prorompevano in altissime grida, per incoraggiare i combattenti.

– Sotto, capitano Laczinki! gridavano dagli spalti i guerrieri veneti, quando vedevano il turco indietreggiare sotto i furibondi attacchi dell’avventuriero.

– Ammazza il giaurro! – urlavano dal canto loro le sterminate falangi degli infedeli, quando Muley a sua volta incalzava, facendo fare al suo arabo dei salti da gazzella.

Capitan Tempesta rimaneva silenzioso, immobile sul suo cavallo. Seguiva attentamente le botte e le parate, studiando soprattutto il giuoco del giovane leone di Damasco, per poterlo sorprendere nel caso che fosse stato costretto a misurarsi con lui.

Allieva di suo padre, che godeva fama di essere stata la prima lama di Napoli, città che in quei tempi contava i più famosi spadaccini e che aveva una scuola stimata da tutta l’Europa, si sentiva in grado di affrontare fermamente il turco, e di vincerlo, senza correre troppi rischi.

Intanto il duello continuava fra i due campioni, con maggior rabbia. Il polacco che contava sulla propria forza più che sulla propria abilità, accortosi finalmente che il Leone di Damasco possedeva dei muscoli d’acciaio d’una resistenza incredibile, tentò una delle tante botte segrete che s’insegnavano in quei tempi.

Fu la sua perdita. Il turco, che forse non la ignorava, fu lesto alla parata e rispose con un colpo di scimitarra così fulmineo che il disgraziato avventuriero non fu in tempo di parare. La lama lo colpì al di sopra della corazza, toccandolo alla parte destra del collo e producendogli una larga ferita.

– Il Leone ha vinto l’Orso! urlò il turco mentre centomila voci salutavano quella inaspettata vittoria con un clamore assordante.

Il polacco si era lasciata sfuggire la spada. Stette un momento ritto sulla sella, portandosi una mano alla ferita, come per arrestare il sangue che gli sfuggiva in gran copia, arrossandogli la corazza, poi rovinò pesantemente al suolo con un cupo fragor di ferraccio, rimanendo steso ed immobile accanto al cavallo che si era subito fermato.

Capitan Tempesta non aveva battuto ciglio. Levò la spada e mosse incontro al vincitore dicendogli freddamente:

– A noi due ora, signore.

Il turco guardò la giovane duchessa, con un misto di stupore e di simpatia, poi disse:

– Voi! Un fanciullo!

– Che vi darà da fare, signore. Volete riposarvi qualche istante?

– Non vi è bisogno. Mi sbrigherò presto con voi. Siete troppo debole per misurarvi col Leone di Damasco.

– Sarà pesante la spada rispose la duchessa. – Guardatevi: vi uccido!

– Sareste voi un lioncello più pericoloso dell’Orso della Polonia?

– Può darsi.

– Ditemi almeno prima il vostro nome.

– Mi chiamano Capitan Tempesta.

– Non giunge nuovo ai miei orecchi, – disse Muley-el-Kadel.

– Ed ai miei nemmeno il vostro.

– Siete un prode.

– Non lo so. Guardatevi: vi attacco.

– Vi aspetto, quantunque mi rincresca uccidere un così bel fanciullo, che ha tanta lealtà e tanta audacia.

– Vi dico di guardarvi dalla punta della mia spada. Per San Marco.

– Pel Profeta!

La duchessa, che oltre ad essere una spadaccina formidabile, era pure una amazzone impareggiabile, allentò le briglie del suo cavallo e caricò risolutamente, colla spada in linea, passando come un uragano accanto al turco.

Nel momento in cui questi si preparava a coprirsi colla scimitarra gli vibrò una stoccata in direzione della gola, onde non smussare la spada contro la corazza.

Muley-el-Kadel, che già stava in guardia, parò rapidamente, ma non interamente. La spada della intrepida fanciulla, rialzata bruscamente, lo colpì nel cimiero, il quale gli fu levato di colpo e gettato a dieci passi di distanza.

– Ecco una stoccata magnifica disse il Leone di Damasco, stupito da quella botta fulminea. – Questo fanciullo vale meglio dell’Orso della Polonia.

Capitan Tempesta continuò la sua corsa per una ventina di metri, poi, facendo fare al suo cavallo un rapido volteggio, tornò contro il turco colla spada sempre in linea, pronta a colpire.

Gli passò a sinistra, parando un colpo di scimitarra e si mise a volteggiargli intorno, spronando sempre il cavallo per imprimergli maggior velocità.

Muley-el-Kadel, sorpreso da quella manovra, aveva un gran da fare a tener fronte a quell’agile nemico. Il suo cavallo arabo, semistordito, girava sulle zampe deretane, inalberandosi, onde poter far fronte a quello del giovane capitano che pareva avesse il fuoco nel ventre.

I turchi ed i cristiani prorompevano in altissime grida, incoraggiando i loro campioni.

– Addosso, Capitan Tempesta!

– Viva il difensore della Croce.

– Uccidi il giaurro!

– Allah! Allah!

La duchessa, che conservava sempre una calma meravigliosa, a poco a poco si stringeva addosso al turco, I suoi grandi occhi neri mandavano lampi ed il suo viso si coloriva di roseo. Le sue labbra vermiglie fremevano e le sue narici si dilatavano, come aspirassero l’odore acre della polvere.

I giri diventavano sempre più stretti, mentre il cavallo arabo del turco, girando sempre su se stesso, si esauriva rapidamente.

– Badate, Muley-el-Kadel! gridò ad un tratto.

Aveva appena terminato l’avvertimento, quando la sua spada colpì il turco sotto l’ascella destra, là dove la corazza non riparava più il petto.

Muley-el-Kadel aveva mandato un grido di rabbia ed insieme di dolore, mentre fra le orde barbare s’alzava un muggito formidabile, simile al fragore che produce la marea della Manica in una notte d’uragano.

Sugli spalti di Famagosta invece, i guerrieri veneti sventolavano le bandiere ed i fazzoletti ed alzavano sulle picche e sulle alabarde i loro elmi, urlando a squarciagola:

– Viva il nostro giovane capitano! Laczinki è vendicato!

La duchessa, invece di piombare sul ferito e di finirlo come ne avrebbe avuto il diritto, aveva arrestato il cavallo, guardando con un misto di orgoglio e di compassione il giovane Leone di Damasco che faceva sforzi supremi per mantenersi in sella.

– Vi dichiarate vinto? – chiese, facendo avanzare il cavallo. Muley-el-Kadel fece atto di alzare la scimitarra per riprendere la lotta, quando le forze improvvisamente gli vennero meno.

Vacillò, s’aggrappò alla criniera del cavallo, poi cadde come era caduto il polacco, con un cupo fragore di ferraglia.

– Uccidetelo! urlarono i guerrieri di Famagosta – Nessuna compassione per quel cane, Capitan Tempesta!

La duchessa scese da cavallo, tenendo in mano la spada, la cui punta era insanguinata e s’avvicinò al turco che si era alzato sulle ginocchia.

– Vi ho vinto, – disse.

– Uccidetemi rispose Muley-el-Kadel. – È vostro diritto.

– Capitan Tempesta non uccide chi non può difendersi rispose la duchessa. – Siete un valoroso e vi dono la vita.

– Non credevo che i cristiani fossero così buoni rispose il Leone di Damasco, con voce fioca. – Grazie: non mi dimenticherò mai della generosità di Capitan Tempesta.

– Addio, signore e vi auguro di guarire presto.

La duchessa stava per dirigersi verso il proprio cavallo, quando delle urla selvagge la fermarono.

– Morte al giaurro! – urlavano parecchie voci.

Otto o dieci cavalieri turchi giungevano a corsa sfrenata, colle scimitarre alzate, per piombare addosso a Capitan Tempesta e vendicare la sconfitta del Leone di Damasco.

Un grand’urlo di furore si era alzato fra i cristiani di Famagosta:

– Vili! Traditori!

Muley-el-Kadel, con uno sforzo supremo, si era alzato, pallido, ma cogli occhi fiammeggianti d’ira.

– Miserabili! tuonò, rivolgendosi verso i suoi compatrioti. – Che cosa fate? Fermatevi o domani vi farò impalare tutti, come indegni di appartenere a guerrieri leali e valorosi.

I cavalieri si erano arrestati, confusi e spaventati. In quel momento due colpi di colubrina rimbombarono sul bastione di San Marco e un nembo di mitraglia li colpì, gettandone a terra sette insieme ai loro cavalli.

Vanusepiirang:
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Ilmumiskuupäev Litres'is:
30 august 2016
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