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Loe raamatut: «Gli ultimi flibustieri», lehekülg 8

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Capitolo IX. GLI ULTIMI FILIBUSTIERI

La filibusteria, quella formidabile repubblica di masnadieri che non sentendo né amor di patria, né sete di gloria, né ambizioni di stato, s’era rovesciata sull’America centrale, animata dal solo scopo di saccheggiare e godere, nell’epoca in cui si svolge il nostro racconto non era piú la tremenda né mobile quanto i cavalloni del mare, come veniva chiamata.

Golfo del Messico la filibusteria era morta colle ultime imprese di Montauban, con Sardau, un altro gentiluomo francese, con un biscaglino conosciuto sotto il nome di Basco e con Jonqué.

Essendoci noi prefissi di raccontare le gesta di questi ultimi corsari che diedero ancora, colle loro imprese meravigliose, un ultimo lampo di lustro alla loro società, ci occuperemo prima di questi uomini per poi passare a quelli che nell’oceano Pacifico tenevano ancora alta la fama dei Fratelli della Costa.

Le imprese di questi quattro uomini si possono considerare come le ultime, poiché dopo di loro la filibusteria scomparve dal Golfo del Messico e la Tortue che rimase pressoché deserta, in balia del primo occupante.

Montauban era salito in grandissima rinomanza colle sue audaci scorrerie

Narrasi di costui un tratto che non si aspetterebbe da parte di uomini dati con tanto furore al pubblico ladroneggio.

Una schiera di filibustieri si era impegnata, dietro un certo compenso, di condurre in salvo un bastimento spagnuolo portante un ricchissimo carico.

Durante il viaggio uno di quei corsari fa la proposta ai compagni di abbordarlo di sorpresa e d’impadronirsene.

Montauban che guidava quegli avventurieri, udendo tale proposta, ordinò di mettere una scialuppa in mare e di lasciarlo guadagnare la terra piú vicina.

I filibustieri rifiutarono energicamente, dicendo che nessuno di loro aveva approvata la proposta che gli faceva tanto orrore.

Il colpevole fu abbandonato sulla prima isola deserta che s’incontrò e tutti giurarono che un tal uomo senza fede e senza onore non avrebbe mai piú fatto parte dei Fratelli della Costa.

Il naviglio spagnuolo fu condotto in salvo e Montauban si mise a corseggiare pel golfo recando non pochi fastidi agli spagnuoli e facendo non poche prede.

I tempi però erano cambiati e l’esistenza dei filibustieri diventava giorno per giorno piú dura, non avendo ormai piú un sicuro punto d’appoggio nella Tortue diventava quasi spopolata.

Per di piú le nazioni europee che avevano interessi in America, specialmente la Francia, l’Inghilterra, la Spagna e l’Olanda, dopo un lungo guerreggiare, avevano concluso la pace, sicché i filibustieri non potevano piú ottenere patenti di corso che li facessero considerate come belligeranti.

Tutte, dopo essersi servite di quei formidabili scorridori del mare, li avevano abbandonati alla loro sorte, considerandoli come un branco di pirati degni di essere appiccati ai piú alti pennoni delle fregate.

Montauban vedendo che nelle Indie Occidentali ormai i filibustieri non godevano né protezione, né indipendenza, attraversa pel primo l’Atlantico e va a corseggiare sulle coste africane, in attesa di qualche vascello della celebre Compagnia delle Indie.

Dopo varie prede ne incontra finalmente uno di nazionalità inglese e poderosamente armato.

I filibustieri lo assaltano con grande fidanza, essendo ormai abituati alle vittorie, ed invece si accorgono di avere da fare con della gente risoluta al pari di loro.

Montauban però inspira ai suoi uomini titubanti un tale coraggio, che sebbene assai inferiori di numero, riescono finalmente ad abbordare il vascello nemico e mettere piedi sul ponte.

Il capitano inglese, vedendosi ormai perduto e non sostenendo una tale umiliazione, dà fuoco al deposito delle polveri e manda in aria tutti.

Una buona stella proteggeva certamente i filibustieri, poiché mentre tutti gl’inglesi perivano, quindici di costoro si salvavano insieme a Montauban.

Per loro mala sorte, insieme al vascello inglese era pure saltato il legno corsaro, nondimeno quei terribili uomini, dopo d’aver vagato a lungo fra i rottami delle due navi, scoprono uno schifo ancora galleggiante e si avviano verso l’Africa.

Errano sull’Atlantico per settimane e settimane, esposti ad ogni genere di patimenti, obbligati, di quando in quando, a cibarsi delle carni dei loro compagni che la fame e la miseria aveva spenti, finché toccano terra, e per un caso strano, vengono accolti amichevolmente da un principe negro che Montauban aveva conosciuto in altri tempi.

Era quel principe, famoso sulle coste della Guinea, dove aveva compiute molte arditissime imprese, ed era in quel tempo specialmente occupato a molestare i forti inglesi.

Montauban unisce le sue poche forze a quelle del principe ed espugna un forte difeso da ventiquattro cannoni, ma poi, stanco di tante scorrerie, si ritrasse in patria portando con sé una discreta fortuna, ed occupò il resto dei suoi giorni a scrivere le sue memorie.

Un altro filibustiere francese che godette in quei tempi un gran nome, fu Sardau, e facciamo specialmente menzione di lui per un singolare caso.

Dopo d’aver compiute moltissime e fortunate scorrerie, questo ardito marinaio si getta sulla Giamaica alla testa di duecentonovanta compagni per saccheggiarla.

Il caso volle che centotrentacinque dei suoi uomini rimanessero separati dalla loro nave, che un colpo improvviso di vento aveva sbalzata lungi dalle coste.

La Giamaica allora era uno stabilimento di primo ordine e munito di forte guarnigione.

I disgraziati filibustieri, abbandonati al loro destino, errano nell’interno dell’isola combattendo giorno e notte contro gli abitanti e contro le truppe.

Non avrebbero certamente potuto a lungo sostenersi contro tanti continui attacchi che giungevano da ogni parte, poiché molti di loro erano già caduti nei combattimenti, quando trovarono meravigliosamente la salvezza in uno dei piú tremendi disastri che la storia registri.

Un tremendo terremoto devasta da capo a fondo l’isola opulenta, ed in mezzo alla generale costernazione i filibustieri, che hanno le fibre piú salde, si impadroniscono di alcuni battelli e riescono a raggiungere i compagni corseggianti al largo.

Il Basco e Jonqué furono pure in grande rinomanza per certe loro straordinarie imprese.

Incrociavano un giorno dinanzi a Cartagena con tre piccoli legni, in attesa di fare un buon colpo, quando videro uscire dal porto due vascelli da guerra, i cui comandanti avevano ricevuto l’ordine di sterminare quella razza di ladri e di ricondurli in città vivi o morti.

I filibustieri del Basco e di Jonqué non si perdono per questo d’animo, e quantunque immensamente inferiori per numero d’uomini e per bocche da fuoco, assaltano arditamente le due fregate e, cosa incredibile, se ne impadroniscono dopo un combattimento durato solamente poche ore.

Presi poi quanti spagnuoli vi erano, li sbarcarono a terra con una lettera, colla quale ringraziavano il governo di Cartagena di aver mandato loro due buoni vascelli dei quali avevano estremo bisogno, avvertendolo che se ne avesse qualche altro di troppo lo avrebbero aspettato per quindici giorni, ed aggiungendo che se non lo fornisse anche d’una buona somma di denaro l’equipaggio non avrebbe avuto quartiere. E manterranno la parola; però nessun vascello si mosse ad assalirli.

I capitani Michel Brouage furono gli ultimi filibustieri che diedero ancora un po’ di splendore ai Fratelli della Costa.

Si narra di costoro che essendo un giorno in crociera dinanzi a Cartagena, s’imbatterono in due vascelli olandesi, i quali avevano caricato grandi ricchezze in quel porto.

Michel e Brouage che avevano pure due navi, ma inferiori di forze, muovono animosamente all’attacco e se ne rendono ben presto padroni.

Gli olandesi, vergognosi di aver dovuto cedere dinanzi a forze tanto inferiori alle loro, ardiscono dire a Michel che se fosse stato solo non sarebbe riuscito nell’impresa.

– Ebbene, – rispose fieramente il valoroso corsaro, – ricominciamo il combattimento mentre il mio compagno starà a guardarci.

“Se vinco, io non avrò una sola piastra, ma rimarrò padrone delle due navi.”

Gli olandesi si guardarono bene però dall’accettare la proposta, e furono solleciti a ritirarsi, per tema che tardando non venissero forzati alla prova.

Dopo questi la storia non ricorda piú famosi filibustieri nel golfo del Messico.

Rimasero però ancora, per molti anni, delle accozzaglie di disperati, impotenti a compiere le grandi imprese dell’Olonese, di Montbars, di Wan-Horn, di Michele il Basco, di Morgan e di tanti altri famosissimi.

Cessata la filibusteria nel golfo del Messico, eccola però sorgere, abbastanza potente, sull’oceano Pacifico, il quale si prestava meglio alle lunghe corse ed alle grosse catture, essendovi quei formidabili uomini quasi sconosciuti.

Nel 1684 un primo nucleo di filibustieri, guidati da un inglese chiamato David, compiono l’allora arditissimo viaggio intorno all’America del Sud, e dopo di aver girato felicemente lo stretto di Magellano, compariscono improvvisamente nell’oceano Pacifico.

Erano in ottocento, e ben risoluti di mettere a ferro e a fuoco le opulenti città del Chilí, del Perú e dell’America centrale.

Un altro corpo di duecento francesi tiene dietro a quel primo nucleo e lo raggiunge per rinforzarli.

Quando leggiamo nelle storie dei moderni navigatori, Cook, Bouganville, La Perouse, Krasenstern, e tanti altri, le grandi difficoltà che essi hanno incontrato nell’oceano Pacifico, quantunque forniti di tanti sussidii, poiché la geografia, l’astronomia e la nautica erano salite ai loro tempi ad altissimo grado di perfezione, non si può non rimanere stupiti dell’audacia incredibile di quegli avventurieri che con scarsi mezzi, con vascelli cosí sgangherati compivano imprese audacissime.

Eppure, quantunque non conoscessero affatto l’estrema America del Sud, la superarono felicemente, sfidando tempeste e scogliere ed eccoli comparire improvvisamente, quando meno gli spagnuoli se l’aspettavano, nel grande oceano.

Un altro corpo d’inglesi, composto solamente di centoventi uomini, ardí frattanto concepire il disegno di scendere verso l’oceano Pacifico attraversando per terra l’America centrale dal Golfo d’Uraba al fiume Chica, e poco dopo quattrocento francesi li seguono, risoluti a vedere almeno da lontano le torri merlate dell’opulenta Panama.

Alcune altre piú piccole schiere osarono altrettanto, ma noi non seguiremo le tracce di tutti costoro, che troppo lungo sarebbe narrare le ardite imprese che tentarono ed i disastri ai quali dovettero per la maggior parte andare incontro, poiché gli spagnuoli vegliavano dovunque.

Ci limiteremo a parlare del grosso dei filibustieri che aveva passato lo stretto di Magellano con una flottiglia di dieci bastimenti, cioè di due fregate, una di trentatré e l’altra di sedici cannoni, di cinque legni minori senza grossa artiglieria e di tre barcaccie che tenevano appena il mare.

Erano inglesi, francesi ed olandesi, e fra tutti sommavano a mille cento uomini, ai quali piú tardi si aggiunsero quei piccoli gruppi che avevano attraversato l’America centrale per via di terra.

Un inglese, di nome David, fu il capo di quella grossa spedizione.

Il primo incontro di quella flottiglia, navigante ormai liberamente verso settentrione, fu di un bastimento spagnuolo che tosto predarono.

Avendo inteso dagli uomini caduti nelle loro mani che dei legni mercantili avevano avuto l’ordine dal viceré del Perú di non abbandonare i porti della costa fino a tanto che una squadra non avesse purgato l›oceano Pacifico dai filibustieri, David ed i suoi tirarono egualmente innanzi, risoluti a dare la caccia ai famosi galeoni che lo spento impero degli Incas mandava sempre numerosissimi a Panama.

La loro improvvisa comparsa dinanzi alla regina dell’oceano Pacifico mette in grande ansia gli spagnuoli, memori dei disastri in addietro subiti da parte di quella terribile razza di ladroni.

Se David avesse osato, un’altra volta Panama avrebbe subito un orribile saccheggio, ma il coraggio gli mancò e dopo d’aver incrociato per quattro settimane in vista delle città, condusse la sua flotta all’isola di Taroga, allora quasi deserta.

Ecco però che quasi subito compariscono sette navi da guerra, due delle quali portavano nientemeno che settanta cannoni ciascuna.

Il Mare era tempestoso e niuna proporzione vi era fra le forze spagnuole e quelle del filibustiere, essendo queste immensamente inferiori.

Inoltre questi ultimi non conoscevano i bassifondi dell’isola, né avevano tanta artiglieria da opporre a quella nemica.

I filibustieri, come sempre non si perdono d’animo ed impegnano furiosamente la lotta, quantunque quasi certi di una sicura distruzione, e liberano prontamente le loro due fregate in procinto di essere catturate, riportando in poche ore una vittoria inaspettata.

Sfortunatamente dopo il fuoco delle artiglierie il mare entra in scena, disperde i legni vittoriosi e molti sono trascinati lontani su terre poco note e naufragano.

Quella flottiglia che avrebbe potuto far tremare Panama, si sciolse. I francesi, con a capo un certo Grognier, vanno a stabilirsi sull’isola di San Giovanni di Pueblo, mentre David continua le sue scorrerie sul mare con crescente fortuna.

Le imprese di queste due schiere di filibustieri sono incredibili.

Prendono d’assalto Leon ed Esparso, abbruciano Ralejo dopo d’averla saccheggiata, s’impadroniscono di Puelbo-Viejo, di Granata, città grandiosa ed opulenta, di Villia, lontana ben trenta leghe da Panama, poi di Guayaquil, l’opulenta città Nicaragua.

Malgrado tante fortunate spedizioni, molti anelavano di ritornare nel Golfo del Messico, dove si trovava la culla della filibusteria.

David, che possiede sempre la sua fregata, è il primo che si decide, indebolendo cosí fortemente quelli che ancora rimanevano nell’oceano Pacifico.

Aveva costui svaligiati parecchi vascelli spagnuoli e fatti vari sbarchi a Pisco, ad Arica, a Sagra ed in altri luoghi, quindi si trovava ormai abbastanza ricco per lasciare quel pericoloso mestiere.

Egli prende risolutamente la via del sud per riattraversare lo stretto di Magellano.

Già stava per toccarlo, quando i suoi uomini lo obbligano a tornare indietro. Durante la lunga navigazione avevano giuocato, malgrado che leggi dei Fratelli della Costa proibissero il giuoco a bordo delle navi, e non volevano tornare in patria spogli di tutto.

Incontrato però un vascello condotto da un certo Wilnet, tutti quelli che avevano guadagnato vi si imbarcarono, sicché a David non erano piú rimasti che settanta inglesi e venti francesi.

Tuttavia ritornò nelle acque di Panama accolto con gioia da coloro che erano rimasti sulle coste del Pacifico.

Frattanto un altro gruppo di cinquantacinque uomini tenta pure il ritorno al Golfo del Messico, e si narrano di costoro delle avventure meravigliose.

Possedendo un piccolo vascello e per di piú assai sdruscito, avevano concepito l’idea di spingersi fino sulle coste della California e di là tentare la traversata per terra attraverso l’impero Messicano.

Un uragano li scaraventa su un gruppetto d’isolette deserte chiamate le Tre Marie, non molto lontane dalla Costa Californiana.

Quei miserabili non possedevano piú nulla e le terre non avevano di che nutrirli, eppure vi si mantennero quattro anni sfidando tutti gli orrori dell’estrema miseria.

Finalmente la disperazione li trae da quel miserabile rifugio, su cui non avevano trovato per tutto pasto che qualche radice e delle conchiglie. Avevano accomodata alla meglio la nave, ma non possedevano per viveri altro che un certo pane formato con la polvere dei gusci di conchiglie!

Fidenti nella loro sorte, scendono verso il sud e raggiungono le coste di Guayaquil dove speravano di trovare i loro antichi compagni.

Essendo questi partiti per altre spedizioni, quei disgraziati che si vedono dovunque minacciati dagli spagnuoli e dagl’indiani che impediscono loro di scendere a terra per provvedersi di viveri, concepiscono l’incredibile disegno di raggiungere lo stretto.

Per duemila miglia spingono innanzi il loro misero legno, continuamente lottando coi venti contrari e soffrendo fame e sete quanto uomo possa mai immaginare.

Ma sopra ogni altra cosa era per essi intollerabile affanno il pensare che dopo tanti patimenti e pericoli ritornavano senza una verga d’argento, poiché tutto avevano perduto.

Avevano già raggiunto dopo tante fatiche e tante lotte, lo stretto, quando deliberarono di tornare indietro e di raggiungere le Coste del Perú, colla speranza di fare qualche preda.

La fortuna è con loro, poiché avendo per caso saputo che ad Arica stava all’âncora un vascello carico di verghe d’argento del Potosí, entrano furiosamente nel porto, lo prendono d’assalto sotto gli occhi della popolazione terrorizzata, e se lo portano via.

Il carico era di due milioni di piastre.

Diventati di colpo ricchi, e credendosi ormai largamente ricompensati dalle tante miserie passate, riprendono la via dello stretto col loro nuovo vascello e vi fanno naufragio, però riescono a salvare l’intero carico.

Ricostruitosi un legno cogli avanzi di quello naufragato, quegli uomini infaticabili attraversano finalmente lo stretto, e dopo una lunga e penosa navigazione salutano le superbe isole del golfo del Messico e vi si stabiliscono, chi a San Domingo, chi alla Giamaica.

Erano però rimasti ancora nell’oceano Pacifico duecento e ottantacinque filibustieri, parte annidati a Taroga e parte presso Guayaquil, e che altro non chiedevano che di andarsene a loro volta e di disperdersi, essendo ormai diventato il corseggiare quasi impossibile in causa delle numerose squadre spagnuole sempre sull’allerta.

Di questo nucleo, l’ultimo, poiché dopo non si parlò piú né sulle coste del Pacifico né nelle acque del golfo del Messico di filibustieri propriamente detti, ci occuperemo fra breve.

Capitolo X. ALL’ARREMBAGGIO DEL GALEONE

Raveneau de Lussan, malgrado i sei anni passati alle isole fra continui combattimenti, continue ansie e miserie senza fine, aveva conservato il suo inalterabile buon umore del gentiluomo francese, sicché l’accoglienza fatta a Buttafuoco, a Medonza ed al guascone fu una delle piú cordiali.

– Il cuore mi diceva, – disse loro, dopo di averli fatti passare sulla sua piroga e di averli abbracciati, – che un giorno in qualche angolo del mondo vi avrei riveduti. Peccato che con voi non vi sia anche quel bravo conte di Ventimiglia.

“Ah!… Come l’avrei riveduto volentieri!…”

– Mio caro, – rispose Buttafuoco, – egli è troppo felice colla marchesa di Montelimar e non lascerà certamente il suo magnifico castello di Ventimiglia.

“Se però non è venuto lui abbiamo condotto qui sua sorella.”

– Chi? – chiese Raveneau, con stupore. – La nipote del Gran Cacico del Darien?

– Sí, amico.

– E dove si trova? Io non la vedo fra voi.

– Se fosse ancora con noi, forse non ci avresti riveduti cosí presto.

– Spiegati meglio, Buttafuoco.

– Noi siamo qui venuti a chiedere l’appoggio dei filibustieri del Pacifico per liberare ancora una volta la señorita Ines di Ventimiglia.

– Ben detto, – disse il guascone.

– Per Dio!… Ve l’hanno presa?

– Il marchese di Montelimar ce l’ha ritolta.

– È dunque innamorato pazzamente di quella fanciulla?

– Delle sue immense ricchezze, mio caro Raveneau. Non hai saputo dunque che il Gran Cacico del Darien è morto?

– Come vuoi che gli avvenimenti che succedono dall’altra parte dell’istmo giungano fino a noi che siamo come isolati in mezzo al mondo? Sicché la señorita è sbarcata in America per recarsi al Darien a raccogliere le favolose ricchezze di suo nonno?

– E come vedi non ha avuto fortuna, perché appena giunta in Panama è rimasta nelle mani del suo nemico, il quale aspira da anni ed anni, con una pazienza incredibile, di mettere le mani lui su quei tesori, colla scusa che è stato lui ad allevare la contessina ed a mantenerla in casa sua per sedici anni.

– E si trova a Panama?

– Sí, amico.

– Ebbene tu giungi in un cattivo momento, mio caro Buttafuoco.

“Tutte le altre partite di filibustieri che possedevano qualche nave hanno preso la via del sud e non siano rimasti che in duecento e ottantacinque fra i quali non pochi malati che saremo costretti ad abbandonare, e quello che è peggio non possediamo che delle piroghe sgangherate.

“Come vorresti tu che io lanciassi quest’orda di disperati contro Panama che oggi è quasi imprendibile?

“I bei tempi di Morgan sono ormai passati.”

– Noi non domandiamo tanto, mio caro Raveneau. Tu mi hai detto che se non possedete dei vascelli non vi mancano gli schifi e le piroghe.

“Gli ultimi filibustieri non sarebbero piú capaci, con tali mezzi, di abbordare un galeone?”

– Che cosa dici, Buttafuoco? Noi, appunto perché siamo gli ultimi, saremo i piú terribili e non avremo certamente paura di abbordare una nave, per quanto grossa sia.

“Spiegati però meglio, perché di tutto questo affare non ho capito che una cosa sola: che si tratta di liberare la señorita di Ventimiglia.”

– Ed è per questo che noi siamo venuti ad invocare l’aiuto dei Fratelli della Costa che tanto hanno dovuto ai corsari italiani.

“Fra cinque o sei giorni, salvo errore, una nave salperà da Panama per trasportare la señorita alla baia di David.”

– E cosí? – chiese Raveneau.

– Non si tratta che di assalirla e di togliere agli spagnuoli la fanciulla.

– È tutto qui?

– No, – riprese Buttafuoco. – Che cosa fate voi altri nell’oceano Pacifico ora che tutti gli altri vostri compagni sono partiti? Che cosa aspettate? Che qualche poderosa squadra spagnuola venga a snidarvi e a cacciarvi tutti in mare?

Raveneau de Lussan guardò a lungo il gentiluomo francese, socchiudendo a piú riprese gli occhi, poi disse:

– Sai dove andavamo ora con la nostra piroga?

– No, davvero.

– Verso la costa per cercare delle informazioni che ci sarebbero necessarie per passare definitivamente sul continente.

“Sono sei anni che viviamo sulle isole sempre in lotta colla fame e cogli spagnuoli ed abbiamo ormai fermamente deciso di lasciare anche noi per sempre l’oceano Pacifico.”

– E quale via terrete?

– Quella del Darien probabilmente, – rispose Raveneau.

– Se si offrisse ai tuoi uomini qualche milione di piastre da prelevarsi sull’eredità del Gran Cacico a condizione di aiutarci nella nostra impresa?

– Io credo che si getterebbero anche sulle calate di Panama.

– Noi dunque possiamo contare assolutamente su dite?

– Non solo, ma anche ti ringrazio di essere venuto a scovarmi perché questa storia delle favolose ricchezze del Gran Cacico deciderà completamente i miei uomini a passare sulla costa.

“Tu mi hai detto che il galeone andrà a gettare le ancore alla baia di David?”

– Sí, amico, – rispose Buttafuoco.

– Ebbene noi domani lasceremo la nostra maledetta isola ed andremo ad aspettarlo in vista di quel porto.

Si volse verso i suoi uomini e disse:

– Affrettate le battute, camerati; ho molta fretta di rivedere l’isola

La piroga, una discreta imbarcazione, ancora in ottimo stato, armata d’un cannone collocato a prora, volava sulla acque dell’oceano il quale quel giorno era veramente Pacifico.

Il guascone e Mendoza avevano pure preso un remo ciascuno per accelerare la ritirata.

Due ore dopo Taroga era in vista. L’isola, quasi sterile, emergeva come un enorme cetaceo sul mare, essendo molto lunga e molto stretta.

Da sei anni gli ultimi filibustieri vi si erano annidati, trovandosi essa sulle rotte tenute dalle navi che dalla California e dal Messico si recavano a Panama a portare i ricchi tributi d’oro e d’argento strappati ai poveri indiani.

Il ritorno della piroga con Buttafuoco, Mendoza e don Barrejo, fu salutato con gioia da parte di quei terribili avventurieri, essendo quei tre nomi sempre notissimi nella filibusteria.

Raveneau de Lussan che amava le cose spicce, condusse i suoi amici nella sua capanna, una catapecchia formata di vecchie tele e di avanzi di navi, e offrí subito loro una discreta colazione a base di carne di tartaruga, essendo quell’isola molto frequentata da quei rettili, poi mentre li lasciava riposare, si recò ad informare i capi piú influenti di quella turba di disperati di quanto era stato proposto da Buttafuoco.

Come aveva previsto nessuno mosse delle obbiezioni. Tutti erano stanchi di quella vita di miserie, trascorsa sotto un sole ardente, che li arrostiva vivi, e sospiravano da lunga pezza le grandi foreste profumate del continente.

Ormai non avevano piú nulla da fare nel Pacifico. Le navi spagnuole si tenevano lontanissime e le coste erano guardate da turbe di soldati e d’indiani sempre pronti a rigettare in mare quel pugno d’uomini.

E poi la nostalgia del bel golfo del Messico, la culla delle loro glorie, da parecchio tempo li affliggeva e li consumava di desiderio.

Fu dunque deciso, seduta stante, lo sgombro dell’isola e la partenza pel continente.

Durante la giornata furono fatti i preparativi per la grande spedizione, che poteva durare mesi e mesi attraverso le alte montagne e le sconfinate foreste dell’istmo.

I filibustieri, che già da vario tempo maturavano il disegno d’andarsene, prima che qualche grossa squadra spagnuola li sorprendesse e li massacrasse tutti, come molti lustri prima era avvenuto a San Cristoforo, si erano già procurate delle preziose informazioni, strappate col terrore ai pescatori della costa, però non erano sufficienti.

La strada piú spedita sarebbe stata quella di Segovia-Nuova, città dipendente dal governo di Nicaragua, posta a settentrione del lago omonimo, a quaranta leghe dall’oceano Pacifico ed a venti da un grosso fiume, il quale si sapeva che doveva scaricarsi nel golfo del Messico verso il capo Gracias de Dios.

Quelle notizie non erano certamente molte, però per uomini risoluti come erano i filibustieri, potevano fino a un certo punto bastare.

Alla sera, Raveneau de Lussan, dopo d’aver visitate tutte le piroghe che potevano ancora tenere il mare e aver fatto gettare in acqua le artiglierie che non potevano trasportare e che non volevano cadessero nelle mani degli spagnuoli, radunò i suoi uomini per la divisione del bottino, dovendo d’ora innanzi ognuno incaricarsi di difenderlo per proprio conto.

Narra nelle sue memorie Raveneau de Lussan, che era rimasto nella cassa comune oltre mezzo milione di piastre.

L’argento fu diviso a peso, ma fu una questione molto difficile la divisione e la e la valutazione delle verghe d’oro, delle perle, degli smeraldi e d’altre gioie.

Trovarono però una pronta soluzione mettendo tutti gli oggetti preziosi all’asta, sicché si videro degli uomini che possedevano troppo argento guadagnato al giuoco, pagare un’oncia d’oro perfino cento piastre! Altrettanto fu pei gioielli, i quali, sotto un piccolo volume, conservano un gran valore facile a trasportarsi.

L’indomani, ai primi albori, i duecento ottantacinque filibustieri lasciavano Taroga su otto piroghe armate ciascuna d’un pezzo d’artiglieria e muovevano risolutamente verso il continente, coll’intenzione di incrociare prima d’innanzi alla baia di David, per attendere il galeone che doveva trasportare la contessina di Ventimiglia.

L’oceano, quasi volesse almeno una volta mostrarsi clemente contro quei disgraziati, che avevano già provato troppo le sue collere terribili, era calmo e liscio quasi come uno specchio.

Solamente verso ponente la brezza corruscava le acque, dando loro degli strani riflessi che i raggi del sole rendevano talora purpurei.

Nessuna vela appariva all’orizzonte. In alto invece strepitavano branchi di grossi uccelli marini, specialmente di rompitori d’ossa e d’albatros raglianti come asini.

– To’, – disse il guascone, che da trentasei ore aveva ben poco chiacchierato. – Non trovi tu, Mendoza, in questa grande calma un segno di felice augurio per la spedizione?

– Eh, mio caro, non siamo ancora a casa e tu non sei ancora nella cantina della taverna d’El Moro ad assaggiare i vini con tua moglie.

– Mia moglie!… Parola d’onore che me l’ero scordata.

– Di già?

– Don Barrejo era nato per fare l’avventuriero e non per piantare su casa, né taverne, tonnerre!… – rispose il guascone, che manovrava un remo dietro al Basco. – Ero forse piú felice quando abitavo il mio stambugio collocato sotto il tetto, dove tu ed il conte di Ventimiglia siete venuti a svegliarmi.

– Allora non eri che un armigero al soldo della Spagna, mentre ora sei padrone di una taverna e, quello che è piú importante, ben fornita.

– Purché mio cognato non me la vuoti durante la mia assenza – disse il guascone, ridendo.

– Lascia che beva, compare. Che cosa andiamo a fare noi al Darien? A raccogliere oro a palate.

“Non sai che laggiú i ragazzi delle tribú giuocano alla palla con delle pepite che varrebbero mille lire nelle mani d’un ladro?”

– Chi te lo ha detto?

– Tutti lo sanno, – rispose Mendoza.

– Avranno d’oro anche tutti i loro utensili allora.

– Sicuro, compare. Cucinano rospi, serpenti, patate e pesci dentro pentole d’oro.

– È il paese della cuccagna, quello?

– Lo sa bene il marchese Montelimar. Non avrebbe certamente aspettato tanti anni per realizzare il suo sogno.

– Il Corsaro Rosso ha fatto un magnifico affare sposando l’unica figlia del Gran Cacico del Darien. Parola di guascone che l’avrei sposata anch’io invece di Panchita.

– Non so però se l’abbia presa per amore, quantunque si dicesse che era la piú bella fanciulla indiana dell’America centrale, – disse Mendoza.

– L’hanno costretto forse?

– Mio caro, in quell’epoca al Darien si usava mettere allo spiedo i prigionieri che l’oceano regalava.

“Pietro l’Olonese, uno dei piú famosi filibustieri che siano mai esistiti, non è stato forse mangiato da quei selvaggi, dopo essere stato cucinato dentro un’enorme pentola d’oro massiccio? Altrettanto sarebbe successo forse al Corsaro Rosso, se la figlia del Grande Cacico non lo avesse trovato bello.”

– Troveremo ancora il pentolone che ha servito a cucinare l’Olonese? Sarebbe un magnifico ricordo, – disse don Barrejo.

– È probabile, – rispose il basco, ridendo. – Che cosa vorresti farne tu?

– Tonnerre!… Tu non ci vedi dentro agli affari, mio caro. Lo metterei nella mia taverna o nel mio futuro albergo per attirare gente.

“Guarda che cosa salta fuori da queste chiacchiere! Albergo della pentola d’oro, dove è stato cucinato Pietro l’Olonese.”

– Ti ci vorrebbe la facciata intera d’una casa per scrivere tutta questa roba.

Vanusepiirang:
12+
Ilmumiskuupäev Litres'is:
30 august 2016
Objętość:
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Õiguste omanik:
Public Domain

Selle raamatuga loetakse