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Loe raamatut: «Il figlio del Corsaro Rosso», lehekülg 22

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Il Valiente non rispose. Pareva che colla mano sinistra tesa all’indietro cercasse qualche cosa.

Per alcuni istanti ancora fu un continuo grandinare di colpi, poi il bandito fece un ultimo salto indietro che lo portò addosso alla duna.

– Ora non mi scapperai piú! – gridò il conte. – Recita l’Ave Maria.

– Eccola, – rispose il bandito.

Si era voltato con una mossa fulminea e raccolta una grossa manata di sabbia l’aveva lanciata contro il viso del Corsaro, tentando di acceccarlo.

– Bandito! – urlò il conte, il quale, accortosi dell’intenzione del miserabile, si era riparati gli occhi col suo ampio feltro. – Non avrò alcuna misericordia di te!

Attaccava nuovamente.

Il Valiente ancora una volta sfuggí all’urto, saltando di fianco, poi si abbassò tutto, raggomitolandosi quasi su se stesso.

– Il colpo delle cento pistole, – disse il conte, mettendosi in guardia di seconda. – Lo conosco, miserabile, e non sarà la tua spada che mi passerà il petto.

Il brigante mandò un vero ruggito.

– Eppure bisogna che vi uccida, – disse poi, con voce rauca. – Io l’ho promesso a don Juan de Sasebo ed al marchese di Montelimar. Se mancassi all’impresa sarebbero capaci di farmi appiccare.

– Il marchese di Montelimar! – gridò il conte. – Tu l’hai veduto?

– Come vedo voi ora.

– Dove?

– Dal Consigliere.

– Tu menti!

– Sarò un furfante, ma non un mentitore. Il marchese è qui, perché è scappato da Taroga. Badate!

A sua volta si era slanciato furiosamente, vibrando quattro stoccate, una dietro l’altra. Stava per tirarne una quinta, quando cadde, mandando un grido.

La spada del conte l’aveva colpito alla gola, affondandovi dentro per parecchi centimetri. Rimase un momento quasi diritto, colle braccia aperte, poi ruzzolò pesantemente fra le sabbie, mormorando:

– Sono finito.

Il conte aveva ritirata prontamente la spada.

– L’hai voluto, – gli disse.

– Sono… morto… – barbugliò il miserabile. – Alzatemi… la testa… il sangue… mi soffoca… ve ne prego…

Il conte si curvò sul moribondo per alleviargli le sofferenze, quando si sentí afferrare per una mano strettamente e colpire. Il bandito aveva estratto la misericordia ed aveva vibrato un colpo in direzione del cuore, squarciando la casacca del conte e anche le carni.

– Sono… vendicato, – disse con un soffìo di voce.

– Canaglia! – aveva gridato il conte, sentendosi bagnare una mano da alcune goccie di sangue. Riafferrò la spada e la immerse nel petto dell’assassino per ben due volte.

Erano stoccate inutili, poiché Il Valiente era ormai morto.

– Traditore! – mormorò il conte. – Marchese di Montelimar e anche voi, don Juan de Sasebo, me la pagherete.

Si aprí il giustacuore, lacerò la camicia e si guardò la ferita. Brillando splendidissima la luna, poteva giudicare, anche senza torcia, il colpo vibratogli dal brigante.

– Bah! – disse. – Non mi pare che sia cosa grave. Cerchiamo di raggiungere i miei spadaccini, se anche essi non sono stati assaliti. So dove si trova la lanterna: vedremo se si troveranno là.

Si mise sulla ferita il fazzoletto per arrestare il sangue, si riabbottonò strettamente il giustacuore, armò le pistole che portava nascoste sotto la fascia e, dopo essersi orizzontato, si mise a seguire l’alta duna, senza nemmeno degnare d’uno sguardo il bandito.

La notte era magnifica. L’oceano scintillava, riflettendo i raggi dolcissimi dell’astro notturno; la risacca muggiva e rimuggiva, senza produrre troppo fracasso e dal largo soffiava una brezza fresca e vivificante.

Il Corsaro, temendo che il bandito avesse dei compagni nascosti fra le dune, affrettava il passo, tenendo la spada sguainata, per essere piú pronto a respingere un qualche improvviso attacco. La lanterna di Granata, destinata ad indicare ai naviganti l’entrata del porto verso la scogliera di ponente, scintillava vivamente, quindi il corsaro non poteva ingannarsi sulla direzione da tenere.

Lo inquietava però profondamente il dubbio che anche i suoi spadaccini fossero stati assaliti da qualche banda di masnadieri.

Camminò per circa mezz’ora, seguendo le dune e giunse finalmente nei dintorni dell’altissima costruzione che rassomigliava ad una torre, sulla cui cima brillava la grossa lanterna.

Vide subito tre ombre ritte sulla spiaggia, occupate, a quanto pareva, a raccoglier frutta di mare.

Alzò la voce:

– Mendoza!

Un triplice grido rispose:

– Il signor conte!

I tre spadaccini balzarono lestamente sopra le dune e lo raggiunsero.

– Non siete stati assaliti? – chiese il conte, con stupore.

– No, signore, – rispose il guascone.

– Mi pare impossibile!

– Eppure non abbiamo fatto altro che divorare ostriche; senza essere disturbati. L’avete trovata vostra sorella?

– Sí, sotto forma d’un colpo di misericordia che per poco non mi spaccava il cuore. Guardate!

Si aprí il giustacuore e mostrò loro il fazzoletto bagnato di sangue.

– Per la mia morte! – gridò il guascone. – Me l’ero immaginato che vi avrebbero teso un agguato.

– Signor conte, – disse Mendoza, con voce commossa. È grave la ferita?

– Non mi pare.

– È necessario medicarvi subito, – disse il guascone.

– La fonda è troppo lontana, – disse il fiammingo.

– V’è la lanterna, – rispose il guascone. – Andiamo a chiedere ospitalità al guardiano. Se rifiuterà lo getterò giú dalla torre. Venite, don Ercole.

Mentre Mendoza si strappava una manica della camicia, per arrestare al conte il sangue, il quale non cessava di sgorgare, i due avventurieri si slanciarono verso la porta della lanterna, picchiando fragorosamente coi pomi delle loro spade.

Una vociaccia rauca venne dall’alto.

– Chi siete e che cosa volete?

– Aprite subito, – rispose il guascone. – Abbiamo raccolto un naufrago e pare che stia per morire.

– Portatelo a Panama. Qui non vi sono medici.

– Farò io da medico. Aprite subito o getteremo giú la porta.

– Aspettate un momento.

Mezzo minuto dopo il fanalista comparve, tenendo in mano una torcia. Era un vecchio marinaio dalla lunga barba bianca, ancora molto robusto, col volto quasi annerito dai venti del mare e dai grandi calori equatoriali.– Che cosa volete dunque, voi? – chiese con voce brusca.

– Il vostro letto, – rispose il guascone.

– Ed io?

– Andrete a dormire a casa del diavolo, D’altronde noi vi pagheremo largamente.

La fronte rugosa del fanalista si spianò, udendo parlare di compensi.

In quel momento giunse il conte, il quale s’appoggiava al braccio di Mendoza.

– Dov’è questo naufrago? – chiese il guardiano del faro.

– Eccolo, – rispose il guascone indicandogli il conte.

– Ma le sue vesti sono piú asciutte delle mie!

– Sotto sono però bagnate di sangue.

– Si tratta d’un ferito, allora.

– Basta, fate lume e guidateci nella vostra stanza.

Il guardiano salí la scaletta, brontolando e si fermò al secondo piano del faro, introducendoli in una stanzetta la quale non conteneva che un letto ed un paio di cassettoni sgangherati.

– Lasciate questa torcia e tornate alla vostra lanterna, – disse il guascone. – Se avremo bisogno di voi vi chiameremo, e voi, don Ercole, andate a tenergli compagnia. Pel momento la vostra spada non è necessaria.

Mendoza ed il guascone tolsero al conte la giubba, il giustacuore e la camicia e osservarono attentamente la ferita.

In quell’epoca cosí ricca di guerre, tutti gli spadaccini erano un po’ medici e sapevano fare delle fasciature e curare benissimo delle stoccate.

Con un solo sguardo il basco ed il guascone s’avvidero che la lama della misericordia non aveva prodotto gran che di male. La punta però aveva tagliate le carni per una lunghezza di cinque o sei centimetri ed in prossimità del cuore.

Il bandito aveva tirato giusto il suo colpo: se la sua mano fosse stata piú ferma avrebbe spacciato il conte.

– Niente di grave, è vero, amico? – chiese il signor di Ventimiglia. Molto sangue e nient’altro.

vero, signore, – rispose Mendoza. – È stato un colpo di pugnale.

– Sí, datomi quando l’assassino era stato toccato.

– Chi credete che abbia ordito l’agguato?

– Il marchese di Montelimar, d’accordo col Consigliere.

– Ma se il marchese è a Taroga? – disse il guascone.

– Vi era, volete dire, perché ora si trova qui.

– Tonnerre!

– È scappato!

– Chi ve lo ha detto?

– L’assassino, prima di morire.

Che vi abbia ingannato? – chiese Mendoza, il quale fasciava intanto la ferita con un pezzo di lenzuolo trovato in un cassettone.

– Non credo. D’altronde non aveva alcun motivo di tenermelo nascosto o d’ingannarmi.

Allora bisogna riprenderlo, – disse don Barrejo.

Senza di lui non potrò mai sapere dove quei dannati hanno nascosta mia sorella. E lui od il Consigliere devono cadere nelle nostre mani. Essi hanno preparato un agguato a me, e noi ne prepareremo uno a loro.

– Noi siamo sempre pronti, è vero, Mendoza? – disse il guascone.

– Anche a dar fuoco a Panama, – rispose il basco, il quale aveva terminata la fasciatura.

– Dovremo però agire colla massima cautela, – disse il conte. – Domani, giacché la mia ferita non presenta alcun pericolo, torneremo alla fonda della Castigliana e studieremo sul da farsi. Conto specialmente su di voi, don Barrejo, che possedete una fantasia cosi ricca di trovate.

– Mi occuperò di questo affare, signor conte.

– Intanto occupiamoci di un altro piú pressante, – disse in quel momento il fiammingo, entrando.

– Che cosa c’è dunque d’urgente? – chiese il conte.

– Mi dispiace darvi una brutta nuova, signore, – rispose il fiammingo.

– È caduto giú dal faro il guardiano? – chiese il guascone.

– S’avanza un grosso gruppo di soldati attraverso alle dune.

– Tonnerre! – esclamò don Barrejo.

– Vengono a prendere voi, – disse il conte, – Mi pareva impossibile che il marchese ed il Consigliere vi lasciassero tranquilli. A me lo spadaccino ed a voi le guardie.

– Scappiamo, – disse Mendoza.

– Non potremo, – rispose don Ercole. – Il drappello si è diviso e s’avanza da due opposte direzioni, per prenderci in mezzo.

– E poi il signor conte è debole e non potrebbe resistere ad una lunga corsa, – aggiunse il guascone. – Io però ho un’idea. Don Ercole, sono ancora lontani?

– Un migliaio di passi e mi è parso che non abbiano molta fretta da avanzarsi.

– Perdinci!… Che occhi che hanno i fiamminghi! – esclamò don Barrejo. – Vincono quelli dei guasconi.

– Fuori la vostra idea, don Barrejo, – disse il conte. – Non abbiamo tempo da perdere.

– Voi, Mendoza, andate a vedere se la porta del pianterreno è ben chiusa; voi, signor conte, rimanete pure qui, anzi fareste bene a coricarvi un po’, e voi, don Ercole, venite sulla lanterna. Io rispondo di tutto.

Uscirono e salirono rapidamente la scaletta esterna che girava in forma di spirale intorno alla torre, giungendo ben presto sotto la cupoletta dove brillava una grossissima lanterna con vetri.

Il fanalista stava seduto in un angolo della terrazza, occupato a fumare la sua grossa pipa.

– Dove sono? – chiese il guascone a don Ercole.

– Eccolo laggiú, il primo drappello.

Il guascone guardò nella direzione indicata e vide infatti, a circa ottocento passi dal faro, avanzarsi una minuscola colonna, composta da non meno di due dozzine d’uomini.

Seguiva la spiaggia lungo le dune.

Brillando sempre la luna, non era possibile ingannarsi, poiché le corazze, gli elmetti, gli archibugi e le alabarde scintillavano vivamente.

– Segue le dune di settentrione.

– Vogliono proprio prenderci in mezzo. Ah!… La vedremo. Quando si è un po’ furbi, si può sempre sfuggire ai pericoli.

Armò una pistola, si levò da una tasca una manata di piastre e s’avvicinò al guardiano, il quale, tutto immerso nel gustare il suo tabacco, non si era nemmeno degnato di voltarsi, pur avendoli uditi a salire.

– Vecchio mio, scegli, gli disse il guascone, mostrandogli l’arma da fuoco ed il denaro. Vuoi piombo o argento?…

– Che cosa volete? – chiese il guardiano, balzando in piedi e lasciando cadere la pipa. – Assassinarmi forse?

– Niente affatto, anzi vi offro un buon gruzzolo di piastre, però voi dovete ubbidirmi senza perdere un solo istante. Se rifiutate, allora non rispondo della vostra vita.

– Dite, – rispose il vecchio, spaventato.

– Innanzi tutto spogliatevi del vostro vestito bigio, che mi è assolutamente necessario.

– E poi?

– Lasciatevi legare sotto il vostro letto.

– Volete portar via o guastare la lanterna?

– Non sapremmo che cosa farne di questo grosso fanale. Sbrigatevi, o invece delle piastre vi caccio una palla nel cervello.

– Scelgo le piastre, – disse il guardiano, dopo una breve esitazione. – D’altronde una resistenza da parte mia sarebbe impossibile.

– Voi siete un uomo ragionevole, – rispose il guascone. – Ecco le piastre e giú il vestito.

Il fanalaio, che ci teneva piú all’argento che al piombo, fu lesto a obbedire.

Il guascone infilò i calzoni, indossò la grossa casacca di panno bigio con bottoni di metallo giallo, e si mise in testa il berrettone di tela cerata.

– Somiglio ad un fanalista? – chiese a don Ercole, il quale stava legando ed imbavagliando il disgraziato sorvegliante.

– Potreste lasciare la spada per la lanterna, – rispose il fiammingo, sorridendo.

– Quando sarò vecchio, amico. Ora conducete, o, se vi piace meglio, portate quest’uomo nella camera del conte e cacciatelo sotto il letto.

– Preferisco portarlo.

– Ed ora a noi, signori soldati, – mormorò il guascone, quando fu solo.

Raccolse la pipa del sorvegliante la quale fumava ancora e si sedette su un gradino della scala esterna, mettendosi a sua volta in osservazione.

CAPITOLO XII. UN’ALTRA TROVATA DEL GUASCONE

I due drappelli, mandati certamente da don Juan de Sasebo per catturare anche i tre spadaccini del conte, si erano accostati di parecchie centinaia di passi, pur cercando di tenersi sempre nascosti dietro alle dune di sabbia.

Dovevano essere stati probabilmente avvertiti che gli uomini che volevano arrestare erano vecchie pelli, capaci di giuocare dei pessimi tiri e anche di dar da fare ad una cinquantina di alabardieri.

Il guascone li spiava attentamente, pur fingendo d’osservare l’Oceano e di quando in quando alzava lievemente il capo per dire a Mendoza, il quale si trovava nascosto dietro alla lanterna sempre accesa:

– Vengono: non sono che a trecento passi… a duecentocinquanta… stanno per incontrarsi.

Come abbiamo detto, i due drappelli procedevano in senso contrario, per prendere in mezzo gli avventurieri ed impedire loro la fuga.

S’avanzavano però con grandi cautele, cogli archibugieri in testa e gli alabardieri in coda.

Le due piccole colonne non tardarono ad unirsi ed una viva discussione parve impegnarsi fra i due comandanti, poiché il guascone che aveva l’udito finissimo udí non poche imprecazioni.

– Mendoza, – disse.

– Che cosa desiderate?

– Accendetemi una torcia. Desidero che quella gente veda bene che io sono un fanalista.

– E se qualcuno conoscesse il vecchio che abbiamo legato ed abbiamo imbavagliato.

– Ah!… Bah!… Accendete e non occupatevi d’altro per ora.

Risalí lentamente la gradinata, sempre colla pipa in bocca, e rientrò sotto la cupola, fingendo di occuparsi della lanterna.

I soldati intanto avevano formato un vasto semi-cerchio, alternando su una sola fila archibugieri ed alabardieri e s’avanzavano verso la spiaggia, colla speranza di trovare i tre avventurieri occupati ad allestire la scialuppa.

Delle grida di rabbia avvertirono il guascone che erano già giunti sulla spiaggia.

– Devono essere furibondi, – mormorò Mendoza, il quale si era gettato a terra.

– Si screditano, – rispose il guascone, ridendo. – Bestemmiano come pagani.

– Ohé, fanalaio!

Don Barrejo prese la torcia e comparve sul terrazzino, gridando con voce grossa:

– Chi mi chiama?

– Un capitano degli archibugieri.

– In che cosa posso esservi utile?

– Non hai veduti qui, poco fa, tre uomini?

– Io no.

– Hai sempre vigilato?

– Non devo lasciar spegnere la lanterna. La mia guardia dura dodici ore.

– Eppure qui devono essere giunti con una scialuppa.

– Vi ripeto, signor capitano, che io non ho veduto né uomini né imbarcazioni. Di quassú li avrei veduti, poiché il faro è alto ventidue metri.

– Sei solo?

– Affatto solo. Non verrò rilevato che domani mattina alle otto.

Il capitano lanciò un sonoro caramba, poi, volgendosi verso i suoi uomini, disse:

– Siamo stati giuocati. Quei furfanti si sono accorti che vi era qualche cosa in aria e si saranno imbarcati in altro luogo. Il nostro dovere l’abbiamo compiuto. Buona sera, fanalista e buona guardia.

– Buona notte, signor capitano e buona fortuna.

I due drappelli si riordinarono formando una sola colonna e si allontanarono attraverso le dune, avviandosi verso Panama.

– Avete veduto che bel giuoco, Mendoza? – disse il guascone, rientrando sul terrazzino della lanterna. – Sono piú astuti al di qua o al di là del mar di Biscaglia?

– Voi avete fatto qualche patto col diavolo, – rispose il basco, ridendo.

– Andiamo a trovare il conte e fuggiamo prima che qualche dubbio sorga nel cervello di quel capitano. Non si sa mai quello che può succedere.

– Il signor di Ventimiglia sarà un po’ debole.

– Don Ercole è robusto come l’Ercole dell’antichità e, se sarà necessario, lo porterà.

Scesero nella cameretta, dove trovarono il conte il quale stava discorrendo tranquillamente col vero fanalista, avendogli fatto togliere il bavaglio.

– Signore, – gli disse il guascone, – quando vorrete, potremo riprendere la nostra marcia. I briganti che vi hanno assaltato e ferito si sono allontanati.

– Potete reggervi, signore? – chiese Mendoza.

– Mi basterà un braccio per appoggiarmi, – rispose il conte.

– Allora sarà meglio che affrettiamo la nostra partenza, – disse il guascone, il quale si era già spogliato della divisa bigia dei fanalisti.

– Sono pronto.

– Toh!… Ora che ci penso, questo sorvegliante deve ben possedere qualche scialuppa, è vero, brav’uomo?

– Sí, – rispose il fanalista, – però non è mia. Appartiene alla capitaneria.

– Direte che il mare l’ha portata via ed intascherete un altro gruzzolo di piastre. Potremo cosí rientrare in Panama senza incontrare i briganti che volevano depredarci. Quanto volete per cedercela?

– Vi faccio osservare che in questi giorni il mare è sempre stato tranquillissimo.

– Direte ai vostri superiori che faceva acqua e che è andata a fondo, – ribatté il guascone. – Sapete che sono abituato a offrire o piombo o argento.

– Lo so purtroppo.

– E vi lagnate?

– Avrò dei fastidi.

– Vi offro venti piastre per la scialuppa. È un semplice canotto. Oh!… Noi siamo generosi e poi cosí correremo piú presto.

Poi, mentre contava le piastre, mormorò fra sé:

– Già sono denari dell’illustrissimo don Juan de Sasebo, Consigliere dell’Udienza Reale di Panama.

Quand’ebbe finito di contare e molto scrupolosamente, poiché, in fondo, il guascone era sempre avaro come tutti i suoi compatriotti, disse:

– Ed ora, signor fanalaio, guidateci.

Tutti e cinque lasciarono il faro e si diressero verso un’alta scogliera, la quale serviva a proteggere la costruzione contro l’impeto delle onde.

Appeso a due paranchi installati su una roccia al disotto di due fortissime grue di ferro, stava un canotto, sufficiente a contenere sei o sette uomini e già fornito di remi e d’un piccolo albero con una vela triangolare.

Il fanalaio, che sembrava molto soddisfatto della generosità di quei misteriosi personaggi, aiutato da don Ercole, lo calò in mare.

L’acqua, dietro alla scogliera, era tranquillissima, quindi l’imbarco fu assai facile.

Essendo il vento propizio, Mendoza issò l’alberetto e spiegò la vela, mentre il conte si sedeva a poppa prendendo la barra del timone.

– Addio, fanalaio! – gridò il guascone, prendendo un remo.

Colle nostre piastre comperati un barilotto d’aguardiente. Fa bene ai vecchi, te lo assicuro io.

Il canotto prese subito la corsa, mentre il sorvegliante del faro si levava il berrettone di tela cerata, gridando:

– Buon viaggio, miei signori!

Il Pacifico, quella notte almeno, era tranquillo.

Solamente la risacca muggiva e rimuggiva cupamente intorno alla scogliera e contro le dune di sabbia, accartocciandosi curiosamente.

Mendoza si era messo a guardia della vela, don Ercole ed il guascone a prora.

La brezza essendo un po’ fresca spingeva celermente il canotto, il quale seguiva la spiaggia alla distanza d’un centinaio di metri, puntando verso la bocca del porto.

Il sole cominciava a mostrarsi, quando i quattro corsari doppiarono la lanterna della casa blanca.

Panama, l’opulenta città dell’Oceano Pacifico, l’emporio di tutte le ricchezze del Messico, del Peril e del Chili, si presentava dinanzi ai loro sguardi.

Potevano entrare liberamente nella baia, senza correre pericolo alcuno, poiché le caravelle spagnuole non sorvegliavano la bocca che dopo il tramonto dell’astro diurno fino all’alba, per impedire una sorpresa notturna da parte dei filibustieri di Taroga.

Spinsero quindi il canotto sulle tranquille acque della baia, filando fra un gran numero di navi e presero terra verso l’estremità meridionale delle calate.

– Che cosa ne faremo ora di questa piccola scialuppa? – chiese il guascone, balzando a terra.

– Volete portarla alla fonda della bella sivigliana? – chiese Mendoza. Se ciò vi può far piacere, caricatevela sulle spalle.

– Costa venti piastre.

– Avaraccio!

– Non sarei un guascone.

Prendetevela dunque.

– Se don Ercole se la mettesse in testa.

– Un cappello troppo brutto, – rispose il fiammingo. – La lascio a voi.

Non potendo portarsela con loro, senza attirare l’attenzione dei numerosi mercatanti e facchini che ingombravano le calate, l’abbandonarono.

Mendoza offrí al conte il suo braccio ed i quattro corsari s’avviarono verso la fonda della bella castigliana, procedendo lentamente e chiacchierando fra di loro come ricchi sfaccendati.

Mezz’ora dopo giungevano dinanzi all’albergo, il quale in quel momento era affatto vuoto.

Panchita, la graziosa vedova, stava risciacquando bicchieri e bottiglie.

Vedendo comparire il conte ed i suoi compagni, per poco non lasciò cadere a terra il vassoio pieno di tazze che stava per deporre su un tavolo.

– Voi, signor conte! – esclamò.

– Non gridate cosí, Panchita, – disse Mendoza. – Volete perderci?

– Siamo soli.

– Non sono piú tornate le guardie del porto? – disse il corsaro.

– Non le ho piú vedute, signor conte, dopo quella sera.

Nessuna persona sospetta è venuta a ronzare in questi dintorni?

– Non sono entrati qui che i soliti bevitori, – rispose la bella sivigliana.

– Señora, – disse il guascone, – vorreste allora favorirci una buona colazione nella stanza superiore? Soprattutto badate che ci siano delle buone bottiglie.

– Vi offrirò il meglio che possiedo. Voi siete signori per bene e generosi.

– Se qualcuno verrà per spiare, ci avvertirete.

– Non dubitate.

Salirono nello stanzone che serviva da dormitorio e, mentre Mendoza rinnovava la fasciatura al conte, il guascone e don Ercole allestirono la tavola, avendo prima fatta provvista di piatti e di salviette per non affaticare troppo la bella vedova. Diamine!… Era sempre galante don Barrejo, signore di Lussac!

La taverniera non tardò a giungere, portando sulle robuste braccia dei canestri pieni di vivande e soprattutto di bottiglie scelte fra le migliori che aveva in cantina, non ignorando che Mendoza ed il guascone davano loro la preferenza.

– Questa sivigliana è veramente una taverniera modello! – esclamò don Barrejo. – In poche ore che siamo stati qui ha indovinato i nostri gusti, è vero, basco? Questa fonda fra qualche anno farà la fortuna di questa señora.

– Oh!… Chiamatemi semplicemente Panchita, signore, – rispose la vedova.

– Mai, señora: io sono un gentiluomo e per me la donna, qualunque sia, è sempre una dama.

– Don Barrejo sareste per caso innamorato di questa bella castigliana? – chiese Mendoza, scherzando.

– Sí, delle sue bottiglie, – rispose gravemente il guascone.

Il conte diede il segnale dell’attacco della colazione, avendo estremo bisogno di rinforzarsi, in vista di possibili gravi avvenimenti.

– Ora, signor di Ventimiglia, – disse il guascone quando fu ben pieno e che ebbe sturata una bottiglia di Bordeaux, chissà per quale caso scoperta nella cantina del defunto taverniere, – parliamo seriamente dei nostri affari. Quando io mangio e bevo, mi si aguzza straordinariamente la fantasia e le idee piú meravigliose vi spuntano come i funghi.

– Speriamo che sia spuntato un fungo molto grosso, – rispose il conte, il quale, quantunque la sua ferita gli desse non poca noia, aveva fatto onore al pasto.

Questo dipende da voi, signor conte – rispose il guascone, dopo d’aver tracannato d’un fiato un bicchiere di eccellente vino francese. – Vorrei prima di tutto chiedervi se sarebbe meglio catturare il marchese di Montelimar, o don Juan de Sasebo o qualcuno dei loro servi. Sorprendere quei due cani grossi, mi pare che sarebbe una impresa un po’ difficile, abitando costoro nel centro della città.

E cosí? – chiese il signor di Ventimiglia.

Se io e don Ercole vi portassimo invece un servo di quei messeri? Quella gente là hanno sempre un mayoral, ossia una specie di maggiordomo che conosce quasi sempre i segreti del padrone. La faccenda sarebbe piú facile, mi pare.

– Lascio a voi intera libertà d’agire, – rispose il signor di Ventimiglia. – Mi avete ormai dato troppe prove di essere un furbo matricolato, capace anche di far prigioniero il Viceré di Panama.

– Se potessi sorprenderlo e condurlo a Taroga, sareste sicuro di avere vostra sorella prima di quarantotto ore, – rispose il guascone. – Sarà per un’altra volta. Don Ercole, volete accompagnarmi?

– Sono sempre a vostra disposizione, – rispose il fiammingo, il quale beveva come un otre.

– Voi, Mendoza, rimarrete qui a tener compagnia al signor conte. Se tardiamo, non preoccupatevi. Il vostro affare non sarà facile, tuttavia io non dispero di riuscire nel mio intento. Una zucca guascone vale sempre qualche cosa di piú delle altre, almeno cosí dice un nostro vecchio proverbio.

Vuotò un altro bicchiere, poi, dopo d’aver salutato il signor di Ventimiglia il quale, aiutato da Mendoza stava per coricarsi su uno dei sette letti che ingombravano lo stanzone, usci insieme a don Ercole che sbuffava come una foca.

La bella Castigliana stava mettendo ancora in ordine la taverna.

– Señora, – disse il guascone, arricciandosi i baffi. – Io spero di ritrovare questa sera un’altra bottiglia di quel famoso Bordeaux. Non sarà stata l’ultima della vostra cantina.

– Ne cercherò qualche altra, caballero, – rispose la bella vedova, mostrando i suoi candidi dentini.

– Conto su di voi o meglio su la vostra cantina.

Si levò con molto sussiego il feltro piumato, come se si trovasse dinanzi ad una grande dama, le mandò sulla punta delle dita un bacio e se ne andò, seguito dal silenzioso fiammingo.

– Amico, – disse il guascone, – andiamo a fare una passeggiata nella calle d’Aramejo. Io non so veramente dove si trovi, però sono sicuro di scovarla. Deve passare dietro il palazzo di quel briccone di Consigliere. Sulla piazza maggiore potremmo incontrare o don Juan de Satsebo od il marchese e allora che brutta frittata! Prendiamo le retrovie.

– Che cosa volete fare, insomma?

– Portare via almeno qualche servo del marchese.

– In pieno giorno?

Il guascone si fermò, guardando con un certo stupore don Ercole.

– Tonnerre!… – esclamò. – I fiamminghi avrebbero per caso il cervello un po’ ottuso? Noi guasconi l’abbiamo sempre avuto limpidissimo.

– Voi parlate oscuro.

– Forse avete ragione, don Ercole, piú tardi mi spiegherò meglio.

Accesero ognuno un grosso sigaro, fornito loro dalla bella Castigliana e continuarono il cammino, chiedendo di quando in quando ai passanti dove si trovava la via dell’Aramejo.

I ventiquattro campanili della città suonavano mezzogiorno, quando finalmente giunsero dietro il palazzo di Don Juan de Sasebo.

Si calarono per precauzione i feltri piumati sul viso e si avvicinarono alla piccola porta, presso la quale passeggiava gravemente un giovane meticcio armato d’alabarda.

– Ecco il mio uomo, – disse il guascone, – Preferisco un mezzo bianco ad un negro completo. Sono piú intelligenti e meno furbi di quei selvaggi figli dell’Africa. Don Ercole, aspettatemi qui e continuate pure a fumare. Quest’affare lo sbrigherò io solo.

Mosse risolutamente verso il meticcio e, dopo di essersi levato il cappello, gli disse con voce quasi piagnucolosa.

– L’illustrissimo signor Consigliere don Juan de Sasebo si troverebbe per caso nella sua abitazione?

Il meticcio si fermò bruscamente, squadrò superbamente il guascone, poi, dopo d’aver appoggiata la pesante alabarda contro lo stipite della porta e di essersi messe le mani sui fianchi, chiese superbamente:

– Chi siete voi?

– Un povero avventuriero, che giunge dal Messico, povero, per modo di dire poiché tengo nelle mie tasche un centinaio e piú di piastre che potrebbero passare nelle vostre.

Il meticcio, udendo parlare di piastre, che poteva guadagnare e forse senza fatica, diventò un po’ meno superbo.

– Che cosa vorreste voi dal mio illustrissimo padrone Consigliere dell’Udienza Reale di Panama?

– Desidererei consegnargli una supplica perché mi venga resa giustizia. Vengo dal Messico appositamente e sono pronto a rimettere i miei ultimi risparmi a chi mi aiuterà in questa faccenda.

– Non mi avete detto di che cosa si tratta.

– Ah!… La istoria è lunga da narrarsi e non potrei farvela conoscere qui, in mezzo alla via. Se vorreste seguirmi all’albergo dove io abito, potremmo bere delle eccellenti bottiglie.

Il meticcio. che già vedeva risplendere dinanzi ai suoi occhi un bel numero di piastre, chiamò il negro che fumava sul primo gradino della scalinata e gli consegnò l’alabarda, dicendogli:

– Prendi il mio posto e questa sera ti pagherò un fiasco d’aguardiente. Devo accompagnare questi signori.

Poi, volgendosi verso il guascone ed il fiammingo, aggiunse:

Sono ai vostri ordini.

Venite e passeremo una allegra mezza giornata, – rispose don Barrejo.

Si misero in cammino lungo la strada. Il guascone guardava attentamente a destra ed a sinistra cercando una taverna qualunque, non volendo, per precauzione, condurre il meticcio nella posada della bella Castigliana.

Dopo aver percorso parecchie vie, scoprí finalmente una fonda, una specie di osteria, frequentata per lo più da persone equivoche e che non aveva certamente un bell’aspetto.

– Eccoci sul posto, – disse il guascone. – Qui si beve bene e veri vini di Spagna.

Entrarono, sbatacchiando l’uscio, come persone alle quali è permessa un po’ di confidenza e si assisero ad una tavola situata nell’angolo piú oscuro dello stanzone.

Vanusepiirang:
12+
Ilmumiskuupäev Litres'is:
30 august 2016
Objętość:
440 lk 1 illustratsioon
Õiguste omanik:
Public Domain

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