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Loe raamatut: «Le figlie dei faraoni», lehekülg 19

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Il re rimase per qualche istante muto, poi facendo uno sforzo supremo, disse:

«Non sono io più il re dell’Egitto, dunque? Comando io o tu? Se uno mi dà fastidio, lo faccio scomparire. La tranquillità del regno innanzi a tutto.»

«L’hai fatto uccidere?» gridò Nitokri, avventandosi contro Pepi e scuotendolo violentemente.

«Chi?»

«Mirinri.»

«No… che cosa temi?» disse Pepi, con aria imbarazzata.

«Che tu me lo uccida!»

«L’ameresti forse?» chiese Pepi spaventato.

«Sì, l’amo,» rispose la fanciulla.

Pepi si passò due o tre volte una mano sulla fronte poi disse, come parlando fra sé, mentre un brivido scuoteva il suo corpo:

«Lui sì… forse… ma l’altro?… Crollerebbe tutto ed io che cosa diverrei?»

«Padre!» gridò Nitokri. «Io l’amo!»

Pepi s’appoggiò alla colonna e si coprì con ambe le mani il viso, ripetendo con voce strozzata:

«Ecco la fine… tutto crolla intorno a me… il mio potere… il regno… È la punizione…» Poi ergendosi, con uno sforzo supremo, disse: «Lui… no… mai… Her-Hor lo catturerà… il popolo l’ha dimenticato… è morto sotto i Caldei… sparirà nuovamente…»

«Che cosa dici, padre?» chiese Nitokri, che lo guardava con angoscia.

«Manda uno dei miei capitani nella necropoli dove io aveva fatto rinchiudere Mirinri vivo,» disse Pepi. «La pietra fatale non sarà ancora collocata… se lo fosse fa’ diroccare le mura… viva e sia felice giacché tu l’ami e ti ha salvata la vita… e regni… ma dopo di me… il popolo egiziano mi sarà riconoscente… è un Figlio del Sole.»

«Nella necropoli hai detto, padre!»

«Sì, va’, comanda… te lo dono…»

«Mirinri è mio? Oh la suprema felicità!»

«Taci! È la rovina dell’Egitto forse. Va’!»

Nitokri uscì, quasi correndo.

Era appena scomparsa quando Her-Hor rientrò nella sala. Un lampo maligno illuminava i suoi occhi.

Pepi empì una tazza e la vuotò senza guardarlo.

«Hai ceduto re, è vero?» gli chiese il grande sacerdote.

«L’ama,» rispose asciuttamente Pepi, posando la tazza vuota, «e Nitokri è mia figlia, carne della mia carne.»

«E lui è preso.»

«Chi?» gridò Pepi scuotendosi.

«Ounis.»

«Lui!»

«Lo salverai?»

«Domani si scateni il mio leone favorito, nel grande serbatoio del Nilo… Vedremo se il vincitore dei Caldei saprà vincere anche il terribile figlio delle sabbie libiche… salvo il figlio, ma lui no… Il popolo d’altronde lo ha dimenticato!»

CAPITOLO VENTOTTESIMO. La cattura di Ounis

Ounis, dopo la cattura di Mirinri, era fuggito bestemmiando, confondendosi fra la folla che ingombrava l’immensa piazza. Pareva che in pochi minuti quell’uomo, che sembrava vigoroso come una quercia nonostante l’età avanzata, fosse invecchiato di dieci anni almeno.

Aveva infilata una via, poi una seconda, quindi una terza, quasi correndo, finché si era arrestato sul magnifico viale che costeggiava il Nilo, lasciandosi cadere affranto, pallido, disfatto, su una delle enormi pietre che dovevano servire alla costruzione di quelle colossali dighe delle quali, anche oggidì, dopo cinque o sei mila anni, si trovano ancora gli avanzi.

Un rauco singhiozzo aveva lacerato il petto del povero vecchio. «Preso!» veva mormorato. «Amore fatale che lo ha perduto, quando l’alba sorgeva per lui raggiante, protetta da Râ e da Osiride! A che cosa hanno servito tanti anni d’esilio nelle sabbie ardenti del deserto e tanti sacrifici? Io, che avrei potuto splendere come l’astro che irradia questa terra che il Nilo feconda e che gli dei proteggono! Io, che avrei potuto con un cenno far tremare i popoli al di qua ed al di là del Mar Rosso! E tutto è caduto! Quale immensa rovina intorno a me! Meglio sarebbe stato che io fossi morto davvero là, dove ho pugnato e vinto, sotto l’enorme cumulo dei Caldei che la mia daga ha spenti e che il mio carro di battaglia ha calpestatO! Che cosa sono io ora? L’ombra d’un grande che non avrà nemmeno più gli onori d’una imbalsamazione, né una piramide per asilo… meno d’una mummia… Abbiano almeno le acque di questo fiume, che scendono dal cielo, il mio corpo. Râ mi accoglierà nella sua barca sfolgorante…

Si alzò con una mossa violenta, fissando i suoi occhi sulle acque gonfie del fiume che muggivano sordamente, rumoreggiando contro le colossali dighe.

«Scomparire dal mondo, senza essermi vendicato di Pepi?» disse ad un tratto, indietreggiando. «Che cosa ci guadagnerei io? Un vecchio guerriero sopprimersi dinanzi al pericolo? No, tutto non può essere finito e… Ata? E i miei amici, i vecchi partigiani di Teti il grande? Forse che non mi aspettano nella Piramide di Rodope? Ata! Il mio cervello si era dunque talmente sconvolto, da farmi dimenticare quei valorosi che altro non attendono che un mio cenno per mettere a ferro ed a fuoco Menfi? Sì, rovesceremo tutto e passeremo come una tromba devastatrice attraverso l’Egitto, se Pepi vorrà lottare con noi. Il mio grido di guerra, quel grido che un giorno ha sgominato orde sterminate, assetate di sangue e di stragi, farà crollare le cento colonne del palazzo reale e la mia mano strapperà l’ureo che brilla sulla fronte dell’usurpatore. Menfi l’orgogliosa cederà o cadrà distrutta coi suoi templi e coi suoi monumenti. M’uccidano Mirinri ed io farò passare a fil di spada i trecentomila abitanti della città e non lascerò una pietra sola che possa ricordare l’esistenza di questa metropoli che è la meraviglia del mondo. Andiamo: io non sono più Ounis! Ritorno quello che fui un giorno!»

Si staccò dal parapetto e si mise a costeggiare il Nilo, avviandosi verso la parte settentrionale della città, dove giganteggiava, fra un tramonto tutto color di fuoco, la piramide entro cui dormiva la mummia della bella Rodope nel suo sarcofago di marmo azzurro. L’immenso viale, ombreggiato da doppi filari di palme, era quasi deserto, essendosi la popolazione riversata in massa verso il basso corso del fiume, dove i sacerdoti avevano condotto, con grande pompa, ad abbeverarsi il bue sacro. Ounis camminava rapidamente, tuttavia non fu che verso il tramonto che giunse sul luogo ove doveva abboccarsi coi congiurati.

«là che dorme Rodope,» mormorò il vecchio.

La piramide s’innalzava maestosamente dinanzi a lui, a meno di trecento passi, tutta rosseggiante sotto gli ultimi raggi del sole morente. All’intorno non si scorgeva alcuna persona. Solo due sciacalli dal pelame bruno sonnecchiavano l’un presso all’altro, sotto l’ombra che proiettavano le foglie d’una palma.

«Dove sarà Ata?» si chiese Ounis. «Io non so ove sia l’entrata che conduce alle serdab. Tutto è silenzio qui! Mi fa impressione questa immensa calma. Qui dovrebbe battere il cuore del futuro regno ed invece mi pare che dentro il mio si sia spezzato qualche cosa… Ah! Genio maligno! Del sangue!»

Si era curvato verso il suolo e col dito sollevava le sabbie che i venti caldi del vicino deserto libico avevano deposte intorno alla gigantesca piramide.

«Del sangue!» ripetè, con voce strozzata. «Tutta la sabbia è rossa qui!»

Indi alzò gli sguardi verso la piramide.

«Dei dardi!» esclamò poi, girando intorno uno sguardo smarrito. «Sono stati presi.»

Rimase silenzioso: era un silenzio tragico. Un improvviso accasciamento lo prese e cadde al suolo come fulminato, rimanendo inerte. Scese la notte e le ore passarono lente.

Una voce a lui ben nota lo fece tornare in sé dopo moltissime ore. Quanto tempo era trascorso? La notte era scomparsa ed il sole era riapparso e forse da molto tempo, perché era quasi alla metà del suo corso.

«Nefer!» esclamò Ounis.

«Sì, sono io, mio signore,» rispose la giovane. «Che cosa ti è successo? Ti abbiamo trovato svenuto.»

Ounis si passò parecchie volte una mano sulla fronte, per meglio risvegliare le sue idee ancora offuscate.

«Non so,» disse poi. «Mi è sembrato che un macigno mi fosse piombato sul cranio e che il cuore mi fosse scoppiato… è giorno! Quanto sono rimasto come morto?…» Poi guardando Nefer con un certo stupore, disse:

«E come ti trovi qui? Chi è questo vecchio soldato che ti accompagna? Non eri con Mirinri tu?»

«Sì, mio signore.»

«Mirinri!» gridò Ounis. «Dove si trova?»

«Nelle mani di Pepi.»

«Ah! Disgraziato! È perduto!»

«Sì, perduto,» singhiozzò Nefer. «Per me e per te.»

Ounis si era alzato di scatto, come se avesse riacquistate improvvisamente tutte le sue forze. «Narrami che cosa è avvenuto,» disse con voce cupa.

Nefer in poche parole lo informò dell’arresto e della prigionìa nei sotterranei del palazzo reale, poi della sua liberazione e delle promesse di Nitokri di proteggere Mirinri.

Un amaro sorriso contrasse le labbra del povero vecchio.

«Nitokri! È la figlia dell’usurpatore e non è lei che comanda. Tutto è finito, mia fanciulla: Mirinri non uscirà vivo da quel sotterraneo. Conosco troppo bene Pepi.»

Stette alcuni minuti silenzioso, poi chiese:

«Eri certa di trovarmi qui?»

«Avevo qualche speranza,» rispose Nefer, «sicché, appena libera mi feci condurre qui da questo soldato, che era incaricato di proteggermi.»

«Ora non hai più bisogno di lui: congedalo.»

«Va’, amico, e aspettami nella casa che il re ha messa a mia disposizione,» disse la giovane al veterano. «Ci rivedremo presto.»

Il vecchio guerriero s’inchinò profondamente senza parlare e si allontanò a lenti passi.

«Nefer,» disse Ounis quando furono soli, «i vecchi amici di Teti sono stati presi. La piramide è stata espugnata e forse a quest’ora nessuno di quei prodi è vivo.»

«Siamo dunque maledetti?»

«Sì,» rispose Ounis. «Il trono a cui Mirinri aspirava è ormai perduto, la vendetta mi fugge di mano quando credeva di tenerla ben salda nel pugno… ed a te, mia povera fanciulla, che cosa rimane?»

«La morte,» rispose Nefer con un sordo singhiozzo.

«Camminiamo verso la morte dunque,» disse Ounis. «Là, sulle sabbie del deserto, sulle quali è forse rimasta ancora impressa l’orma di colui che doveva tutto distruggere, ritroveremo un po’ di tranquillità. Vieni fanciulla, risaliremo il Nilo e accanto alla grande piramide dove lui visse e passò la sua prima giovinezza e sotto le foreste di palme sotto le quali sognò e dormì, ritroveremo la calma che l’aria pestifera dell’orgogliosa Menfi ha distrutto! Torno nella terra dell’esilio, io che avrei potuto regnare qui possente e ben più forte di Pepi.»

«Chi sei tu? Dimmelo almeno una volta!» gridò Nefer.

«Il leone del deserto libico» rispose Ounis. «Dove io sia nato, chi lo sa? Che cosa sono stato un giorno? Io solo lo so. Vieni fanciulla: andiamo a respirare l’aria che ha vivificato i polmoni di Mirinri, andiamo a udire il mormorìo dolce delle acque che lui ascoltava per ore ed ore sotto la fresca ombra delle palme dùm; andiamo a rivedere i luoghi ove egli visse. È morto! Menfi maledetta, come ti distruggerei! Osiride non irradia più coi suoi raggi il cielo! Egli ha abbandonato i figli del Sole! Che la sua barca si fonda sotto le fiamme di Râ! Siano maledetti tutti gli dèi dell’Egitto! Che l’ombra cupa della notte eterna li dissolva tutti. Vieni, Nefer! Vieni nel deserto! Tu sarai mia figlia!».

Riprese la fanciulla, che singhiozzava sempre, per una mano, e tornò verso il Nilo.

Stava per accostarsi ad una barca che si trovava ormeggiata alla diga, quando quattro guardie reali, che si tenevano nascoste dietro il parapetto, gli piombarono improvvisamente addosso, colle daghe alzate, atterrandolo.

Il vecchio, con una mossa fulminea, aveva afferrato pel polso l’uomo che gli stava più presso, strappandogli l’arma.

«Largo, miserabili!» tuonò, con voce formidabile. «Cento caldei non hanno fatto paura a me e tutti caddero sotto il mio ferro. A te pel primo!»

Con un’agilità meravigliosa, che qualunque giovane gli avrebbe invidiata, era balzato in piedi, gridando:

«Indietro, Nefer!»

La daga, un’arma solida ed affilata, balenò un istante nell’aria e scomparve tutta intera nel corpo della guardia.

Le altre tre si erano scagliate sul vecchio, urlando: «Arrenditi!»

«Ecco come si arrende chi vinse i Caldei!» rispose Ounis.

Tre volte scintillò la lama già rosseggiante di sangue ed i tre uomini caddero l’un sull’altro, contorcendosi fra gli spasimi della morte.

Ounis stava per prendere la fuga, quando un drappello di guardie, sbucato da una via laterale, lo circondò. Erano quaranta o cinquanta uomini, armati d’azze di guerra e gagliardi.

Ounis aveva gettata la daga stillante sangue, dicendo con ironia: «Non uccido il mio popolo! Chi mi vuole?»

«Il re,» disse un vecchio arciere, avanzandosi.

«Ah!» fece Ounis.

Poi, volgendosi verso Nefer, disse: «Nemmeno il deserto ci vuole. Ecco la catastrofe completa. È la fine di tutto!» Quindi, guardando irosamente le guardie, chiese sdegnosamente: «Da chi mi conducete?

«Dal re,» risposero le guardie.

«Mi avevate seguito, dunque?»

«Sì,» disse il vecchio arciere che comandava il drappello.

«E di questa fanciulla che cosa ne farai tu?»

«Io non ho ordini per lei: chi si cura d’una vagabonda?»

Un urlo di belva feroce irruppe dal petto del vecchio Ounis.

«Miserabile!» gridò, liberandosi con una scossa violenta dalle guardie che lo trattenevano pei polsi. «Costei una vagabonda! A te! È una Figlia del Sole!» La mano del vecchio cadde sul viso dell’arciere come un terribile colpo di frusta, facendolo girare due volte su se stesso. «Inchinati davanti a questa fanciulla che porta sul suo corpo divino il tatuaggio dell’ureo. Giù o t’uccido! Se Pepi non ti farà sgozzare, vi sarà chi ti punirà se non obbedisci! Giù! Tu non sai chi è l’uomo che te lo comanda!»

Vi fu fra le guardie un momento di stupore impossibile a descriversi. Quel vecchio che aveva già ucciso quattro uomini e che comandava coll’autorità d’un re, aveva sgomentato tutti.

«È tua figlia?» chiese il capo degli arcieri con voce alterata.

«Chi sia non lo so,» disse Ounis. «È una Faraona e ti basti! Guarda, vile schiavo d’un re ladro!»

Con un gesto rapido strappò alla fanciulla la leggera tunica che la copriva e mise a nudo la sua spalla mostrando il simbolo del diritto di vita e di morte. «Lo vedete?» disse. «È una Faraona! Giù, a terra, tu che l’hai offesa, perché è d’origine divina!»

L’arciere era caduto in ginocchio, mentre gli altri avevano allargato il cerchio.

«Ed ora,» disse Ounis, «conducetemi pure da Pepi. Desidero vederlo.»

«Ed io?» chiese Nefer.

«Seguimi,» rispose il vecchio. «È là, nel palazzo delle cento colonne, che noi daremo l’ultima battaglia. Chissà! Forse tutto non è ancora perduto e quando urlerò in faccia a lui la sua infamia, può darsi che la fenice rinasca per abbruciare il corpo di suo padre nel tempio del Sole e che addenti, pari ad un famelico coccodrillo, la sua anima. Vieni, Nefer, vieni fanciulla mia. Le ali dorate e rosse della fenice ci proteggeranno.»

Gli arcieri si erano stretti intorno a loro ed il capo aveva svolta la fascia che gli cingeva il kalasiris, per legare le mani a Ounis.

«Non occorre,» disse il vecchio. «Non ho più una daga per uccidervi tutti. Andiamo! Il palazzo reale ed io ci conosciamo.»

Ounis, tetro, pensieroso, camminava fra le guardie e Nefer lo seguiva, colla testa chinata sul petto, come un’ombra vagante. Salirono il viale che conduceva al palazzo reale, senza che né l’uno, né l’altra, né la scorta avessero pronunciata una parola. Quando però Ounis si trovò nel peristilio di marmo parve ridestarsi come da un lungo sogno.

Guardò come stupefatto le immense porte, le alte terrazze bastionate, le colonne sfolgoranti d’oro che s’ergevano maestosamente attraverso l’immensa sala, dove Mirinri era stato ricevuto ed aspirò fragorosamente l’aria.

«Diciotto anni,» disse, fermandosi bruscamente. «E lo rivedo, ma non più mio!»

Si era voltato verso le guardie, come se volesse scagliarsi contro di loro o come se volesse gridare qualche cosa sui loro volti, poi, frenandosi, chiese:

«Dov’è il re?»

«Domani lo vedrai,» rispose il capo degli arcieri.

«E dov’è Nitokri, sua figlia?» chiese Nefer, con impeto.

«La figlia del Faraone?» chiese il capo del drappello, con stupore.

«Non sono anch’io una Faraona forse?» chiese la fanciulla. «Hai visto tu il tatuaggio, sulla mia spalla? Va’ a dirle che vi è una Figlia del Sole che vuole vederla e subito! Mi hai compreso?»

«È la figlia del re,» osservò umilmente il capo degli arcieri.

«Ed io di chi sono, se l’ureo ha marcato il mio corpo?»

«Nefer!» disse Ounis. «Che cosa vuoi fare tu?»

«Nelle cento colonne daremo battaglia, sia pure l’ultima,» disse la fanciulla con un singhiozzo. «Getto il mio destino! Addio, signore, spero di rivederti presto.»

Ounis scosse tristemente il capo e seguì gli arcieri che avevano aperta una porta la quale pareva che mettesse in qualche sotterraneo. Il capo intanto si era allontanato, salendo una gradinata di marmo, che era nascosta da una immensa tenda intessuta di pagliuzze d’oro ed a larghe fascie di tinte svariate, tutte smaglianti.

Nefer, rimasta sola nell’immensa sala, si era appoggiata ad una coppa di lapislazzoli che serviva in certe occasioni da fontana, nascondendosi il viso fra le mani. Dai sussulti che di quando in quando scuotevano il suo corpo, si capiva che la disgraziata fanciulla singhiozzava.

Un passo leggerissimo, accompagnato dal fruscìo d’una veste, trasse Nefer dalla sua muta disperazione. Nitokri, la figlia di Pepi Mirinri, le stava dinanzi.

Le due fanciulle si guardarono a lungo, senza parlare, poi Nitokri disse:

«Sei tu, che chiamano la principessa dell’isola delle Ombre?»

«Io sono Nefer.»

«O meglio Sahuri: era questo il nome che portavi quando ti tolsero di qua.»

«Non me lo ricordo,» rispose Nefer. «Ero ancora bambina allora.»

«Che cosa vuoi, fanciulla?»

«Sapere che cosa è avvenuto di Mirinri, il figlio del grande Teti,» rispose Nefer, scoppiando in singhiozzi. «Tu che sei onnipossente, proteggilo, signora, contro le ire di tuo padre… io, che l’ho immensamente amato, te l’abbandono purché gli salvi la vita.»

«Mirinri… l’hai amato? E lui?» gridò Nitokri.

Nefer scosse tristemente il capo.

«Egli non sognava e non vedeva che la fanciulla salvata sulle rive dell’Alto Nilo. Nefer era nata sotto un raggio funesto di Râ: il raggio azzurro che porta sventura a tutti quelli che tocca.»

Nitokri era rimasta silenziosa. Una profonda compassione traspariva dai suoi occhi bellissimi.

«Povera Sahuri,» disse poi, con un sospiro. «Nata sui gradini d’un trono al pari di me, la felicità ti è mancata.»

Ad un tratto si scosse.

«Mirinri corre qualche pericolo?» gridò.

«Sì, forse a quest’ora ha subito la sorte orrenda dei partigiani di suo padre. Io ho veduto il loro sangue sulle sabbie che circondano la piramide di Rodope.»

«Mirinri minacciato! Forse morto! Attendimi, fanciulla! Guai se mio padre ha osato alzare la mano su di lui! Sarebbe troppo! Sorella, uniamo le nostre forze contro i tristi consiglieri di Pepi: siamo due Faraone!»

CAPITOLO VENTINOVESIMO. Il trionfo di Teti

Un po’ al di sopra di Menfi, ad occidente del Nilo, in quel luogo ove la catena libica comincia ad allargarsi, formando una pittoresca oasi che chiamasi ancora oggidì il Fayum, si apriva quel famoso serbatoio fatto costruire da Amenemhat III che formò per secoli e secoli la meraviglia degli assiri, dei caldei e dei naviganti greci e che era destinato a ricevere le acque sovvabbondanti del fiume ed a regolare l’irrigazione in tutto il paese circostante.

Era un’opera meravigliosa, un bacino immenso che aveva delle dighe di cinquanta metri di spessore e della lunghezza di parecchie decine di chilometri, come si può constatare dagli avanzi che ancora sussistono oggidì, dopo migliaia e migliaia d’anni da che esse furono erette.

Sulle rive del famoso lago di Moeris, come fu chiamato dai Greci che lo visitarono più tardi, sulle cui rive sorgeva il Labirinto, che era il più vasto palazzo del mondo, con più di tremila camere, la facciata di calcare bianco, che si rispecchiava nelle acque, come marmo di Paros e con nel mezzo le due colossali statue di Amenemhat III e sua moglie.

In quel meraviglioso bacino, ventiquattro ore dopo la cattura del disgraziato Ounis, più di centomila persone si erano radunate, scaglionandosi sulle gigantesche dighe che formavano come un immenso anfiteatro.

Al mattino mille araldi avevano fatto echeggiare le loro trombe per le vie della superba metropoli, annunciando uno spettacolo emozionante ed invitando gli abitanti a radunarsi nel serbatoio, che le acque del Nilo non avevano ancora invaso, non avendo il fiume raggiunto ancora la sua massima piena; e migliaia e migliaia di persone si erano rovesciate sulle dighe, quantunque ignorassero ancora di che cosa veramente si trattasse.

La notizia però che anche il re, seguito dalla sua corte sfarzosa, vi avrebbe preso parte, aveva bastato per muovere i buoni menfini assieme alle loro famiglie.

L’ora dello spettacolo era stata fissata a tre ore prima del tramonto, sicché quando il sole cominciava a declinare rapidamente e l’aria a rinfrescarsi, tutte le dighe che si stendevano di fronte al meraviglioso palazzo del Labirinto si erano coperte di spettatori. Sulla facciata del palazzo le due gigantesche statue di Amenemhat e della sua consorte, si ergevano superbamente in attesa che i flutti del sacro Nilo, scendenti dal cielo, bagnassero i loro piedi estendendosi intorno a loro con flebili mormorii, come un gran mostro soggiogato dai suoi possenti vincitori.

Pepi, seguito da tutta la sua corte, composta di grandi dignitari, di ciambellani, di sacerdoti, di arcieri, di guardie reali, di suonatrici e di danzatrici, che facevano echeggiare rumorosamente i loro svariati istrumenti musicali e da un gran numero di giovani schiavi, che reggevano immensi ventagli risplendenti d’oro e sormontati da magnifiche penne di struzzo e diversi simboli religiosi di metallo prezioso, era giunto all’ora fissata.

Dinanzi alla candida facciata del Labirinto era stato innalzato per lui e pei suoi dignitari un palco grandioso, a tinte smaglianti, coperto da un immenso velario di finissimo lino a grandi fascie multicolori e vi aveva subito preso posto, sedendosi su una specie di trono altissimo, da cui poteva dominare tutto il bacino e le gigantesche dighe.

Il popolo notò subito, con un certo stupore, che Nitokri non lo aveva accompagnato. Ignorava che in quel medesimo momento la giovane Faraona, accompagnata da Nefer e da uno stuolo di schiavi e di guardie, si dirigeva verso la Necropoli per far spezzare la durissima pietra murata nella serdab principale, ove Mirinri era stato chiuso.

Un grande silenzio si era fatto, rotto solo dal rumoreggiare monotono delle acque scorrenti lungo le dighe, impazienti di precipitarsi nell’immenso serbatoio e di fecondare quelle terre benedette dal sole. Pareva che tutte quelle migliaia di persone avessero trattenuto il respiro.

Un lungo squillo di tromba, seguito tosto dalle prime battute della fanfara reale, avvertì la moltitudine che lo spettacolo promesso stava per cominciare. Alcune guardie, uscite dal palazzo del Labirinto, si erano avanzate verso la diga di ponente, scendendo la gradinata che conduceva nel fondo del serbatoio. Scortavano un vecchio d’aspetto imponente, dalle membra ancora robustissime, coperto solo da un corto kalasiris, stretto ai fianchi, munito d’uno scudo semiovale, simile a quello che usavano i guerrieri di quell’epoca e armato d’una daga di bronzo dalla lama molto larga e molto pesante: era Ounis!

Il vecchio, quantunque ignorasse ancora contro chi l’usurpatore desiderava che si misurasse, procedeva tranquillo, a testa alta, impugnando saldamente la daga, destando una profonda ammirazione fra gli spettatori che si erano tutti alzati in piedi per meglio osservarlo.

Quando giunse fra le due gigantesche statue fu lasciato solo e le guardie si ritrassero correndo.

Quasi nel medesimo istante da una delle gallerie sotterranee che servivano di canale per le acque del Nilo, si vide balzare fuori, con un salto immenso, un superbo leone libico, di forme poderose, con una lunga criniera quasi nera.

Un immenso grido, somigliante al rumoreggiare sinistro di una grande marea od al rombo d’un maremoto, s’alzò fra i centomila spettatori.

Si ribellavano contro la ferocia del loro re, che esponeva un vecchio, probabilmente un guerriero a giudicarlo dal modo con cui erasi prontamente coperto collo scudo e dal fiero atteggiamento. Oppure salutava il leone? Ounis, immobile, colla daga tesa, il corpo curvo innanzi per offrire minor bersaglio alle terribili unghie del carnivoro, attendeva intrepidamente l’assalto, con un sorriso strano sulle labbra.

La belva, che era stata probabilmente tenuta a digiuno per qualche giorno, udendo l’urlo della folla si era arrestata, poi, vedendo la preda dinanzi a sé, spinta dalla fame aveva spiccato un secondo salto, cadendo a cinque o sei passi da Ounis.

Ad un tratto, mentre stava per spiccare l’ultimo, s’accasciò guardando in aria e mandando un lungo ruggito che si ripercosse come un colpo di tuono entro le gigantesche dighe. Tutti gli spettatori erano nuovamente balzati in piedi, guardando anche essi verso il cielo. Un terrore improvviso pareva che avesse sorpreso tutti: uomini e bestie.

Quale strano fenomeno succedeva? L’aria si era fatta rapidamente oscura, le dighe cambiavano tinta, il palazzo del Labirinto, prima tutto bianco come l’alabastro, aveva assunta una tinta grigiastra, il cielo all’orizzonte prendeva delle sfumature verdastre, i raggi del sole sparivano: tutta la natura sembrava sul punto di spegnersi.

Gli aironi e le ibis, che prima volteggiavano in gran numero al di sopra del serbatoio, si lasciavano cadere al suolo, come se fossero state improvvisamente colpite da freccie invisibili; in lontananza i buoi che si abbeveravano sulle rive del Nilo, muggivano sinistramente, i cani urlavano lugubremente ed i volti degli spettatori assumevano delle tinte cadaveriche.

Sembrava che qualche sinistro avvenimento stesse per piombare sull’Egitto. Dai quattro punti cardinali, delle dense tenebre salivano, invadendo con velocità fantastica il cielo, mentre il sole spariva dietro una immensa macchia nera.

Uno spavento indicibile si era impadronito di tutti gli spettatori. Perfino Pepi si era alzato, guardando l’astro diurno che si ottenebrava. Poi un gran grido si confuse coi muggiti dei buoi e colle urla dei cani:

«Râ fugge!»

Il ruggito del leone vi fece eco. Il formidabile carnivoro pareva che non pensasse più alla preda umana che gli stava dinanzi. Si era accovacciato, rannicchiandosi su se stesso, come se avesse perduto completamente la sua istintiva ferocia.

Ounis però non l’aveva dimenticato. Uomo d’una coltura superiore, aveva subito capito che quel fenomeno non era altro che una eclissi totale di sole, e quelle tenebre che piombavano sulla terra non l’avevano punto spaventato. Râ, il disco solare, veniva nel supremo momento in suo aiuto e ne approfittò. Con un salto fu sopra al leone, la sua daga balenò in aria e scomparve tutta intera nel petto della belva.

Il ruggito formidabile che uscì dalle fauci spalancate della fiera, strappò bruscamente il pubblico dal suo terrore. Abbassò gli occhi verso il fondo del bacino e nella penombra scorse il vecchio con un piede sul leone già morente e la daga sanguinante in mano.

«Popolo!» gridò allora Ounis, con voce tuonante. «Râ si è offuscato per non assistere all’assassinio d’uno dei suoi figli. Non riconosci più dunque tu Teti, il vincitore dei Caldei, quel Teti che un giorno chiamasti Grande e che mio fratello, quell’uomo che siede sul palco reale e che impallidisce sotto il mio sguardo, fece credere morto? Popolo, il tuo re è vivo ed è tornato in questa Menfi orgogliosa, dove ha regnato. Tu vedi nel segno che ti ha dato Râ la mia origine divina! Nell’uccisione di questo leone il valore dell’antico guerriero che debellò le orde asiatiche! Ed ora, guardami in viso e se mi riconosci ancora, vieni con me a strappare dalla fronte di mio fratello, di colui che mi rubò il potere, il simbolo di vita e di morte, per darlo a mio figlio, che per diciott’anni ho nascosto e allevato nel deserto!».

Fra i centomila spettatori regnò per qualche istante un profondo silenzio. La notte che era piombata, l’audacia del vecchio guerriero che aveva ucciso il leone, l’accusa terribile che aveva lanciato contro l’usurpatore, lo sgomento manifestatosi improvvisamente nel palco reale, il ricordo del grande re che aveva salvato l’Egitto e che mille vaghe voci avevano affermato essere davvero vivo, avevano prodotto un effetto impossibile a descriversi su quella moltitudine.

Poi tutto d’un tratto delle voci isolate echeggiarono:

«Sì, egli è Teti! Ieri Pepi ha reciso le mani ai suoi partigiani! Viva il vincitore dei Caldei! Popolo, seguiamolo!»

Sembrò che un muggito, uscito dalle fauci di migliaia di fiere, facesse tremare le immense dighe del bacino. Il popolo si precipitava, con rombo spaventevole, giù dalle gradinate, mentre Pepi e la sua corte abbandonavano precipitosamente il palco reale, fuggendo verso Menfi.

In quel momento il sole riappariva raggiante e le tenebre si dileguavano.

«Ecco Râ che torna!» tuonò Teti. «Egli ci illumina la via! Vieni popolo! Il tuo re ti guida!»

«Al palazzo reale!» urlarono migliaia di voci. «Viva Teti!»

Il vecchio, che imbracciava ancora lo scudo e che impugnava la daga sanguinante, aveva saltato via il leone e s’avviava verso il Labirinto. I centomila spettatori, guidati da alcuni partigiani del vecchio re, lo seguivano in falangi compatte, fra un urlìo assordante. Egli salì la gradinata, poi, giunto sulla cima, dominando colla sua voce tuonante il fracasso e alzando la daga, gridò:

«Al palazzo reale! Menfi questa sera avrà un altro re!»

«Viva Teti!» rispose la folla, che pareva in preda ad un vero delirio.

Quando l’immensa colonna rientrò in Menfi, la città era in subbuglio.

La voce che Teti, della cui morte già molti avevano dubitato, era ricomparso, si era divulgata colla rapidità del lampo e gli abitanti scendevano nelle vie armati, pronti a farsi uccidere in difesa del salvatore dell’Egitto.

Il grido di: «Viva Teti il grande!» risuonava in tutti i quartieri della metropoli, dalle rive del Nilo ai margini del deserto e nuove falangi si aggiungevano a quelle già sterminate, uscite dal gigantesco serbatoio. Una specie di guardia reale si era formata, avvolgendo Teti, che s’avanzava sempre alla testa del popolo, in uno spazio lasciatogli libero.

Quando le falangi giunsero dinanzi al palazzo reale, trovarono tutte le porte spalancate. Guardie, arcieri, dignitari, favoriti, tutti erano vilmente fuggiti. Teti sostò un momento a guardare quella grandiosa costruzione ove aveva regnato da grande monarca, poi entrò nell’ampio peristilio e salì il marmoreo scalone, penetrando audacemente nella immensa sala del trono che più nessuno difendeva. Dalle ventiquattro porte di bronzo, che nessuno aveva chiuse, il popolo si era già riversato con terribili clamori.

Vanusepiirang:
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Ilmumiskuupäev Litres'is:
30 august 2016
Objętość:
340 lk 1 illustratsioon
Õiguste omanik:
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