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Loe raamatut: «I Vicere», lehekülg 13

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C’erano stati sempre numerosi partiti, a San Nicola; perché, trattandosi d’amministrare un patrimonio grandissimo, e di maneggiare grossi sacchi di denaro, e di distribuire larghe elemosine, e di dar lavoro a tanta gente, e d’accordar case gratuite e posti non meno gratuiti al Noviziato, e d’esercitare insomma una notevole influenza in città e nei feudi, ciascuno ingegnavasi di tirar l’acqua al suo mulino; ma, al tempo dell’ammissione del principino, i contrasti erano quotidiani e violenti. L’Abate aveva, prima di tutto, i suoi partigiani; ma non tutti i buoni monaci erano per lui, non garbando a qualcuno che il supremo potere fosse in mano d’un forestiere. Don Blasco col suo codazzo cercava d’attirar costoro, gridando che bisognava mandare a casa sua quel «napolitano mangiamaccheroni»; ma, benché d’accordo su ciò, l’opposizione si divideva poi novamente, quando aveva da scegliere il successore. Non mancava il partito di quelli che dichiaravano non aver partito; e don Lodovico, modello del genere, tenendosi da parte, navigando sott’acqua, era riuscito ad agguantare il priorato. Parecchi sostenevano anzi che, in fin dei conti, egli era il solo meritevole d’aspirare alla dignità abaziale; ma allora suo zio, per evitare che quel «gianfottere» si ponesse in capo la mitra, quasi sosteneva l’Abate Cosenzano. Né lo stesso don Lodovico ammetteva che gli parlassero della promozione: se qualcuno gliela prediceva, protestava:

«L’Abate per ora è Sua Paternità ed a me tocca obbedirlo prima d’ogni altro.»

L’Abate in persona, stanco di quella galera, gli confidava di volersi ritirare per cedergli il posto: quando pure non avesse pensato a mettersi da canto, presto o tardi la morte non ci avrebbe pensato per lui? E il Priore:

«Vostra Paternità non parli di queste cose!… Sono cose che contristano il cuore d’un figlio devoto, Padre Reverendissimo.»

Il vecchio lo prendeva allora a suo confidente, si lagnava del poco rispetto dei monaci, dello scandalo che molti continuavano a dare con la loro vita libertina. Il Priore scrollava il capo, in atto dolente:

«Il glorioso nostro fondatore, Padre dei monaci, ci insegna qual è il rimedio contro gli errori dei traviati: l’orazione dei buoni, acciocché il Signore, che tutto può, dia salute agli infermi fratelli…»

Pertanto egli non riprendeva nessuno, non dava corso ai richiami che spesso venivano a fargli, lasciava che ognuno cocesse nel proprio brodo. Fra quella trentina di cristiani non c’era mai un momento di pace e di accordo. Se la quistione delle persone divideva il convento in un certo modo, i partiti erano poi scompigliati dalla politica che raggruppava i Padri in ordine tutto diverso. V’erano i liberali, quelli che al Quarantotto avevano parteggiato pel governo provvisorio e ospitato la rivoluzione in persona dei suoi soldati; e v’erano i borbonici, che i liberali chiamavano sorci. Don Blasco capitanava questi ultimi, in mezzo ai quali stavano molti amici del Priore; i liberali, che nelle quistioni d’ordine interno erano quasi tutti con l’Abate effettivo, borbonicissimo, obbedivano politicamente all’Abate onorario Ramira, quello del Quarantotto. Quindi, se spesso s’udivano le voci dei Padri che dicevano male parole ai fratelli e mandavano a quel paese i camerieri, gli strepiti salivano al cielo appena cominciavano le discussioni sugli avvenimenti pubblici, all’ombra dei portici o dinanzi al portone: liberali e borbonici quasi venivano alle mani, a proposito della fine della guerra di Crimea, del Congresso di Parigi, della parte che vi sosteneva il Piemonte. Don Blasco era violento contro quel «piemontese mangiapolenta» di Cavour e lo colmava d’improperi, rammentando la storia della rana e del bue, profetando che sarebbe scoppiato a furia di gonfiarsi come una vescica. Era più terribile ancora contro il sistema costituzionale di cui i liberali avevano l’uzzolo: esclamava che il miglior atto compiuto da Ferdinando ii era stato il 15 maggio, quando aveva fatto prendere a baionettate «i buffoni e i ruffiani» di palazzo Gravina. E se i liberali dicevano che avrebbero dato il ben servito al Re un’altra volta, gridava:

«Lo manderete via voi altri, se mai; ché ve ne basta l’animo, con quei pancioni!»

E quando sentiva esaltare la bontà del giovane Re di Sardegna, alzava le braccia sul capo, scotendo le mani come alacce di pipistrello, con un gesto d’orrore disperato: «Passa Savoia!… Passa Savoia!…» Nel 1713 quando Vittorio Amedeo, assunto al trono di Sicilia, era venuto nell’isola, in pompa, traversandola da un capo all’altro, il passaggio del nuovo sovrano era stato seguito da una mala annata come da un pezzo non si rammentava l’eguale; e nelle popolazioni spaventate ed ammiserite era rimasto in proverbio quel detto: «Passa Savoia! Passa Savoia!…» come il sintomo d’una sciagura, d’un castigo di Dio.

«E volevano un altro dei loro, al Quarantotto, come se non fosse bastato il primo! Ci volevano ridurre peggio di quel Piemonte morto di fame che spoglia i conventi!…»

Anche tra i novizi v’erano partiti politici: i liberali, rivoluzionari, piemontesi; e i borbonici, napolitani, sorci; ma se fra i monaci i due campi disponevano di forze quasi eguali, qui i liberali erano in maggioranza.

«Sono tutti i morti di fame,» spiegava don Blasco al principino; «quelli che a casa loro non hanno di che mangiare, e qui disprezzano il ben di Dio e le lasagne che gli piovono in bocca bell’e condite!»

Questo non era vero del tutto, perché capitanava i novizi liberali Giovannino Radalì Uzeda, il quale apparteneva ad una famiglia che per nobiltà e ricchezza veniva subito dopo gli Uzeda del ramo diritto: quantunque secondogenito, se fosse rimasto al secolo gli sarebbe toccato il titolo vitalizio di barone. Ma il principino seguiva egualmente le opinioni degli zii don Blasco e donna Ferdinanda: amico e compagno di giuoco del cugino, era suo avversario in politica; e quando i rivoluzionari parlavano fra di loro, quando complottavano per sollevare il convento e scendere in piazza con una bandiera di carta tricolore, egli stava alle vedette e interrogava i più ingenui, e poi andava a ripetere le notizie allo zio, perché li denunziasse all’Abate; tanto che don Blasco ebbe presto in tutt’altra considerazione il pronipote.

«Questo gianfottere non è poi tanto minchione quanto pare… Sì, sì,» approvava, lodando lo spionaggio di Consalvo; «ascolta quel che dicono e poi vieni a riferirmelo.»

Anche tra i fratelli la politica metteva dissidi e nimistà; i più furbi, veramente, non s’impicciavano né di Cavour né di Del Carretto, e badavano a ingrassare le loro famiglie con le racimolature del monastero, ma parecchi parteggiavano o pel governo o per la rivoluzione. Uno specialmente, fra’ Cola, capo rivoluzionario, parlava sempre di ricominciar la giocata del Quarantotto; i novizi liberali gli facevano raccontare la storia di quel tempo; e quando egli li serviva, a tavola, quando versava in giro l’acqua od il vino dal gran boccale di cristallo che reggeva con la destra, faceva di nascosto, con l’indice e il medio della sinistra, il segno d’una forbice che taglia. Il principino domandò un giorno a Giovannino Radalì che volesse dire; il cugino rispose:

«Vuol dire che ai sorci bisogna tagliargli le code.»

Consalvo riferì la cosa allo zio, e fra’ Cola, in punizione, fu mandato alla casa di Licodia, in mezzo alla malaria. Fra’ Carmelo, pertanto, non s’occupava mai di politica e quando gli domandavano se era liberale o borbonico, faceva il segno della santa croce:

«Vi scongiuro per parte di Dio! So molto di queste cose! Queste sono opere del Nemico!»

Per lui non c’era altro mondo fuori di San Nicola, né altra potestà fuor di quella dell’Abate, del Priore e dei Decani. Bisognava sentirlo, quando enumerava tutti i diciotto titoli dell’Abate, quando nominava i Re, le Regine, i Principi reali, i Viceré, i baroni che avevano dotato il convento. Ogni domenica, in Capitolo, l’Abate leggeva la litania di quei reali o principeschi donatori, in suffragio delle cui anime andavano dette altrettante messe quotidiane; ma spesso ne recitavano una sola all’intenzione di tutti quanti: il ristoro dei morti era lo stesso, e i vivi non stavano a perdere tanto tempo.

In generale, i Padri avevano fretta di sbrigarsi, e intendevano fare il comodo loro. Per non scendere giù in chiesa, a mattutino, quando faceva freschetto, essi avevano ordinato, molti anni addietro, la costruzione di un altro Coro, chiamato Coro di notte, in mezzo al convento; ed anzi era costato parecchie migliaia d’onze, tutto di noce scolpito; ma adesso i Padri non si levavano neppur per andar lì, a due passi; restavano a covar le lenzuola fin a giorno chiaro, e il mattutino lo facevano recitare per loro conto ai Cappuccini, dietro pagamento. Viceversa poi, nelle grandi solennità religiose, a Natale, a Pasqua, per la festa del Santo Chiodo, tutti prendevano parte alle cerimonie la cui magnificenza sbalordiva la città.

Le prime a cui assistette il principino furono quelle della Settimana Santa. Durante un mese la chiesa fu sossopra, per la costruzione del Sepolcro, in fondo alla navata di sinistra: chiusa da un grande impalcato, con le finestre sbarrate, tutta adorna di candelabri di cristallo splendenti come blocchi di diamanti, e di vasi col grano lasciato crescere al buio perché non prendesse colore, e popolata di statue rappresentanti la Sacra Famiglia e gli Apostoli, era veramente irriconoscibile. Il giovedì, a terza, tutto il monastero scese in chiesa, pel Pontificale, con l’Abate alla testa, a cui i novizi portavano il bacolo, la mitra e l’anello e i caudatari reggevano lo strascico. L’apparato era quello della Regina Bianca, tutto di drappo rosso ricamato d’oro, e sull’organo maestoso di Donato del Piano, tenori, bassi e baritoni scritturati a posta cantavano il Passio che la folla pigiata stava a sentire come al teatro. Dirimpetto al soglio dell’Abate, nei posti migliori, c’erano tutti gli Uzeda: il principe e il conte con le mogli, donna Ferdinanda, Lucrezia, Chiara col marito; i quali, scorto Consalvo, gli facevano segno col capo, sua madre e la zitellona specialmente, ammirando la sua cotta candida e insaldata a mille piegoline, lavoro speciale delle Suore di San Giuliano. S’udiva per tutta la chiesa, quando la voce potente dell’organo taceva, un ronzìo come d’alveare, un urtarsi di seggiole, lo stropiccìo dei passi; luccicavano i fucili e le sciabole dei soldati disposti dinanzi alle tre porte e lungo le navate per aprire il varco alla processione, più tardi. Intanto dodici poveri, rappresentanti i dodici Apostoli, erano entrati nel Coro; l’Abate, inginocchiato, lavava loro i piedi – seconda lavatura; essendo la prima già fatta in sagrestia affinché Sua Paternità per lavar quei piedi non s’insudiciasse le mani.

Un mormorìo venne in quel momento dal fondo della chiesa; Consalvo, dall’altare maggiore, si voltò e vide che lo zio Raimondo, lasciato il suo posto, si faceva largo tra la folla dirigendosi verso una signora. Era donna Isabella Fersa. Come tutte le altre dame, per la tristezza della Passione, vestiva di nero; ma il suo abito era così ricco, tanto guarnito di gale e di merletti, da parere un abito da ballo. Arrivata tardi, non trovava un buon posto; Raimondo, raggiuntala, le diede il braccio e la condusse, in mezzo a una doppia ala di curiosi, alla propria seggiola, accanto a quella di sua moglie. La contessa Matilde, che usciva quel giorno la prima volta dopo l’infermità, era tutta bianca in viso, e l’abito di lana nera contribuiva a farla parere ancora più pallida. Poi, giusto in quel punto Gesù moriva: la chiesa oscuravasi repentinamente, i fratelli rovesciavano i candelieri sugli altari, toglievan via le tovaglie bianche e le sostituivano con quelle violacee, avvolgevano d’un velo la croce; e i monaci anch’essi, lasciati i paramenti di festa, indossavano quelli del corrotto. Nella penombra, i ceri risplendevano con fiamma più viva, e il Santo Sepolcro era una raggiera, dalle tante torce, dalle tante lampade, dai tanti riflessi dei cristalli e degli ori. Donna Isabella guardava con l’occhialetto lo spettacolo, mentre il conte, chino su lei, le nominava ad uno ad uno i monaci e i novizi.

«Quello lì non è il vostro nipotino?… Che bel chierichetto, contessa!…»

Matilde fece col capo un gesto ambiguo. L’organo intonava il Miserere, e il canto doloroso era pieno di sospiri profondi, di lunghi lamenti che facevano echeggiare ogni angolo della chiesa scura, di schianti terribili per cui l’aria tremava, di gemiti lunghi come quelli del vento invernale. Pareva che il mondo dovesse finire, che non vi fosse speranza più per nessuno; Gesù era morto, era morto il Salvatore del mondo; e i monaci, a due a due, con l’Abate a capo, scendevano dall’abside, giravano per l’immensa chiesa tra due file di soldati che contenevano la folla e presentavano le armi capovolte; poi l’Abate deponeva l’Ostia al Sepolcro. Inginocchiata col capo sulla seggiola e il viso nascosto dal fazzoletto, la contessa singhiozzava pianamente; donna Isabella esclamava:

«Che effetto produce questa funzione!…»

Aveva anch’ella gli occhi un po’ arrossati, ma quando il conte le ridiede il braccio per condurla in sagrestia s’appoggiò a lui languidamente.

«Per legge, non potrei venire…» protestava. «Sono ammesse le sole famiglie…»

«Ma che!… Siete con noi! Diremo che siamo cugini…»

Nella sagrestia ai parenti dei monaci e dei novizi era offerto un lauto rinfresco: giravano i vassoi con le tazze di cioccolata fumante, con le gramolate e i dolci e il pan di Spagna. Consalvo, in mezzo alla mamma e a donna Isabella, riceveva carezze e complimenti pel modo esemplare col quale aveva preso parte alle funzioni; Padre Gerbini, senza avere ancora lasciato i paramenti mortuari, salutava le signore, le invitava per la cerimonia del domani.

E il venerdì gli Uzeda arrivarono coi Fersa; il conte dava il braccio a donna Isabella, che portava un altro abito nero, più galante del primo. I sagrestani avevano serbato loro gli stessi posti, facendovi la guardia in mezzo alla folla burrascosa. Ma i soldati la frenavano e quando l’organo accompagnava il canto lugubre delle Tre Ore d’agonia, il silenzio era profondo; solo Raimondo, seduto accanto a donna Isabella, le diceva all’orecchio cose che la facevano sorridere. Intanto l’Abate eseguiva la cerimonia della Deposizione della Croce: preso il Crocifisso velato, lo deponeva per terra, sopra uno dei gradini dell’altare, dove un cuscino di velluto, tutto trapunto d’oro, era preparato apposta. I monaci se ne andavano via, il Sepolcro restava un momento vuoto; a un tratto, mentre l’organo riprendeva più triste le sue lamentazioni, tutti riuscivano dalla sagrestia, in processione, a due a due, col Superiore alla testa; erano senza scarpe, coi piedi nelle calze di seta nera, per l’Adorazione della Croce. Inginocchiandosi a ogni passo, in mezzo alla siepe dei soldati, scendevano fino alla porta maggiore, risalivano fino all’altare, lì ad uno ad uno si buttavano per terra dinanzi al cuscino del Cristo morto e lo baciavano. La folla saliva sulle seggiole, per godersi meglio tutta la vista, donna Isabella e Raimondo si passavano il cannocchiale, intanto che la contessa, genuflessa, pregava piangendo. Alla fine della cerimonia, altro rinfresco in sagrestia; il principino, vezzeggiato da tutti, fece servire prima i suoi parenti: don Eugenio beveva cioccolata come fosse acqua, si ficcava in tasca i dolci che non poteva mangiare; ma la zia Matilde non prese nulla.

Il Sabato Santo, per la funzione della Resurrezione, Consalvo non la vide; lo zio Raimondo dava sempre il braccio alla signora Fersa.

7

Ogni sera, al capezzale della bambina, tenendola per la manuccia fredda e bianca come di cera, senza fare alcun moto col braccio irrigidito per non destare la piccola dormiente, la contessa vegliava fino a tardi. A notte alta serravano i portoni e nella casa addormentata non s’udiva più alcun rumore; solo dallo stanzino attiguo veniva il lieve russare della balia accanto al letticciuolo di Teresina. Raimondo non rientrava. Sul comodino stavano schierate le bottiglie dei medicamenti, i vasetti di pomata, tutta la farmacia prescritta dal dottore per la povera malatuccia. Era erpete quell’infermità, dicevano; cattivo umore che si sfogava con eruzioni cutanee, con ingorghi di glandole: tutti sintomi rassicuranti, poiché volevan dire che l’organismo espelleva il principio morboso.

Ella s’era votata alla Madonna delle Grazie, le aveva promesso di vestire il suo abito fino alla guarigione di Lauretta; in cuor suo aveva chiesto un’altra grazia alla Madonna: di illuminare Raimondo, di ridestare il suo affetto di marito e di padre.

Fin da quando erano andati a Milazzo, secondo la promessa fattale al Belvedere dopo il colera, egli aveva ricominciato a smaniare, a mostrarsi infastidito e crucciato, a dichiarare che non poteva restare a lungo lontano da casa sua per gli affari della divisione. Ed ella s’era appena sgravata, stava ancora tra vita e morte dopo un parto difficilissimo, quando, addotta una chiamata del fratello, egli se ne partì. Rimase lontano pochi giorni, ma era la prima volta che l’abbandonava giusto nel momento che la compagnia e l’assistenza di lui le erano più necessarie. La nuova tristezza non giovò certamente a darle forza per vincer presto il male; ma un dolore più grande l’aspettava e i suoi presagi dovevano tutti avverarsi, poiché la creatura che ella aveva portata in grembo mentre il suo cuore agonizzava era venuta al mondo così debole e stremata e cagionevole che pareva da un momento all’altro dovesse mancare. Lunghi e lunghi mesi erano così passati, quasi un anno intero, senza che ella potesse lasciar la casa paterna e il capezzale della bambina: durante quell’anno Raimondo era andato e venuto, partito e ritornato parecchie volte, ed ella aveva a poco a poco fatta l’abitudine a quelle assenze, non potendo seguirlo né opporsi alle ragioni d’affari che le adduceva. Quando i medici ordinarono il mutamento di aria alla creatura convalescente, egli volle condurre tutti a Catania. Anche il barone lasciava Milazzo, andava a Palermo con l’altra figlia Carlotta; perciò Teresina, non potendo restar sola, venne col babbo. Non era parso vero a Matilde di vedere Raimondo premuroso per le figlie, ed ella aveva quasi benedetto le sue sofferenze, se per esse godeva di quella tregua; ma appena arrivata in casa degli Uzeda, aveva visto ricadere la sua figliuolina e Raimondo trascurarla, lasciarla sola in mezzo a quei «parenti» che la guardavano come prima di traverso e, cosa più dura al suo cuore di madre, la ferivano nelle sue bambine. Della più piccola deridevano le sofferenze e predicevano la morte; ma le maggiori ostilità erano contro Teresina. La bambina, vivace, curiosa, inquieta, commetteva spesso qualche monelleria, guastava qualche cosa nei suoi giuochi, gridava allegramente correndo per le stanze; allora la rimproveravano, la mandavano via; il principe diceva d’aver messo Consalvo ai Benedettini giusto per star tranquillo in casa, e invece gli disordinavano tutto, gli toccava udire strilli peggio di prima… Egli era più indulgente per la propria figlia, l’altra Teresina, e tutta la famiglia e gli stessi servi trattavano diversamente le due cuginette, dando il primo posto alla principessina. La stessa principessa Margherita, sola buona e dolce, non poteva nascondere la preferenza per la figliuola; e Matilde, benché riconoscesse che avevano ragione, soffriva di questa disparità di trattamento.

Teresina sua, a sei anni, era vana come una donnina: si guardava a lungo allo specchio, assisteva all’acconciarsi della mamma sgranando tanto d’occhi, andava matta pei nastri, per gli spilloni, per le pezze vecchie; e la zitellona se la prendeva con la civetteria di sua madre, scoteva la testa predicendo male dell’avvenire, faceva piangere la contessa a quella specie di malìa operata contro l’innocente. Incrudelivano su lei per un’altra ragione, adesso; perché il viaggio del barone a Palermo aveva lo scopo di combinare il matrimonio dell’altra figlia Carlotta. Pretendevano che questa non si maritasse, che ella s’opponesse ai disegni del padre, alla felicità della sorella, affinché tutta la sostanza paterna restasse un giorno a lei! E poiché simili calcoli non capivano nella sua mente, la guardavano in cagnesco, la martoriavano nelle sue bambine, quasi ella avesse loro portato via qualcosa…

Raimondo, in verità, non mostravasi per nulla crucciato dei disegni di matrimonio; ma ricominciava a trascurarla, scappava via subito dopo colazione, tornava al finire del desinare per andar fuori un’altra volta fino a notte tarda. A veder maltrattare le sue figlie, Matilde sentiva le lacrime salirle agli occhi; si chiudeva in camera con Teresina, la scongiurava di star buona, si studiava di trattenerla quanto più a lungo era possibile perché non tornasse di là; né quando Raimondo rincasava ella accusava i parenti di lui, per evitargli un dispiacere, perché non dicessero che veniva a seminar zizzania in famiglia: lo pregava soltanto di non lasciarla sempre sola… L’ostilità degli Uzeda verso di lei, i rimproveri e gli scherni rivolti alle sue creaturine, tutto le sarebbe parso nulla, se la gelosia non fosse tornata a roderla. Egli aveva ripreso a corteggiare la Fersa, andava a trovarla in casa, tutte le domeniche in chiesa s’incontravano alla stessa messa: ed ella non poteva più pregare, vedendosi dinanzi costei, comprendendo che egli non l’aveva dimenticata, che era di nuovo sedotto dalla sua eleganza, dalla languidezza dei suoi atteggiamenti, dai gesti studiatamente graziosi coi quali portavasi il fazzoletto profumato alle labbra, o agitava il ventaglio di piume, guardandosi attorno, o chinava il capo sul libro delle preghiere senza voltarne mai una pagina!… In chiesa! Nella casa di Dio!… Ella non poteva comprendere quella commedia, le pareva un continuo, enorme sacrilegio. E a San Nicola, per le cerimonie della Passione, era venuta con abiti di gala, come ad un allegro spettacolo, facendo voltar la gente con la sconvenienza del suo contegno!… Perché dunque Raimondo doveva metterle vicino costei, far notare anche lui alla gente un’assiduità che già dava argomento a mormorazioni?… Il giorno di Pasqua, piangendo di dolore e di tenerezza, ella s’era confessata con suo marito, al capezzale di quell’innocente: «Per questo giorno solenne, per amore di questa innocente, giurami che non mi farai più soffrire…» Ed egli le aveva domandato: «Che ti faccio? Di che mi accusi?…» «Mi lasci, trascuri le tue figlie, non pensi a noi, non ci vuoi più bene…» Scrollando il capo, Raimondo aveva esclamato: «Le tue solite fissazioni, le tue solite fantasie!… Ti trascuro? Come ti trascuro? Quando, perché, per chi ti dovrei trascurare?…» Per chi?… Per chi?… E con più calore egli aveva ripreso: «Sicuro, per chi? Ricominci, colla tua sciocca gelosia? Ti sei messa qualche altra fisima in testa?… Per donn’Isabella, eh?…» L’aveva nominata lui! «Ho capito! Perché le ho ceduto la mia sedia, perché l’ho invitata con noi!… Ma queste, cara mia, sono regole di buona creanza. Bisognava venire in questa bicocca miserabile per sentirsi rimproverare una cosa simile!…»

E in quell’estate del ‘57 fu visto più assiduo coi Fersa; al teatro, dove andava tutte le sere, nella barcaccia, saliva spesso nel loro palco quand’era la loro volta d’abbonamento; li incontrava anche dalla zia Ferdinanda, dalla quale donna Isabella andava spessissimo; al Casino dei Nobili giocava quasi sempre col marito, dal quale si lasciava vincere ogni giorno. Quantunque potesse servirsi della carrozza del fratello, aveva comperato una magnifica pariglia di purosangue e un phaeton nuovo fiammante col quale andava dietro alla carrozza dei Fersa: alla Marina, quando c’era musica, scendeva, lasciando le redini al cocchiere, per mettersi al loro sportello e chiacchierare con donna Isabella, con la suocera e col marito. Vestiva con maggiore ricercatezza del solito, non stava mai in casa se non, come per una coincidenza tutta fortuita, quando essi venivano a far visita alla principessa. Il tema del suo discorso era continuamente Firenze, la vita delle grandi città, l’eleganza e la ricchezza degli altri paesi; egli si metteva vicino a donna Isabella, esclamando: «Voi sola mi capite!» quando se la prendeva con la sorte che l’aveva fatto nascere in quella bicocca e ve l’inchiodava, mentre non avrebbe voluto metterci i piedi, mai più: «Ma che proprio ho da lasciar qui l’ossa? Non credo! Non è possibile!…» E udendolo parlare a quel modo, Matilde chiedeva a se stessa perché, dunque, egli non andava via e non manteneva l’altra parte della promessa fattale un anno e mezzo addietro, quella di tornare alla loro casa fiorentina. Per gli affari, forse? Ma quantunque Raimondo non le tenesse discorso di queste cose, ella sapeva che della divisione non si parlava ancora e non si sarebbe parlato per un pezzo.

Prima il colera, poi lo strascico d’inquietudini che la pestilenza aveva lasciato, poi la partenza del fratello, erano state ragioni per le quali il principe non aveva parlato della divisione. Adesso quel nuovo lusso costava a Raimondo; egli chiedeva continuamente a Giacomo somministrazioni in denaro, e questi non gli faceva ripetere le richieste, dimostrando tuttavia che era ormai tempo di procedere alla sistemazione definitiva dell’eredità; ma a Raimondo tornava comodo prendere i quattrini senza stare a far conti, a citare i pagatori morosi, o ad impacciarsi in tutte le noie grosse e piccole dell’amministrazione. Quando il fratello gli esponeva un dubbio, o chiedeva il suo parere intorno alla proroga d’un affitto, alla conclusione d’una vendita, egli rispondeva: «Fa’ tu, fa’ come credi…» L’importante, per lui, era aver denari; alle volte, richiedendone con troppa frequenza, il principe gli diceva: «Veramente, i fattori non hanno ancora pagato; abbiamo avuto molte spese: però, se vuoi, posso anticiparti quel che ti bisogna…» ed egli prendeva i quattrini a titolo d’anticipo o di prestito. Non s’occupava insomma di nulla fuorché di spendere, con una cieca fiducia nel fratello, la quale faceva andare in bestia don Blasco. Già il monaco, saputo l’affare delle cambiali, aveva gettato fuoco e fiamme contro il principe, dichiarandolo capace di aver falsificato la firma della madre, perché «quella bestia di mia cognata era una testa di cavolo, sì, ma non al punto di piantar debiti da una parte e di serbar quattrini dall’altra». E aveva ricominciato ad aizzare gli altri nipoti contro «quell’imbroglione», spingendoli ad impugnare la validità di quegli effetti che chiamava «cavalli di ritorno» perché, se non erano falsi del tutto, dovevano essere vecchie cambiali ritirate dalla principessa, trovate da Giacomo tra le carte e rimesse a nuovo per la circostanza! Ma poiché quell’altre bestie di Chiara, del marchese, di Ferdinando, di Lucrezia facevano orecchio da mercante – come non si trattasse dei loro propri interessi! —, il monaco quasi quasi era stato sul punto di dimenticare l’antica avversione per Raimondo e di andare a svelargli le magagne del coerede e fratello, a gridargli: «Apri gli occhi, se no ti metterà nel sacco e ti mangerà!…» Vedendo ora che erano tutt’una cosa, si rodeva il fegato notte e giorno, e un ultimo fatto l’aveva inviperito e indotto a strepitare contro quei «pazzi e birbanti» al convento, nelle farmacie, anche per le pubbliche strade con la prima persona capitata. Alla zolfara dell’Oleastro gli Uzeda, scavando scavando, avevano oltrepassato, sotterra, il confine della proprietà superficiale: i proprietari limitrofi iniziavano quindi una lite. Raimondo, a cui l’apposizione d’una semplice firma in coda alle ricevute ed ai contratti già pesava, mostrò in quell’occasione al signor Marco, che veniva per fargli leggere gli atti della lite, il proprio fastidio per tutte quelle continue «seccature»; allora il signor Marco gli propose: «Vostra Eccellenza perché non fa una procura al signor principe? Così risparmierà tante noie e le cose anderanno anche più spedite, fin a quando, pagate le sorelle di Vostra Eccellenza, si procederà alla divisione…» Raimondo non se lo fece dire due volte e firmò subito l’atto col quale il principe ebbe mandato d’amministrare l’eredità in nome anche del coerede.

Ora Matilde, conosciuto l’accordo, aveva domandato a se stessa perché mai Raimondo restava ancora in Sicilia? Se non s’occupava più degli affari, qual altro interesse ve lo tratteneva? Ed ella ricominciava a struggersi di gelosia, vedendolo ancora una volta accanto a quella donna, non potendo soffrire di vederla trattare da amica mentre una voce interiore l’avvertiva di non fidarsene. Ammalata di cuore e d’imaginazione, con la sensibilità eccitata dai dolori continui, ella adesso credeva ai funesti presentimenti, temeva e sospettava di tutto. Nella felice ingenuità di altri tempi, avrebbe mai accolto il sospetto che il principe lasciasse libero Raimondo di fare quel che più gli piaceva e quasi secondasse i suoi vizi, e lo incitasse a giocare e gli procurasse le occasioni di veder quella donna, per distorglierlo dagli affari ed averne solo il maneggio? Un sospetto così tristo non le sarebbe neppure passato pel capo quando ella credeva tutti buoni e sinceri; adesso, spaventata degli altri e di se stessa, non riusciva a combatterlo… Come respingerlo, se il principe pareva mettere ogni impegno perché quella donna Isabella venisse al palazzo Francalanza, mentre la suocera di lei, donna Mara Fersa, cominciava a mostrare una specie di diffidenza per quelle relazioni divenute troppo intime?…

Donna Mara Fersa aveva tollerato molte cose alla nuora palermitana; la rivoluzione mèssale in casa, il mal nascosto compatimento col quale la trattava, i gusti costosi e le opinioni ardite; ma chiusi tutt’e due gli occhi quando ne soffriva lei stessa, non intendeva chiuderne neppure uno se era in giuoco suo figlio. L’amicizia degli Uzeda, sissignore, stava benissimo e le faceva anche tanto piacere: ma che Raimondo stesse sempre alle costole dell’Isabella, in casa propria o in quella di lei, in chiesa, in teatro ed al passeggio, forse usava a Firenze ed era una cosa elegante, di quelle che lei, educata al vecchio modo, non comprendeva; ma non le piaceva nient’affatto e non intendeva che continuasse. Senza addurne la ragione per non mettere il carro avanti ai buoi, aveva fatto capire al figlio ed alla nuora che, trattando da buoni amici gli Uzeda, non c’era poi bisogno che si spartissero il sonno. Ella predicava ai turchi: Mario Fersa era più che mai infatuato del principe e del conte, donna Isabella sempre insieme con la principessa, con Lucrezia e con donna Ferdinanda. Allora, vedendo inutili le proprie esortazioni, poco sofferente di sapersi disobbedita e inascoltata in una cosa che la nuora doveva intendere alla prima, donna Mara s’era mostrata, incapace di nascondere quel che aveva in corpo, inusitatamente acre ed ironica verso di lei, e nello stesso tempo aveva dichiarato al figliuolo il motivo delle proprie inquietudini. Tuttavia, per non precisar troppo, s’era mantenuta sulle generali, dicendo che quella vita in comune era pericolosa, che in casa Uzeda, oltre ai tanti uomini che vi bazzicavano, si trovavano due giovani come il principe e il conte accanto ai quali non istava bene che l’Isabella si lasciasse vedere continuamente… Suo figlio, però, non l’aveva lasciata finire: «Il principe? Raimondo? I miei migliori amici?…» E dall’indignazione passando al riso: «Sospettar di loro? Di due buoni padri di famiglia?…» Né le ragionate insistenze della madre ebbero altra risposta. Frattanto donna Isabella, al piglio severo, ai modi bruschi solitamente adottati dalla suocera, se prima aveva mostrato di stare in quella casa con una specie di prudente ma dolorosa rassegnazione, prendeva adesso decisamente l’attitudine d’una vera vittima. Con Raimondo, quando costui le diceva la noia, l’infelicità della vita di provincia, ella scrollava il capo, approvava, ma soggiungendo che si poteva star bene anche in una campagna o in un deserto, a patto di sentirsi circondati di premure e d’affetto… di vedersi intorno persone care… capaci di comprendervi e d’apprezzarvi… E donna Mara gonfiava, gonfiava, vedendo che niente riusciva, cercando un mezzo più energico per metter fine a quella «commedia». Fersa, per conto suo, continuava a non accorgersi di nulla, perché avrebbe negato la luce del giorno prima di sospettar della moglie e di Raimondo, col quale faceva vita insieme e stava tutto il giorno e tutte le sere a chiacchierare o a giocare al casino o nella barcaccia del Comunale. Egli era più che mai orgoglioso dell’amicizia che gli dimostrava il principe, dei lunghi discorsi che questi gli teneva, mentre Raimondo e donna Isabella discorrevano in un angolo; e cascava poi dalle nuvole quando la madre gli veniva a dire, bruscamente: «Andiamo via, che è tardi!…»