Lugege ainult LitRes'is

Raamatut ei saa failina alla laadida, kuid seda saab lugeda meie rakenduses või veebis.

Loe raamatut: «I Vicere», lehekülg 17

Font:

«Tanto peggio!» urlava don Blasco. «Capirei un fedifrago risoluto, che avesse il coraggio del tradimento! Ma se tornano i napolitani, colui andrà a baciar loro il preterito!… Vedrete, quando torneranno!…»

Ma non tornavano. Arrivavano invece, una dopo l’altra, le notizie della partenza di Francesco ii da Napoli, dell’ingresso trionfale di Garibaldi, dell’avanzarsi dei piemontesi incontro ai volontari. Al Belvedere, dove il principe tornò alla fine di settembre, per la villeggiatura, Lucrezia lesse i bollettini della battaglia del Volturno che portavano Benedetto Giulente tra i feriti. Ella non pianse, ma si chiuse in camera rifiutando il cibo, sorda ai conforti di Vanna la quale le prometteva che avrebbe cercato di aver notizie dalla famiglia di lui. Il Governatore però s’era già rivolto ai comandanti, al direttore dell’ospedale militare di Napoli; e la risposta, prima che sui bollettini, fu resa di pubblica ragione in un manifesto affissato al Municipio. Il volontario Giulente era ferito d’arma bianca alla coscia destra e si trovava nell’ospedale di Caserta; il suo stato era soddisfacente e la guarigione assicurata.

Egli arrivò quindici giorni dopo, la vigilia del plebiscito, con altri volontari siciliani reduci dal Volturno: lo zio Lorenzo, il duca di Oragua, il Governatore e la Guardia nazionale andarono loro incontro. Il giovane s’appoggiava a un bastone e sventolava il fazzoletto con la sinistra, rispondeva agli evviva della folla. Suo padre e sua madre piangevano, dalla commozione: il duca, facendo loro dolce violenza, prese il ferito nella propria carrozza che s’avviò al Municipio fra un’onda di popolo acclamante. Dal balcone del palazzo di città, gremito di guardie nazionali, di reduci, di patriotti, di cittadini ragguardevoli, Benedetto girò uno sguardo sulla piazza dove non sarebbe cascato un grano di miglio, poi levò la sinistra. La sua fama d’oratore era già stabilita; tacquero a quel gesto.

«Cittadini!» cominciò con voce chiara e ferma. «Noi non possiamo e non dobbiamo ringraziarvi di questa trionfale accoglienza, sapendo come i vostri applausi non siano diretti alle nostre persone, ma all’idea generosa e sublime che guidò il Dittatore da Quarto a Marsala.» Scoppiò un uragano d’applausi in mezzo al quale la voce dell’oratore si perdé. «…sogno di Dante e Machiavelli, sospiro di Petrarca e Leopardi, palpito di venti secoli… ad essa, alla gran patria comune… alla nazione risorta… all’Italia una… gli evviva, gli applausi, il trionfo…» Ad ogni periodo, un gran clamore veniva su dalla piazza; la gente pigiata nel balcone sventolava i fazzoletti, il duca esclamava all’orecchio dei vicini: «Come parla bene!… Che giovane d’ingegno!…»

«Noi abbiamo fatto il dover nostro,» continuava l’oratore, «come voi il vostro. Non poche gocce di sangue, ma la vita stessa avremmo voluto immolare alla gran causa… degni d’invidia, non di rimpianto, sono quelli che poteron dire morendo: “Alma terra natia, la vita che mi desti ecco ti rendo…” Onore ai forti che caddero!… A voi toccò ufficio non meno superbo: dare all’Europa ammirata l’esempio d’un popolo che, spezzate le sue catene, lasciato in balìa di se stesso, già mostrasi degno di quelle libere istituzioni che furono suo secolare retaggio… che un potere aborrito e spergiuro osò cancellare… ma che splenderanno di più vivido raggio!… Cittadini! Applaudite voi stessi… applaudite i vostri reggitori… applaudite questi guerrieri fratelli che, dolenti di non poter pugnare con noi, tutelarono i vostri focolari… applaudite questo insigne patrizio che alle glorie dell’avito blasone accoppia quelle del patriottismo più puro…» Egli additava alla folla il duca maestoso e marziale nella divisa di maggiore. Ma questi, all’idea di dover rispondere, si sentì a un tratto serrar la gola, vide a un tratto la piazza trasformata in un mare terribile, vorticoso e ululante, le cui ondate saettavano sguardi; e lo spasimo della paura fu tale ch’egli dovette afferrarsi alla balaustrata. Però Giulente riprendeva, nella stretta finale, tra applausi assordanti: «Cittadini! Prodigioso è il cammino da noi fatto in cinque mesi; ma un ultimo passo ci resta… L’entusiasmo dal quale vi veggo animati mi dà guanto che sarà fatto… Il sole di domani saluti la Sicilia unita per sempre alla monarchia costituzionale di Vittorio Emanuele!»

Già i sì colossali erano tracciati sui muri, sugli usci, per terra; al portone del palazzo il duca ne aveva fatto scrivere uno gigantesco, col gesso; e il domani, in città, nelle campagne, frotte di persone li portavano al cappello, stampati su cartellini di ogni grandezza e d’ogni colore. Donna Ferdinanda, al Belvedere, scorgendo i contadini che, per non saper leggere, avevano messo le schede sottosopra, esclamava:

«Is! Is!» e pronunziando chis, chis, che è la voce con la quale si mandan via i gatti, commentava: «Ma non dicono sì, dicono is, chis, chis! Fuori, chis!…»

Lucrezia gonfiava, eccitata dalle notizie del trionfo di Giulente, impaziente di tornare in città per rivederlo, irritata dagli sconvenienti motteggi della zia.

Il principe aveva fatto tracciare anche lui un gran sì sul muro della villa, per precauzione, e la folla dei contadini scioperati, giù in istrada, batteva le mani, gridava: «Viva il principe di Francalanza!…» mentre, dentro, don Eugenio dimostrava, con la storia alla mano, che la Sicilia era una nazione e l’Italia un’altra; e donna Ferdinanda sgolavasi:

«Ah, se torna Francesco!»

«Zia, non tornerà…» esclamò alla fine Lucrezia.

Allora la zitellona parve volesse mangiarsela viva.

«Anche tu, scioccona e bestiaccia? Sentite chi parla adesso! E non lo sai il nome che porti, pazza bestiona? Credi anche tu agli eroismi di questi rifiuti di galera? o dei bardassa sguaiati e ciarloni?»

La botta era tirata a Giulente; Lucrezia s’alzò e andò via sbattendo gli usci. Ma il furore di donna Ferdinanda passò il segno quando, fattasi alla finestra ad uno scoppio più nutrito di applausi, vide passare i novizi Benedettini, che venivano da Nicolosi a cavallo agli asini, tutti con gran sì ai tricorni. Cominciò a gridare così forte contro quel vituperio, che il principe accorse:

«Zia, per carità, vuol farci ammazzare?»

«È stato quel Gesuita di Lodovico!…» fiottava la zitellona, coi denti stretti, quasi per mordere. «Anche i ragazzi! Anche Consalvo!» E come il principino salì un momento a salutare i suoi, ella gli strappò quel cartellino e lo fece in mille pezzi: «Così!…»

9

«Bello!… Bello!… E questi bavagli, sono graziosi!… Le calzettine, le scarpette: avete pensato a tutto!»

La cugina Graziella esaminava, capo per capo, sotto gli occhi di Chiara e del marchese, il corredo del nascituro: sei grandi ceste piene di tanta roba da bastare a un intero ospizio di lattanti; e trovava parole d’ammirazione per tutte le fasce, per tutte le cuffie, per tutti i corpettini: ma ogni tanto si fermava, tirando forte il respiro, passandosi la lingua sulle labbra, gravida anche lei di qualche cosa che voleva dire, ma che né il marchese né Chiara si decidevano a domandarle.

«E le vesticciuole, non l’avete viste ancora? Guardate, guardate!»

«Oh, che bella cosa!… Dove hai trovato questi merletti?… Belle tutte, belle!… Ma più la bianca coi nastri celesti! Un amore!… Lucrezia ci ha lavorato?»

«No, nessuno: ho voluto far tutto con le mie mani.»

«Ce n’è spesi quattrini, eh?… Il Signore possa benedirveli!… Avete aspettato un bel pezzo, ora la vostra felicità è assicurata!… Vi volete tanto bene!… Per me, mi gode l’animo quando vedo le famiglie tanto affiatate!… Così vorrei che anche Lucrezia fosse contenta… Voialtri non sapete?»

«Che cosa?»

Ella abbassò un poco la voce per dire, con aria di mistero:

«Giulente l’ha chiesta allo zio duca!»

Ma Chiara continuò a piegare la biancheria sulle ginocchia, quasi non avesse udito o non avesse compreso che si parlava di sua sorella: e solo il marchese domandò, distrattamente, riponendo con bell’ordine la roba nelle ceste:

«Chi ve l’ha detto?»

Allora la cugina sfilò la corona:

«Me l’ha detto mio marito, iersera: certo e sicuro com’è certo che siamo qui! La domanda è stata fatta da don Lorenzo, amichevolmente. Il duca vuol esser deputato, e il giovanotto sostiene la sua elezione scrivendo nell’Italia risorta, e discorrendo ogni sera al Circolo Nazionale in favore di lui, perché ha già preso la laurea d’avvocato. Quelli della Nazione Italiana gli oppongono l’avvocato Bernardelli, perché è stato in galera; non par vero, a che siamo ridotti!… Ma Giulente si batte come un leone… pel futuro zio… mi capite?… Lucrezia non entra nei panni, dalla contentezza; però gli zii don Blasco, donna Ferdinanda e don Eugenio le daranno da fare… e il cugino Giacomo anche… Un Giulente sposare un’Uzeda? Ci voleva la rivoluzione, il mondo sottosopra, perché si vedesse una cosa simile! Lo zio duca, mi dispiace, ha perduta la testa, dacché s’è messo nella politica; hanno ragione i suoi fratelli!… Voi che cosa ne dite?»

Chiara continuava a maneggiare la bella roba, bianca, fine e odorosa, del nascituro; e il marchese, temendo che quei movimenti, a lungo andare, potessero affaticarla, le disse:

«Basta, adesso… lascia fare a me… Che cosa ne dico, cugina? Non dico niente: sono cose che non mi riguardano. Mio cognato è padrone di dare sua sorella a chi gli pare… Io non mi mescolo negli affari altrui.»

«Se Lucrezia lo vuole,» rincarò Chiara, «se lo prenda! In fin dei conti, dobbiamo sposarlo noi?» domandò ridendo a Federico.

«Sicuro!… Io, cara cugina, sapete se ho sempre rispettato la famiglia di mia moglie. Se essi dicono di sì, e Lucrezia è contenta! Per conto mio, ringrazio il Signore che finalmente mi sta concedendo una gran consolazione; del resto, facciano quel che vogliono…»

E la cugina restò con tanto di naso, avendo fatto assegnamento sopra uno scoppio d’indignazione; ma, torta la bocca quasi per inghiottire un boccone amaro, esclamò:

«Certamente! Sono cose che riguardano la sua coscienza!… E anche Lucrezia! Contenta lei!… È quel che dico anch’io!…»

Da quei due non c’era da cavar nient’altro, fuori del mondo com’erano per via della nascita del figliuolo ormai prossima: la cugina, che per trascorrer di tempo non dimenticava di mostrare il suo interesse per gli Uzeda, corse difilato in casa del principe. Sul portone, una comitiva di dieci o dodici individui, fra i quali c’erano i due Giulente, zio e nipote, cercavano del duca. Ella si fermò, sorridendo a don Lorenzo e a Benedetto, facendo loro segno con la mano per chiamarli.

«Che ordite, in tanti rivoluzionari? Volete dar fuoco al palazzo?»

«Veniamo ad offrire la candidatura al signor duca,» rispose don Lorenzo, «in nome delle società patriottiche.»

«Bravo! Mi rallegro della scelta!…»

E la commissione stava per salire dal grande scalone quando Baldassarre, spuntato dal secondo cortile, e fatta strada a donna Graziella, avvertì: «Nossignori!… Favoriscano da questa parte…»

Il principe, infatti, approvando il liberalismo dello zio e godendo dei vantaggi della sua popolarità, non aveva potuto permettere che tutti gli scalzacani dai quali era circondato entrassero nel nobile quartiere della Sala Rossa e Gialla: aveva quindi destinato due stanze dell’amministrazione, a destra dell’entrata, perché il duca vi ricevesse anche i lustrastivali, se così gli era a grado. Mentre i delegati giravano dunque dalla parte delle stalle, donna Graziella saliva pomposamente il sontuoso scalone ed era introdotta presso la principessa. Il principe, in compagnia della moglie, gridava qualche cosa, quando, all’apparir della cugina, tacque subitamente.

«Non sapete che ci sono visite?» disse costei, entrando. «La commissione delle società… per offrire la candidatura al duca… Una bella commedia, giacché tutto fu combinato prima… E solo i Giulente, di persone conosciute; tutto il resto, certe facce!…»

«Mio zio è padrone di ricevere chi vuole,» rispose il principe. «Adesso i tempi sono mutati, e non si posson fare tante difficoltà… È quel che dicevo anche a mia moglie…» E voltati i tacchi, stava per andarsene, quando la voce di donna Ferdinanda, che sopravveniva, lo fece fermare. La zitellona, più gialla del solito, sudava fiele, con una ciera arcigna e dura da mettere spavento.

«Dunque è vero?» domandò a denti stretti, senza neppure accorgersi di donna Graziella.

«Me l’ha detto lui stesso,» rispose il principe. «Dinanzi alla cugina possiamo parlare… Gli pare una cosa bellissima, un partito vantaggioso, un terno al lotto…»

«E tu non gli hai detto nulla, tu?»

«Io? Gli ho detto che dovrebbe tornare nostra madre dall’altro mondo, per sentire una cosa simile! Per vedere ciò che succede in questa casa! in qual modo si rispettano le sue volontà!… Questo gli ho detto; ma è lo stesso che dirlo al muro… Vostra Eccellenza sa come siamo fatti, in famiglia… Ma la colpa non è dello zio… Se Lucrezia non avesse dato retta a quel bardassa, crede Vostra Eccellenza che le cose sarebbero arrivate a tanto? I Giulente sono stati sempre presuntuosi, hanno avuto sempre la smania di giocare a pari con tutti; ma un’idea simile non sarebbe loro passata pel capo, senza la stramberia di mia sorella…»

La principessa non fiatava, donna Graziella non parlava neppur lei, ma guardando ora il principe ora donna Ferdinanda scrollava il capo, come per dire che era così, proprio così. La zitellona si mordicchiava le labbra sottili, torcendo il grifo, fiutando l’aria con le narici dischiuse.

«Se mia sorella non fosse stravagante,» continuava il principe, «non penserebbe a maritarsi, con quella salute; non darebbe retta a quel rompicollo che le dice di volerle bene per vanità, facendo il repubblicano; e rispetterebbe invece i consigli di nostra madre, non darebbe motivo di dispiacere a noi, non si preparerebbe tanti guai… Perché, speriamo pure che si ravveda e lo zio muti opinione; ma se questo matrimonio dovesse farsi, la prima sacrificata sarebbe lei!… Crede di trovare in casa di quella gente quel che ha nella propria? Crede che potranno andare d’accordo, con tanta diversità d’educazione e di…»

A un tratto comparve Lucrezia. Il principe tacque come per incanto; la principessa si fece ancora più piccola sulla sua poltrona, la cugina spalancò meglio gli occhi e l’orecchie.

«Buon giorno, zia…» cominciò la ragazza; ma donna Ferdinanda, levatasi da sedere e presala per mano, le disse brevemente: «Vieni con me.»

Passò di là e chiuse l’uscio. La cugina, che le aveva accompagnate con gli occhi, quando si voltò vide che il principe era scomparso da un’altra parte. Allora, rimasta sola con la principessa, cominciò a dimenarsi sulla sua seggiola. Sarebbe andata ad origliare, se avesse potuto, se avesse osato farne proposta; invece le toccava contenersi e chiacchierare, mentre udivasi tratto tratto la voce di donna Ferdinanda alzarsi tanto che le parole arrivavano intere: «Voglio? Voglio?… Prima creperai!… L’avvocato?… Crepa, piuttosto!…»

«Santo Dio, mi dispiace!… È una cosa, cugina…»

«La vedremo, ti dico!…» gridava donna Ferdinanda; subito dopo la voce si spense; la cugina riprese:

«Lucrezia dovrebbe pensare… dare ascolto a chi parla pel suo…»

«Non vuoi sentirla, bestiaccia?…» Queste parole furono gridate così forte, che la cugina e la principessa tesero tutt’e due le orecchie. Passò qualche minuto di silenzio profondo; di botto, s’udì il rumore d’una seggiola rovesciata e subito dopo quello secco e brusco di un violento ceffone. La principessa levossi in piedi, giungendo le mani; la cugina corse all’uscio ad origliare. Più nulla: né voci, né pianto. Donna Ferdinanda ricomparve sola e venne a sedersi tranquillamente vicino alla nipote, stirandosi la palma della mano arrossata. Parlò del più e del meno, volle sapere che cosa avevano a desinare e domandò notizie di Teresina, che giusto quel giorno era a San Placido, dalla zia Crocifissa. Poi si alzò per andarsene; la cugina l’accompagnò.

Intanto giù nell’amministrazione i delegati delle società, ammessi in presenza del duca, erano stati da costui invitati a sedersi in giro; Giulente nipote, prendendo a parlare in qualità d’oratore, diceva:

«Signor duca, in nome dei sodalizi patriottici il Circolo Nazionale, L’Unione Civica, la Lega Operaia, il Riscatto Italiano, i Figli della Nazione, dei quali le presento le rappresentanze… veniamo a compiere il mandato affidatoci, di pregarla affinché ella accetti la candidatura al Parlamento italiano. Il paese ben conosce di chiederle un sacrifizio, e un sacrifizio non lieve; ma il patriottismo di cui ella ha dato tante e sì splendide prove ci dà guanto che anche una volta vorrà rispondere all’appello del paese…»

I tre o quattro popolani tenevano il cappello con tutt’e due le mani, stretto come se qualcuno volesse portarlo loro via; Giulente zio guardava per terra. Il duca, finito il discorsetto del giovane, rispose, cercando le parole una dopo l’altra, con voce strozzata:

«Cittadini, son confuso… e vi ringrazio, veramente… Sono stato felice… orgoglioso anzi direi… di aver potuto contribuire, come ho potuto, al riscatto nazionale… e alla grand’opera dell’unificazione della nazione… Ma, veramente, ciò che voi mi domandate… è superiore alle mie povere forze… È un mandato… Permettete!…» soggiunse con altro tono di voce, vedendo far gesti di diniego, «che non saprei come disimpegnarlo… al quale è d’uopo attitudini speciali che io non possiedo… E non vi mancheranno patriotti che assai meglio di me… potranno rispondere agli interessi… della tutela degli interessi… del nostro paese!»

«Perdoni!» riprese il giovanotto. «Noi apprezziamo il delicato sentimento che le fa dire così: la sua modestia non le poteva dettare diversa risposta. Ma della capacità di lei dev’essere giudice, perdoni!, lo stesso paese. Se ella avesse altre ragioni per rifiutare, ragioni private o di affari, noi c’inchineremmo, non potendo permettere che il suo sacrificio vada troppo oltre. Ma se l’unica obiezione consiste nella sua incapacità, ci permetta di dirle che non tocca a lei riconoscere se è capace o pur no!»

Tacendo Giulente, il sarto Bellia, dei Figli della Nazione, disse:

«Duca, l’operaio vuole a Vostra Eccellenza… Ci sono tanti che brigano il voto, ma non ci abbiamo fiducia. Vogliamo un buon patriotta e un signore come Vostra Eccellenza…»

Allora, rivolto ai compagni, Giulente zio disse, con tono di bonarietà scherzosa, accarezzandosi la barba:

«Non abbiate paura: il duca vuol farsi pregare…»

«Farmi pregare?» esclamò il candidato, ridendo. «Mi prendete forse per un dilettante di pianoforte?»

Tutti sorrisero e il ghiaccio si ruppe. Smessi la dignità grave e il linguaggio fiorito dell’ambasceria, ognuno disse la sua, in dialetto, alla buona, per indurre il duca ad accettare. Sul nome di lui si sarebbero messi d’accordo; in caso di rifiuto, i voti si sarebbero sperperati sopra tre o quattro persone; e poiché era quella la prima elezione alla quale chiamavasi il paese, bisognava che essa riuscisse l’affermazione unanime della volontà del collegio. Questo risultato non poteva ottenersi se non per mezzo dell’accettazione del duca; dinanzi a lui tutti gli altri si sarebbero ritirati; il suo rifiuto avrebbe fatto pullulare altre ambizioncelle di patriotti dell’ultim’ora. A quell’insistenza, il duca esclamava:

«Signori miei… mi confondete!… Siete troppo buoni… Non so che rispondere!…»

«Risponda sì… accetti! Ci vuol tanto?… Se lo vogliamo!»

«Ma io non sono adatto… Sento tutta la responsabilità del mandato… Non si scherza! Altro è dare qualche consiglio in Municipio, confortato da tutti voi; altro è sedere tra i rappresentanti del Parlamento!»

«Signori miei,» fece a un tratto Giulente zio, mettendo fine al cortese contrasto. «Sapete che vi dico? La nostra commissione è compita: il duca sa qual è il desiderio di tutti; per ora egli non ci dice né sì né no; lasciamo che ci dorma sopra: domani, dopo domani, quando avrà ben ponderato, quando si sarà consigliato con i suoi amici, ci darà una risposta, e speriamo che sarà la desiderata…»

«Ecco! Grazie, così…» rispose il duca. «Benissimo; vi prometto che ci penserò, che farò il possibile… Ma intanto grazie a tutti! Ringraziate per me le società; verrò poi io stesso a fare il mio dovere!…»

Egli li trattenne ancora, discorrendo delle notizie del giorno, interessandosi alla cosa pubblica, toccando di sfuggita i provvedimenti che bisognava reclamare dal governo di Torino pel bene del paese, per il migliore assestamento del nuovo regime. Prese da un cassetto della scrivania una scatola di sigari: sigari d’Avana, color d’oro, dolci e profumati, e ne fece larga distribuzione, stringendo la mano a tutti, ma più forte ai due Giulente. Il domani, l’Italia risorta portava un articolo di fondo di Benedetto sulle imminenti elezioni, nel quale era detto: «Due soltanto i criteri ai quali possono ispirarsi i votanti: l’intemerato patriottismo che sia arra dell’italianità dell’eletto e la cospicuità sociale che gli permetta di svolgere la propria missione con l’indipendenza che dà guanto di disinteresse e di sincerità. Ora allorquando il paese ha la fortuna di possedere un Uomo che risponde al nome di duca gaspare uzeda d’oragua, noi crediamo che ogni discussione si riduca un fuor d’opera, e che tutti i voti dei cittadini, giustamente gelosi del bene pubblico, debbano concentrarsi sul nome dell’illustre patrizio!»

La gran maggioranza del collegio era per lui e nel coro degli adepti le voci discordi rimanevano soffocate. I più infervorati erano i popolani, gli operai, la Guardia nazionale, la gente spicciola che non godeva del voto, ma trascinava con sé i votanti. Se qualcuno tentava addurre argomenti contro quella candidatura, era subito ridotto al silenzio. Gli Uzeda erano tutti borbonici fin sopra i capelli? Tanto maggior merito da parte del duca nell’aver abbracciato a dispetto della parentela la fede liberale! Al Quarantotto egli non aveva preso un partito? Ma non aveva tradito, come tant’altri!… Però quelle voci parevano ridotte al silenzio, e risorgevano a un tratto più insistenti. Fin dall’estate, fin da quando i napolitani erano andati via, di tanto in tanto si trovavano attaccati alle cantonate o circolavano pei caffè e le farmacie certi fogli anonimi dove si leggevano brutte notizie, giudizi inquietanti, oscure minacce; questa roba era divenuta più rara, ma adesso ricominciava a circolare e conteneva, oltre che funesti pronostici sull’avvenire della rivoluzione, allusioni maligne contro le persone più in veduta, e specialmente contro il duca. Erano poche parole, in forma dubitativa o interrogativa, ma trovavasi sempre qualcuno che le spiegava. Che cosa aveva fatto il Patriotta nella giornata del 31 maggio? S’era nascosto a San Nicola, diceva il commento. E il cannocchiale del Quarantotto? Quello col quale s’era goduto l’attacco e l’incendio, attorniato dai soldati di Ferdinando ii! E le visite all’Intendente? Per trovarsi dalla parte del manico, se alla rivoluzione toccavano colpi di granata…

Il duca, a cui i Giulente avevano tenuti nascosti quegli attacchi, ordinando perfino alle guardie nazionali di non presentare al maggiore quei manifesti quando li spiccicavano dai muri, cominciò a chiederne notizie, insistette per leggerli. Impallidì un poco vedendo il suo nome, percorrendo rapidamente le frasi in cui si parlava di lui; ma non disse nulla.

«E non poter sapere da qual mano vengono!» esclamava Benedetto. «Non poter dare una buona lezione a questi vigliacchi!»

«Che possiamo farci!» rispose allora l’offeso. «Sono i piccoli inconvenienti delle rivoluzioni e della libertà. Ma la libertà corregge se stessa… Non ve ne date pensiero…»

Però, appena quei due se ne furono andati, egli si mise il cappello in capo e salì difilato a San Nicola, dove chiese del Priore don Lodovico.

«Guarda che tuo zio,» gli disse tranquillamente, «giuoca a un brutto giuoco. I cartelli anonimi vengono da lui e dalla sua comarca. Che egli se la prenda con me, non m’importa; mi giova, anzi, procurandomi maggiori simpatie; ma se continua a prendersela con tutti, a sparger sospetti e notizie bugiarde, potrà toccargli qualche dispiacere. Te l’avverto, perché tu che gli stai vicino glielo faccia sapere. A lungo andare tutto si scopre… Badi!»

Il priore non ne fiatò con don Blasco, ma riferì ogni cosa all’Abate perché questi ne tenesse parola con qualcuno degli amici del monaco. Padre Galvagno fu incaricato della commissione; all’udire quel discorso, don Blasco mutò di colore.

«Dite a me?» esclamò. «Siete impazziti, voi e chi vi manda. Dovete sapere che se io ho da dire ciò che sento, lo dico sul muso a chi si sia, occorrendo anche a Francesco ii, che Dio sempre feliciti!» e fece un inchino profondo. «Figuratevi un po’ se ho paura di questa manetta di briganti e carognuoli e…» e qui ricominciò a sfilare una litania più terribile delle solite.

Ma i cartelli anonimi divennero da quel giorno più rari, e a poco a poco cessarono. Il monaco, a cui la bile quasi schizzava dagli occhi, sfogavasi in casa del principe – quando il duca non c’era – dicendo cose enormi contro il fratello, insultandolo, infamandolo, rovesciandogli addosso epiteti di novissimo conio, a petto ai quali quelli scambiati tra facchini e donne di mal affare erano complimenti e zuccherini. E la sua rabbia aveva un bersaglio più vicino e più diretto nella nipote Lucrezia. Questa vipera osava ancora pensare a quella carogna! L’avevano allevata perché li mordesse tutti quanti, insozzando il nome degli Uzeda, facendone ludibrio, sposando quella carogna!

«Ah, razza putrida e schifosa! Ah, porco Viceré che la creasti!… Meglio sarebbe stato…» (mettere al mondo soltanto bastardi, era l’idea espressa dalle turpi parole) «piuttosto che generare questo nipotame sozzo e puzzolente!…»

Furono quelli i giorni più tremendi per Lucrezia. Erano tutti scatenati contro di lei: o non le rivolgevano la parola, o la colmavano d’improperi; donna Ferdinanda l’afferrava pel braccio dandole pizzicotti che portavano via la pelle; don Blasco un giorno per miracolo non se la messe sotto. Pallida e muta, ella lasciava passare la tempesta, chinava gli occhi, non piangeva, non si lagnava, non si confidava a nessuno, non chiedeva aiuto allo zio duca che sapeva amico di Benedetto e fautore del matrimonio, non diceva una parola dei suoi tormenti a Ferdinando che veniva al palazzo unicamente per lei, lasciando in asso le sue bestie imbalsamate e da imbalsamare. Soltanto quando si chiudeva in camera con Vanna, per avere le lettere del giovane, le diceva, con un sorriso freddo, a fior di labbro: «È inutile! Lo sposerò!…»

Egli, frattanto, continuava a propugnare l’elezione del duca, con la parola in mezzo ai circoli, con gli scritti nell’Italia risorta e nelle stampe volanti intitolate: Chi è il duca d’Oragua, Un patrizio patriotta, e via discorrendo. «Fin dal 1848 l’insigne gentiluomo schierossi contro il governo del Re Bomba, tanto maggiore il suo merito in quanto egli non aveva da rimproverargli torti fatti a lui o ai suoi, ma al popolo intero… Nel lungo periodo di preparazione noi lo vediamo a Palermo, intrinseco dei più chiari patriotti portare il contributo della sua attività e delle sue sostanze alla causa nazionale. Ai primordi del movimento liberatore, corre in patria, poiché egli vuol parte dei dolori e delle gioie dei suoi amati concittadini. Qui è largo del suo prezioso ausilio ai liberali, e fa sentire ai rappresentanti dell’esecrato borbone la voce che ormai lo condanna. Egli versa il suo contributo per la formazione delle squadre volontarie, sussidia quanti liberali perseguitati soffrono nell’indigenza. Ritirati gli sgherri di Francesco, accorre tra i primi a regolare il governo della città, si ascrive tra le file della nazionale milizia, palladio di libertà; acquista per essa divise, munizioni e non pochi brandi. Apre la sua casa avita a Bixio ed a Menotti, rende ai liberatori gli onori della città. Sollecitato a rappresentare il primo collegio al Parlamento, modestamente declina l’offerta, volendo esser primo ai sacrifici, ultimo agli onori. Ma il paese lo vuole. La sorella Palermo ce lo invidia. E chi porta il nome di duca d’oragua non può sottrarsi alla volontà del paese. Egli sarà il nostro deputato!»

Il duca, da canto suo, riparlava al principe del matrimonio di Lucrezia, tesseva l’elogio del giovane, asseriva che era un partito da non lasciar sfuggire, perché i Giulente avevano quel solo figliuolo al quale sarebbero andate tutte le loro sostanze.

«Conviene anche per un’altra ragione,» spiegava al nipote, «che non baderanno alla dote…»

«Che ci badino o no, che cosa m’importa?» rispondeva il principe. «Lucrezia ha quello che ha; Vostra Eccellenza crede che io glielo voglia negare?»

«Chi ha detto questo? Dico che si contentano di quello che ha…»

«Sono affari che non mi riguardano. Sarebbe curioso che io impedissi a mia sorella di fare quel che le aggrada, alla sua età! La volontà di nostra madre forse poteva essere che restasse in casa; ma nostra madre è all’altro mondo; e quando pure vivesse…»

Egli insisteva spesso su questo tono, ripeteva che sua sorella era libera di prendersi Giulente, ma le parole gli cascavano di bocca, troncava a mezzo il discorso, come se avesse dell’altro da dire, e tacesse poi per prudenza, per convenienza, per non parere ostinato. Tanto che il duca un giorno gli domandò:

«Ma parla chiaro! Sei contrario a questo matrimonio?»

«Io?… Quando è approvato da Vostra Eccellenza!…»

«Giulente non ti piace?»

«Ha da piacere a me?… È un buon giovane; basta saperlo amico di Vostra Eccellenza… Discretamente agiato, anche… Io non ho i pregiudizi della zia Ferdinanda e di don Blasco; i tempi oggi sono mutati… Vostra Eccellenza si persuada pure che se Lucrezia crede di poter essere felice con lui, io non mi opporrò… Però è giusto che neppur lei mi cerchi lite!»

«Perché dovrebbe cercartela?…»

«Perché?… Perché?… Vostra Eccellenza non sa nulla, era a Palermo in quel tempo!…» E allora gli confidò i dispiaceri che la sorella gli aveva dati, complottando con Chiara, col marchese, con Ferdinando, accampando diritti, interpretando a modo suo la legge, accusandolo perfino di volerla spogliare con tutti gli altri. «Adesso, se va a marito, bisognerà finirla con tutta questa storia… E Vostra Eccellenza vedrà che cominceranno da capo!»