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Loe raamatut: «I Vicere», lehekülg 32

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«Eccellenza!… Come sta?… Ero venuto a trovarla; mi dispiacque tanto, ieri, di non essere in casa…»

Un poco imbarazzato, don Eugenio lo invitò a salir su in camera. Una camera col pavimento affossato, due strisce di tela bianca a guisa di tendine dinanzi alla finestra, una catinella sopra una seggiola e una brocca per terra.

«Ho dovuto venir qui perché al Grand Hôtel era tutto pieno. Come si sta male in questa città! A Palermo avevo un appartamento di dodici stanze… bisognava vedere che scale!…»

E, nonostante il rifiuto oppostogli da Lucrezia, egli cavò di tasca le circolari ed entrò subito in materia.

«Tua moglie non t’ha detto?… Sono venuto per stampare la mia opera… Per ventimila lire non la cederei a nessuno… Ma non ho quattrini da cominciare la stampa. Vogliamo farla insieme? Spartiremo i guadagni, da buoni parenti ed amici.»

Giulente esitò un poco, poi domandò:

«Che ha detto Lucrezia?»

«Tua moglie? Ha detto di sì, solo che tu ti persuada della convenienza della cosa. Guarda un po’…» E non capendo nei panni dalla gioia d’aver trovato finalmente uno che non rifiutava, gli sciorinò dinanzi alcune schede con qualche firma.

«Va bene, va bene, giacché Lucrezia approva…»

«Se anche mutasse parere, in fin dei conti, potremmo fare a meno del suo consenso!…»

Benedetto esitò un poco, poi disse:

«Nossignore, è necessario… perché adesso i denari li tiene lei…»

«Come! I denari? Tu non puoi disporre di qualche migliaio di lire?»

«Eccellenza no… Gli affari pubblici mi portavano via molto tempo… Ho ceduto a lei l’amministrazione…»

2

Il ritorno del principe, con lo zio duca, la moglie e la figlia, al principio dell’inverno, diede nuovo alimento alla pubblica curiosità. Aspettavano tutti di vedere in viso questa famosa principessina della cui bellezza si parlava tanto, ma quantunque l’esagerazione delle lodi anticipate avesse disposto la gente alla diffidenza, pure la realtà lasciò molto indietro ogni immaginazione. La bellezza bianca e bionda, fine, delicata, quasi vaporosa della fanciulla non aveva riscontri nella famiglia dei Viceré. La vecchia razza spagnuola mescolatasi nel corso dei secoli con gli elementi isolani, mezzo greci, mezzo saracini, era venuta a poco a poco perdendo di purezza e di nobiltà corporea: chi avrebbe potuto distinguere, per esempio, don Blasco da un fratacchione uscito da lavoratori della gleba, o donna Ferdinanda da una vecchia tessitrice? Ma come, nella generazione precedente, s’era vista l’eccezione del conte Raimondo, così adesso anche Teresa pareva fosse venuta fuori da una vecchia cellula intatta del puro sangue castigliano. Alta, magra di spalle, con una vita che le sue due mani quasi arrivavano ad accerchiare e che rendeva più vistosa la curva dei fianchi, Teresa possedeva una istintiva eleganza, una nobile grazia di portamento, ancora non del tutto liberata dall’impaccio della collegiale, fino a qualche mese addietro costretta nella goffa uniforme. Nei primi giorni, quando cominciò ad uscire in carrozza, accanto alla madrigna, la gente si fermava sui marciapiedi, l’aspettava al varco, dinanzi al portone del palazzo, per figgerle gli occhi addosso, a bocca aperta: ella pareva non accorgersi di quella curiosità indiscreta, non guardare anzi nessuno.

In casa, naturalmente, erano venute a trovarla prima di tutte le zie, e Lucrezia s’era quasi attaccata alle gonne della nipote, l’accompagnava per ogni dove, le dava consigli, non parendole vero di poter esercitare su qualcuno la sua smania d’autorità. La principessa la lasciava fare; ma a Chiara non restituì neppure la visita, per via del bastardello. Una ragazza come Teresa, appena uscita dal collegio, poteva andare in una casa dove c’erano di quei pasticci? Ella diceva a tutti, cameriere, parenti e conoscenze, con grandi gesti e torcimenti di sguardo: «Posso permettere che mia figlia sappia di queste cose, eh? Tanto peggio se Chiara se ne adonta.» E Chiara se ne adontò in malo modo. Aveva rotto con tutti i parenti, ormai, per amore del figlio della cameriera, il quale, guastato da tanti vizi, la comandava a bacchetta, le dava del tu, all’occorrenza le alzava le mani addosso. Ma ella lo lasciava fare, e se il marchese diceva mezza parola, grida, minacce, un inferno. Uditi gli scrupoli della cognata-cugina, si nettò la bocca contro di lei, tanto più che, per ordine di Giacomo, donna Graziella condusse Teresa a baciar la mano allo zio don Blasco. Dal monaco sì, che teneva la Sigaraia e le tre figlie in casa, e da lei no? «Sicuro, perché dal monaco aspettano l’eredità…»

Don Blasco, adesso, era un signore: oltre la casa e i due poderi, aveva messo di bei quattrini da canto; il principe gli faceva la corte per questo. Il Cassinese se la lasciava fare da lui come da Lucrezia e da Chiara; non andava più in casa di nessuno, non potendo più salire scale; ma dettava legge ai nipoti, se ne serviva in tutti i modi, e se qualcuno di costoro lo faceva andare in collera, egli cavava fuori, come donna Ferdinanda, un suo foglio di carta e lo stracciava in mille pezzi: «Neanche un soldo da me!…» La visita della nipote Teresa gli fece piacere; le figliuole non si lasciarono vedere, e la principessa spiegò alla ragazza che donna Lucia era «governante» dello zio.

Del resto, queste precauzioni erano inutili per Teresa. Ella non aveva curiosità sconvenienti, e quando comprendeva che le più grandi avevano da dirsi qualcosa, s’allontanava, andava ad ordinare la sua cameretta o a badare alle sue cosucce. Non era soltanto bella da far strabiliare, ma piena d’ingegno, istruita da dar punti a tanti uomini. Disegnava e dipingeva, parlava il francese e l’inglese come la sua propria lingua, sapeva far versi e comporre musica; e modesta, con questo, semplice, buona, affettuosa da non si dire. Rientrando nella casa dove, bambina, aveva lasciato la sua mamma, e adesso non la trovava più, avevano dovuto sorreggerla e i suoi occhi eran parsi due vive fonti, dal tanto pianto; ma il culto per la santa memoria non le impediva di rispettare e di amare il padre e la madrigna. E timorata di Dio, sempre con qualche libro di preghiere tra le mani, quando non lavorava ai suoi ricami, ai suoi disegni, alla sua musica: certi libri dorati, ricoperti di velluto o di pelle odorosa: mesi di Maria, coroncine della Beata Vergine, vite di Santi, pieni ad ogni pagina d’imagini divine, tutti premi riportati quand’era all’Annunziata.

Ma questi sentimenti pii, questo timor di Dio non le impedivano di amare, come conveniva ad una fanciulla della sua età, gli svaghi mondani, le eleganze della moda. Quando aveva da vestirsi per far visite o per riceverne, o per andare al passeggio o al teatro, ella s’indugiava come le altre, dinanzi allo specchio; e aveva un certo modo tutto suo di portare gli abitini più semplici che la faceva parer vestita come per andare a un ballo. Quando passavano dalla modista o dalla sarta, se dovevano sceglier stoffe o guarnizioni o minuti oggetti d’ornamento ella dava prova di gran gusto, scegliendo le cose più belle e più eleganti, persuadendo con buone maniere la zia Lucrezia, la quale, dacché teneva le chiavi della cassa, si faceva un abito ogni quindici giorni preferendo ogni volta quel che c’era di più disgraziato, ed imbronciandosi se non lodavano la sua scelta. Invece la principessa lasciava che la figliastra facesse a modo suo e scegliesse quel che le piaceva; anzi, si rimetteva a lei per le cose sue proprie. «Che gusto, quello della mia figliuola!… Che figliuola modello!…» La lodava specialmente per la dolcezza del carattere e la bontà del cuore; la baciava e l’abbracciava dinanzi a tutti, anche in conversazione; vegliava su lei come una vera mamma.

Era gelosa e scrupolosissima; non permetteva che oltre i libri di religione la figliastra leggesse cose capaci di guastarle la testa; né che, dinanzi alla giovane, tenessero certi discorsi, per paura che le stesse parole le contaminassero il pensiero. Stava perciò sulle spine quando la cognata Lucrezia narrava certe storie di concubinaggi, di separazioni coniugali, di nascite illegittime. Cominciava allora a tossire per dar sulla voce a quella stravagante malaccorta; e se la tosse non bastava, mutava discorso bruscamente, con un certo modo tutto suo, fatto apposta per richiamare l’attenzione sulle cose dalle quali voleva invece stornarla. Ma Lucrezia non si accorgeva di nulla; e non commetteva anzi la sconvenienza di dire spesso alla nipotina, a proposito ed a sproposito, ma più spesso quando si lagnava di Benedetto: «Bada a chi piglierai per marito»? Oppure: «Apri gli occhi, quando sarai maritata»? La principessa diventava di mille colori, alzava gli occhi al soffitto, facendo sforzi straordinari per contenersi, per non dire il fatto suo a quella matta a cui il Signore aveva fatto bene di non dar figlie, se intendeva così l’educazione delle ragazze. «Cognata!… Lucrezia!…» ma nulla serviva, tanto che una volta la principessa mise carte in tavola:

«Scusa, cugina; ma questi discorsi mi sembrano fuor di luogo. Teresa si mariterà quando sarà tempo, e ci penserà suo padre, non dubitare: a me non piace la moda d’oggi, di parlar di queste cose alle signorine…»

Teresa, con gli occhi bassi e le mani in grembo, pareva non ascoltare; Lucrezia ammutolì e andò via dopo un poco, senza salutar nessuno. Ma un altro parlava spesso di cose scabrose e la principessa doveva tenerlo in riga: il cavaliere don Eugenio. Appena saputo l’arrivo del fratello e del nipote, era corso da loro per ricominciare il discorso dell’Araldo sicolo. Il duca, senza le grida di don Blasco e le commedie di donna Ferdinanda, gli aveva risposto chiaro: «Coi libri, caro mio, nessuno ha mai fatto quattrini; tu ne farai meno degli altri perché non hai saputo far nulla mai. Se vuoi stampar l’opera, nessuno te lo impedisce; ma io non ho denari da buttar via in queste imprese.» Don Eugenio accettava a capo chino il predicozzo, come riconoscendo di meritarlo, ossequiente ed umile dinanzi a quell’imbroglione che sputava sentenze, e come s’era arricchito? a spese delle casse pubbliche, manipolando gli appalti, facendo ogni sorta d’imbrogli!… «Almeno,» don Eugenio insisteva, «farai comprare il libro alle biblioteche dello Stato? A te non costa nulla, sei tanto influente!… Basterà che tu dica una parola…» Il deputato ascoltava la lode a occhi socchiusi, beatamente. Infatti i bei giorni erano tornati per lui; dopo l’atteggiamento preso nella questione romana aveva rimesso il tallo; l’elezione del novembre Settanta era stata un altro trionfo. Sì, gli sarebbe bastato dire una parola per aiutare il fratello; tuttavia, alle insistenze di costui, rispondeva che avrebbe visto, che ci avrebbe pensato, preso da uno scrupolo: «Che cosa si potrà dire? Che mi giovo del mio credito per procurar favori alla mia famiglia?…»

Don Eugenio allora s’era rivolto al principe. Questi aveva negato sulle prime, come meglio aveva potuto, ma in fin dei conti gli riusciva difficile insistere in un rifiuto crudo crudo, poiché egli non aveva tanta confidenza con lo zio da mandarlo a spasso, e nemmeno poteva addurre ragionevolmente la mancanza di quattrini; perciò s’era lasciato strappar la promessa d’una anticipazione d’un par di migliaia di lire, aspettando a sborsarle che la sottoscrizione fosse a buon punto. Frattanto don Eugenio, allettato dalla promessa, veniva al palazzo quasi ogni sera, con grande mortificazione della principessa che non poteva soffrire la vista della famelica faccia e dei miserabili indumenti del cavaliere e stava poi sui carboni ardenti, come un’anima del Purgatorio, quando egli cominciava a raccontare tutti i fatti della società palermitana: «Sasà marita le sue figlie… La moglie di Cocò ne ha fatta un’altra delle sue… Il figlio di Nenè è scappato con una ballerina…» Cocò era il principe di Alì, Sasà il duca di Realcastro, Nenè il barone Mortara; e nessuno nominava qualche persona di Palermo senza che egli assicurasse d’essere con questa persona «come fratello…» Tutte le volte che descriveva il suo appartamento il numero delle stanze cresceva: adesso era arrivato a quindici e, non potendolo più ragionevolmente aumentare, aggiungeva: «oltre la stalla e la rimessa…» Il principe lo lasciava dire, ma gli faceva pagare l’attenzione prestatagli e la promessa dei quattrini, giovandosi di lui come di un servo, mandandolo di qua e di là a portar lettere od ambasciate, che gli affidava dandogli tuttavia, per un certo rispetto umano, dell’Eccellenza. Neppure lo metteva a giorno dei propri affari, né gli faceva confidenze di sorta; curioso, il cavaliere voleva sapere a chi pensavano di dare in moglie Teresa, che cosa faceva Consalvo, quando sarebbe tornato, ma non riusciva ad appurar nulla, specialmente circa il principino, il quale non scriveva se non a donna Ferdinanda. Le notizie del giovane, al palazzo, venivano per mezzo di Baldassarre, il quale ogni due giorni scriveva al signor principe per riferirgli minutamente la vita del padroncino. Quelle lettere facevano fare schiette risate a Teresina, scritte com’erano in una lingua fantastica, di particolare composizione del maestro di casa. «So Eccellenza sta bene e s’addiverte… Oggi abbiamo stato al Buà di Bologna, che ci era grande passeggio di carrozze e cavalli e signori e signore accavallo…» Il maestro di casa annunziava ogni giorno il programma del successivo: «Domani andiamo all’Ussaburgo… domani partiamo per Fontana Bu, vedere il palazzo reale…» ma donna Ferdinanda aspettava la narrazione d’una visita ben altrimenti importante: quella a Sua Maestà Francesco ii. Prima che Consalvo partisse, ella gli aveva fatto un obbligo, quando sarebbe passato da Parigi, di «baciare la mano al Re», e appena saputo il nipote nella metropoli francese, gli aveva rammentato di mantener subito la promessa. Padre Gerbini, che a Parigi era cappellano della Maddalena e andava in casa di tutta la nobiltà legittimista, ed era ammesso, insieme con gli intimi, presso l’ex Re, aveva chiesto l’udienza pel giovanotto siciliano, facendo opportunamente valere la fede serbata dalla più gran parte degli Uzeda alla causa borbonica. In una lunga lettera, della quale donna Ferdinanda diede lettura in mezzo al circolo dei parenti, Consalvo riferiva l’accoglienza affettuosa dell’antico sovrano, la premura con la quale s’era informato di tutta la famiglia e il dono che gli aveva fatto, prima di congedarlo, dopo un lungo colloquio: il proprio ritratto con dedica autografa. «Sua Maestà la Regina» era sofferente, e perciò non aveva potuto riceverlo anche lei; ma il «Re», gli aveva detto che voleva rivederlo prima della sua partenza!… Venne anche la lettera di Baldassarre che riferiva la visita «a So Maistà Francisco secundo, inseme con So Paternità don Placito Gerbini. So Maistà abbia parlato a So Eccellenza della Siggilia e dei signori sigiliani che abbia conosciuto in Napoli e in Pariggi. So Eccellenza ci ha baciato le mani, e So Maistà gli arregalato il suo ritratto, dicendoci che ci deve tornare un’altra volta, per appresentarlo a So Maistà la Regina». Infatti prima che padrone e servo partissero da Parigi, tutt’e due annunziarono la seconda udienza, ma questa volta la lettera del maestro di casa al padrone conteneva un particolare del quale non era parola in quella di Consalvo alla zia. «So Maistà abbia fatto una grande festa a So Eccellenza, e quando ci abbia stretto la mano ci ha addomandato chi sa quando ci arrivedremo; e So Eccellenza mi ha contato So Paternità che ci abbia risposto: “Maistà, ci arrivedremo in Napoli, nel palazzo reale di Vostra Maistà!…”»

Da Parigi il giovanotto tornò finalmente in Italia, e fermatosi un poco a Torino e a Milano passò a Roma, che era l’ultima tappa del suo viaggio. Lì si fermò un pezzo; ma, dopo aver scritto un paio di lettere alla zia, non si fece più vivo. Donna Ferdinanda gli aveva anche raccomandato di «baciare il piede al Papa» e Baldassarre infatti, da principio, annunziava che «Monsignori don Lotovico» doveva condurre in Vaticano il nipote, ma poi non disse se la visita era stata fatta; anzi un giorno inaspettatamente, annunziò per telegrafo l’imminente ritorno. Aspettato alla stazione da donna Ferdinanda e da Teresa – perché il principe era rimasto ed aveva ordinato alla moglie di rimanere al palazzo —, Consalvo fece una specie d’ingresso trionfale, tra le persone di servizio e gl’impiegati dell’amministrazione schierati su due file, che ammiravano la bellissima ciera del signorino e gli davano il bentornato e si facevano in quattro per aiutare Baldassarre a scaricare la gran quantità di bauli, valige, portamantelli e cappelliere di cui era piena la carrozza e un carrozzino da nolo. Il principe, con aria tra dignitosa ed affabile, si fece trovare nella Sala Rossa e gli dette la mano a baciare; altrettanto fece la principessa, ma con maggiori dimostrazioni d’affettuosa premura: «Ti sei divertito?… Avesti buon tempo di mare?… C’è tutta la tua roba?… Le tue camere sono già pronte!…»

La stanchezza del viaggio, lo stordimento dell’arrivo spiegavano naturalmente la poca loquacità di Consalvo in quelle prime ore; infatti la sera, dopo aver mandato in camera del padre, della sorella e della madrigna una quantità di regali, egli cicalò moltissimo, riferì una quantità d’impressioni, narrò certi aneddoti comici su Baldassarre che, all’estero, sconoscendo le lingue, s’era spesso smarrito, aveva attaccato lite con gente alla quale diceva male parole siciliane; e una volta, anzi, a Vienna, aveva corso rischio di dormire al posto di guardia. Il giorno dopo continuò il discorso del viaggio, specialmente di Parigi; ma a poco a poco, e secondo che quell’argomento si esauriva, il giovanotto non prendeva più parte alla conversazione. Se la principessa narrava qualche cosa, o se il principe discorreva degli affari di casa, si contentava di stare a sentire e rispondeva qualche Eccellenza sì o qualche Eccellenza no di tanto in tanto. A tavola, col muso sul piatto, non guardava nessuno e spesso non pronunziava due parole una dopo l’altra. Il principe cominciava a soffiare e ammutoliva anche lui, facendo però certi versacci che non annunziavano niente di buono; la principessa alzava gli occhi al soffitto dalla costernazione, e Teresa, angustiata da quella freddezza, perdeva sin l’appetito. Levandosi di tavola, quando il figlio andava via:

«Cominciamo da capo!» sfogavasi il principe. «State a vedere che cominciamo da capo! Che gli hanno fatto, a cotesta bestia? S’è divertito più d’un anno a viaggiare, non gli è mancato niente, e mi ringrazia così, tenendomi il broncio, avvelenandomi tutti i giorni il desinare!…»

Né era da dire che quella bestia stesse muto per poca voglia di parlare; giacché, in presenza di estranei, non la finiva più di narrare le sue avventure di viaggio, le grandi cose che aveva viste, le novità di cui in Sicilia non v’era neppur sentore. Con Benedetto Giulente, specialmente, e con la gente più o meno mescolata nelle cose pubbliche, teneva certi discorsi stupefacenti in bocca sua, sull’ordinamento delle guardie di città, sulla manutenzione dei giardini, intorno ai sistemi d’inaffiamento delle vie o d’illuminazione dei teatri. Perché diamine s’occupava di quelle cose? Per far sapere che era stato fuori via?… Ma nossignore; non solo teneva discorsi diversi dagli usati, mutava anche sistema di vita. Riveduti appena gli antichi compagni di bagordo, non li aveva più cercati, anzi li evitava; la passione dei cavalli pareva gli fosse interamente passata; non scendeva più nelle stalle, non teneva conversazione coi cocchieri. Non più donne, non più giuoco; passava il suo tempo chiuso nella propria stanza, dove non si sapeva che diamine ordisse. Quando andava fuori, faceva frequenti visite allo zio duca, col quale parlava di cose serie, o si vedeva in compagnia di gente che prima soleva evitare come la peste: parrucconi, politicanti del Gabinetto di lettura, sorci di farmacie, persone occupanti pubbliche cariche, tutto il codazzo del deputato. La posta gli portava ogni giorno una quantità di giornali italiani e francesi, e il libraio, ogni settimana, gli mandava grossi pacchi di libri che egli stesso andava a scegliere e ad ordinare.

«Qual altra pazzia adesso gli salta in capo?» diceva il principe, con tono sempre più acre, alla moglie; ma questa:

«Di che ti lagni?» rispondeva, conciliante. «Non si riconosce più; pare davvero un altro: benedetto questo viaggio, se lo ha fatto cambiare di nero in bianco!»

Certi giorni, Consalvo non veniva a tavola; al cameriere che andava a chiamarlo rispondeva, dietro l’uscio, che aveva da fare; e allora il principe buttava via il tovagliolo, stringeva i denti, quasi scoppiava dinanzi ai lavapiatti che assistevano al pranzo. Teresa, a un segno della principessa, andava a cercare il fratello e insisteva tanto, con voce dolce, con persuasioni amorevoli, finché egli apriva.

«Perché non vieni? Sai che al babbo dispiace…»

«Perché ho da fare, sto scrivendo, non posso perdere il filo…»

«Lascia di scrivere, contentalo, fratellino!… Hai tanto tempo per studiare! Altrimenti, potrebbe parere che tu lo faccia apposta, che tu l’abbia con lui… o con la mamma…»

«Io non l’ho con nessuno. Vedi che sto scrivendo?…» infatti la scrivania era piena di carte e di libri aperti.

E quando finalmente veniva a tavola, il principe gonfiava, gonfiava, gonfiava, vedendo il figliuolo taciturno e ponzante come un nuovo Archimede.

«Mangerò solo, se debbo vedere quella faccia da funerale! Tutto il giorno quella faccia ingrugnita! È una iettatura! il cibo non mi fa buon sangue! Piglierò una malattia…»

Allora Teresa, come la sola capace d’esercitare un’influenza sull’animo del fratello, tornava da lui, gli prendeva le mani, lo scongiurava d’esser buono, gli parlava dei suoi doveri di figlio; e Consalvo la lasciava dire, muto ed immobile. Ma una volta che ella, fra gli altri argomenti, addusse quello della gratitudine che dovevano al padre e alla madrigna, egli rispose, con ironia fredda e tagliente:

«Molta, in verità… Mio padre m’ha voluto sempre bene, fin da quando mi tenne dieci anni chiuso al Noviziato, come ha tenuto in collegio sei anni te! Gli dobbiamo essere molto grati entrambi, perché non lasciò passare sei mesi dalla morte di nostra madre, che mise un’altra al posto di lei… Anche lei, dal Paradiso, deve essergli grata pel rispetto, per l’amore, per le cure di cui la circondò…»

«Taci! Taci!…» esclamò Teresa.

«Ho da tacere?… Lo sai dunque quel che fecero soffrire a quella poveretta?… Ma tu eri a Firenze, tu non puoi saper niente…»

«Taci, Consalvo!»

«Allora, che vuoi? Dimmi tu che debbo fare per contentarlo! Quando stavo tutto il giorno fuori casa, a divertirmi a modo mio, spendendo quattrini: nossignore, bisognava cambiar vita! Adesso che sto sempre dentro, a studiare, continua a rompermi la testa?»

Consalvo studiava economia politica, diritto costituzionale, scienza dell’amministrazione. La gente che non sapeva di che cosa s’occupava, ma che vedeva il radicale mutamento operatosi in lui, lo attribuiva al lungo viaggio, al senno che tutti i giovani, o presto o tardi, hanno pure da mettere. E il viaggio, infatti, era stato l’origine della conversione del principino, la sua grande lezione.

La lotta col padre lo aveva disgustato della sua casa ed anche del suo paese, dove la mancanza di quattrini e la pesante autorità paterna non gli consentivano di fare tutto ciò che voleva; pertanto egli aveva accettato con gioia d’andar via, di girare un poco il mondo; ma la prima impressione da lui provata, appena fuori di Sicilia, fu quella che proverebbe un vero Re in cammino per l’esilio. Il giorno prima, quantunque non potesse sbizzarrirsi a modo suo, era nondimeno un pezzo grosso, il pezzo più grosso del suo paese, dove tutta la gente, in alto e in basso, gli faceva di cappello e s’occupava di lui e delle cose sue; a un tratto egli si svegliava uno qualunque in mezzo alla folla che non gli badava. E se neppur egli avesse visto nessuno, meno male: ma le lettere di presentazione di cui era fornito lo avevano messo in rapporto, a Napoli, a Roma, a Firenze, a Torino, con altra gente, coi signori di lassù; e allora aveva compreso che c’eran pezzi grossi più grossi di lui. Il nome di principino di Mirabella aveva perduto la sua virtù, era diventato quello di un signore come ce n’erano a migliaia. Il lusso vero, e non quello mediocre di suo padre, il gusto fastoso, lo sfarzo elegante di cui non s’aveva idea in quell’angolo di Sicilia, fuori delle grandi vie del mondo, dov’egli era vissuto, lo costringevano a riconoscere la propria inferiorità. Al club di Catania erano quasi in famiglia ed egli troneggiava; a Napoli e a Firenze otteneva per favore un biglietto per pochi giorni; se fosse rimasto a lungo avrebbe dovuto esporsi ad una votazione, farsi raccomandare, correre, chi sa, il rischio d’essere respinto! Nella sua testa avveniva una rivoluzione. Soffrendo realmente nell’orgoglio, nella vanità di «Viceré» quando andava a fare qualche visita in certi palazzi grandi quattro volte l’avito, nei quali invece di botteghe da affittare c’erano gallerie vaste quanto musei, con dentro tesori d’arte, egli smise di frequentare le sue conoscenze, rinunziò a farne di nuove. Per affermare in qualche modo la propria ricchezza, buttava via i quattrini a carrozze di rimessa, o nei caffè, nei teatri, nei negozi dove comprava una quantità di cose inutili, col solo scopo di lasciare il suo indirizzo: principe di Mirabella, albergo tale… Il più caro della città. E meno male ancora a Napoli, dove le tradizioni d’uno spagnolismo in tutto eguale al siciliano gli facevano dare dell’Eccellenza dagli sconosciuti che gli si professavano servi; ma a Firenze, a Milano, gli toccava il semplice signore; e invano Baldassarre, che gli stava sempre a fianco, prodigava il Sua Eccellenza e il Voscenza paesano: la gente sorrideva o restava a bocca aperta alle espressioni stravaganti del maestro di casa.

Così, per evitare queste mortificazioni, il principino passò all’estero più presto del tempo stabilito. In paesi stranieri, la maggior ricchezza e autorità della gente della sua casta non lo feriva tanto, ma un altro impaccio lo aspettava: col suo povero e mal digerito francese, si sentì come fuori del mondo a Vienna, a Berlino, a Londra: a Parigi fece sorridere, come in Italia Baldassarre. Ma frattanto la Sicilia, il suo paese nativo, la sua casa dove la considerazione ed il primato d’un tempo lo aspettavano, erano divenuti per lui sempre più piccoli e meschini. Come rassegnarsi a tornare laggiù, dopo aver visto la gran vita nelle grandi città? E come tenere un posto mediocre in una capitale? Bisognava dunque essere il primo tra i primi!… E una volta entratagli in testa quest’idea, Consalvo si mise a considerare il modo di attuarla. Suo padre avrebbe consentito a lasciarlo andar via per sempre? La cosa era dubbia, ma immancabilmente, articolo quattrini, ne avrebbe assegnati il meno possibile; e con vincoli umilianti, come durante quel viaggio, tutte le spese del quale dovevano esser fatte personalmente dal maestro di casa! Vivendo il padre, egli non avrebbe dunque potuto conseguire il suo scopo; e il principe poteva vivere cent’anni, come tanti di quegli Uzeda che avevano il cuoio duro, se il vecchio sangue non si scomponeva prima del tempo… E Consalvo che, ragionando freddamente, mettendo a calcolo tutto, faceva i suoi conti sulla morte del padre come sopra un avvenimento necessario alla propria felicità, considerava anche un altro lato della quistione: l’insufficienza di tutta la sostanza paterna, il giorno in cui egli ne sarebbe stato unico padrone, a dargli le soddisfazioni che andava cercando. Grande laggiù, e anche da per tutto, per uno che non avesse voglie smodate, il patrimonio del principe di Francalanza era per Consalvo poco più che la mediocrità, a Roma. La morte del padre era dunque inutile; egli doveva cercare un altro mezzo. E lì alla capitale, quando vi passò di ritorno, egli lo trovò.

Lo zio duca, fra le altre lettere, gliene aveva date parecchie per i colleghi del Parlamento. All’andata, egli aveva visto un momento l’onorevole Mazzarini, giovane avvocato della provincia di Messina, il quale faceva la politica continuando ad esercitare la professione. Di ritorno, Consalvo pensava a tutti fuorché a costui, pel quale sentiva un profondo disprezzo di razza, quando una sera si vide accostato per via dall’onorevole. «Di nuovo a Roma, principino? Di ritorno, naturalmente? Ma perché non m’avete avvertito del vostro arrivo? Sarei venuto a trovarvi, m’avreste fatto tanto piacere! E vi siete divertito certamente, non c’è bisogno di domandarlo!» Colui parlava a vapore, gestendo, dandogli confidenzialmente del voi, mettendogli le mani addosso. E Consalvo, che alle dimostrazioni d’intimità restava freddissimo, si tirava indietro, schifando ogni contatto. L’onorevole però, quantunque accusasse un gran da fare, e avesse infatti lasciato un crocchio di gente che lo attorniava, lo trattenne un pezzo; prima di lasciarlo gli disse: «Ci vedremo domani; verrò a trovarvi all’albergo…»

Consalvo fu tanto stupito che non ebbe tempo di levarselo dai piedi. Ed il domani Mazzarini, venuto a prenderlo, lo invitò a desinare con lui, trascinandolo al Morteo. V’erano molti altri deputati, una quantità di clienti li circondava; Mazzarini stesso, prima di potersi sedere a tavola, dovette sbarazzarsi di quattro o cinque persone che lo aspettavano, e per tutta la durata del pranzo parlò della moltitudine delle sue faccende, delle combinazioni politiche, degli affari pubblici; un fattorino del telegrafo gli portò due dispacci, dei quali egli firmò la ricevuta masticando a due palmenti, macchiando d’inchiostro il tovagliolo che teneva appeso al collo. Le persone che traversavano il caffè lo salutavano, egli rispondeva loro, interrompendosi con un «cavaliere!…» o un «caro commendatore!…» Alle frutta, aveva una piccola corte d’intorno alla quale parlava, con grande animazione, di Roma, di quel che bisognava fare per renderla degna dei suoi destini, per affermarne l’italianità, per tenere a segno il Vaticano. Finito il pranzo, un po’ alticcio, prese a braccio Consalvo il quale fremè a quel contatto; ma il deputato, con un sorriso che voleva essere discreto ed era beato, esclamò: «È dura la via della politica, specialmente quando bisogna lavorare per vivere; ma, in fin dei conti, procura anch’essa qualche soddisfazione!… E voi, principino, non pensate di mettervi nella vita pubblica?»