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Lo assedio di Roma

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Lo assedio di Roma
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PROLEGOMENI

Roma!

E’ corre vecchia fama che Roma sia parola arcana, e significhi Amor, ed io ci credo, però che sappia come l’Amore nascesse ad un parto insieme coll’Odio; ora Roma, appunto rappresenta l’Amore indomato del sangue latino alla terra latina, e l’Odio religioso contro lo straniero da qualsivoglia plaga si muova per contaminare la terra latina.

Roma crebbe la sua terra con la polvere degli stranieri: e fu giustizia; ma poi le piacquero i gaudi della strage, e la voluttà acre dello imperio del mondo; allora si accese contro lei l’ira di Dio; i barbari vennero da contrade rimotissime prima a rovesciarla nel sepolcro, poi a seppellire lo stesso sepolcro.

Però che anco sepolta Roma metta spavento.

E tuttavia, in fondo del sepolcro sotterrato Roma meditò un’altra signoria; all’antica rete dalle maglie di ferro sostituiva la rete sacerdotale dalle maglie di fede, e gittatala su le coscienze imprigionò da capo molta parte del mondo.

Anche questa fu colpa, e più trista della prima, però la vendetta ne dura più lunga. I padri nostri peccarono e noi portiamo il peso delle loro iniquità. Veramente ella si merita il saluto di Niobe delle nazioni; lei a buon diritto appellano madre le anime desolate; veruna città patì maggiori ingiurie di lei: qui, pure ieri, al popolo romano plaudente alla libertà il littore francese disse: basta, e il popolo tacque, e qui, mila e mila anni fa, il soldato gallo che profanò temerario la veneranda canizie del senatore cadde col cranio fesso dal colpo dello scettro di avorio.

Di cui la colpa? Colpa è di coloro i quali mentre Roma, e Venezia arieno ad essere i punti estremi della cote su cui arrotare il ferro, e la virtù italiana gittarono dentro lo spazio che intercede tra una terra e l’altra viltà, avarizia, ogni maniera di malvage passioni, e ignoranza e ne tramarono il lenzuolo dentro il quale si avvolgono i popoli diventati cadaveri.

I preti quando dintorno rintrona il ruggito del lione tremano, e fuggono; allorchè poi vedono accostarsi le volpi dicono: perchè ce ne andremo? Non siamo volpi anche noi? Il crisma del Signore non fabbrichiamo noi altri? Sicchè, se siamo unti non si domanda nè anco! Quanto a corone noi ne portiamo tre.

I preti ci procedono acerbamente nemici: chi li potrebbe condannare? Certo non io. Di vero, chi oggi ha in mano il freno d’Italia non li sa satisfare nè spengere, bensì intende arrostirli a lento fuoco come san Lorenzo, ovvero scorticarli a mo’ di san Bartolommeo; e questo i preti ben possono con orazioni panegiriche levare a cielo, e chi lo patì, onde altri lo riverisca, riverire, ma non sostenere essi. La Chiesa non ha più mestieri di martiri; cessò di essere militante per diventare trionfante; se a taluno cui rimase addosso la vaghezza del martirio vuole cavarsene la voglia se ne va lontano lontano nelle parti degl’infedeli, però, che tra noi correrebbe il rischio di trovarsi chiuso in qualche manicomio, ovvero in prigione; dacchè le coscienze abbiano ad essere libere, e persona deve possedere la facoltà di turbarle. Ognuno viva tranquillo nella religione dei suoi padri, nè deve mutarglisi con violenza, o insidiare con fraudi dove non appaia mostruosa per pratiche nefande; il che accade solo tra gente selvaggia; lassù in fondo oltre le stelle vigila per tutti Dio, e le diverse religioni del mondo sono quasi assise diverse di un medesimo signore, e bandiere di uno stesso capitano. Così piaccia al Padre delle cose e degli uomini versare sul capo dei mortali insieme con la luce la benevolenza, affinchè le tavole della sua legge compaiano norme di vivere faterno non bersaglio posto davanti ad arcadori irrequieti.

Ma tu dirai: e chi vuole martoriarli? Io intendo tôrre loro il governo dei beni terreni. E chi sei tu che presumi spogliare della sostanza il prete? – Il prete dice: in nome di cui vieni? Quale rappresentanza hai? Come mostri che governerai meno di me soperchiatore ed avaro? Un solo è padrone della terra, questo si chiama popolo. Io non mi sento muggire intorno le onde del popolo. Sorgano intorno a me anime latine, ed io cederò alla grandezza latina. Se per te il danaro è sangue, egli è sangue anco per me; e con quale giustizia mentre il secolo rappresenta una corsa forsennata, un lupercale, un baccanale a traverso tutti gli articoli del codice penale per agguantare il milione dovrò lasciarmi tôrre la camicia io prete, io prete, uso di cavarla altrui, e cantare il Te-deum? Ed io prete, ho mestieri di tenermela cara meglio di voi perchè voi altri andate in Borsa, convenite in Camera, tendete trappole di strade ferrate, aprite reti di crediti fondiari, vendete, barattate, mercate, ma io non ci vado, e a sopperire ai miei bisogni non mi avanza altro che la rete di San Pietro a cui per vetustà ora casca questa, ed ora quell’altra maglia. Qualche prete in Camera andò, ma scarso, e parve pauroso, ma per un’abbadia si mansuefece; di fatti, il modo più sicuro onde uomo taccia sta nello empirgli la bocca; dunque come presumete che altri non fiati levandogli quello che da secoli gl’imbandirono dinanzi la industria propria e la ignoranza altrui? Sacerdoti e Sacerdotesse si rassomigliano tutti; Alessandro strinse la Pitia nelle sue braccia, e la sforzò a rivelare lo spirito del Dio; anche il Papa a quel mo’ intenderebbe ragione; se vuolsi, che il sommo Pontefice si accosti al cielo sollevatelo con mani poderose di sopra la terra. Finchè domanderete Roma come il pitocco la elemosina voi non l’avrete; Roma, di cui i cittadini dispensavano le corone ai Re come soldi, patireste voi vi fosse data come un soldo? A Roma si va ma con cuore, con braccia, e con passi romani.

E questo è vero. Ma quando Roma avrà Romani sparirà il sacerdote? Non credo. Potrà egli dunque ridivenire poeta, legislatore, e guerriero? Nè manco questo credo. Potrà, se vuole, durare poeta, e Pio IX lo fu un momento quando nella procella che abbatteva imperi e regni, come fronde in bosco, ravvisava il soffio di Dio; la umanità è cosa che passa sopra mondo, che passa; ma il suo cuore anela la eternità; il sacerdote, se gli basta la mente rimarrà su la terra pilota per indicare alle generazioni che le mille vie lattee sono altrettanti sentieri pei quali le anime dei buoni arrivano al seno del Padre delle cose e degli uomini.

Io non so se ad uomo sia dato vivere secoli; lo dicono, ma non ci credo, comunque vive adesso in Italia un’uomo che pare anima romana dimenticata dalla morte: da questo un dì mosse un grido potente, che disse: a Roma. Gli furono addosso i nemici, e degli amici quelli, che si erano fatti della Patria una pentola per cocervi gli alimenti di casa. Le anime romane udirono nelle antiche sepolture la voce, e parve loro antica e conta, sicchè rimescolaronsi, e sollevarono i coperchi. Dalle dimore della morte dei vecchi padri usciva un’alito, che bastò ad infiammare il petto dei pretesi vivi di mirabile ardore.

E vi hanno cose che non si possono ridire, come ve ne sono di quelle, che non si possono rappresentare. Timante, pittore, non velò la faccia di Agamennone presente al sacrificio della figliuola Ifigenia? Chi potrà favellare della ignominia di Aspromonte senza sentirsi il cuore trasalire nel petto come leone in gabbia? Imperciochè, qui stava il punto: il Garibaldi aveva ragione del torto altrui. Veruno, ch’io sappia, considerò cotesto caso sotto il suo aspetto giusto ed unicamente vero; Giuseppe Garibaldi dittatore, pigliando su di sè non essere mestieri Assemblea costituente per fermare i patti dell’annessione di Napoli al Regno italiano, mallevò che le cause le quali lo persuadevano sarebbero state compite e subito; perchè opera interrotta affligge più dell’opera ruinata, significando la prima impotenza o inanità di consiglio nel fabbricatore, la seconda, forza di casi, ed empia virtù del tempo; del primo fatto, la colpa sempre intrinseca, e in facultà tua o astenertene, o emendarla; del secondo, nè tua, nè a te concesso riparare. – Il Garibaldi si trovò nella condizione del garante quando manca il debitore principale: tremendo carico gli stava addosso per la Patria, pei popoli fiduciosi in lui, per la democrazia, per la propria fama, patrimonio suo, ma e ad un punto e della Italia. Gli uomini di arme, comunque nella mano prodi, ai nostri giorni ci diedero e ci danno tali e tanti esempi di miserabilissime calate, che il Garibaldi sentì il dovere di mettere fuori la sua apologia: ora cotesta maniera di apologie si scrive col sangue; ed ei col suo sangue la scrisse. Il Garibaldi mostrò essersi ingannato, come il popolo s’inganna spesso perchè generoso e fidente. Di qui, se arguto intendi, comprenderai le ragioni ond’egli solo, o quasi, e certamente non in sembianza di cui si apparecchia a combattere, egli si accinse a compire il suo debito: alla espiazione bastava solo: e di qui il motivo pel quale sopraffatto, crebbe, nello amore del popolo: la gloria di capitano invitto rimase intera a colui, che debole ed aborrente la zuffa, si trovò circondato da eserciti, e da condottieri bramosi di sangue; la gloria di onesto crebbe; e il popolo italiano oggi ha sete, gli è proprio assetato di Onestà. Il Garibaldi Anteo del nostro secolo, o lo rovescino a terra, o lo sollevino al cielo raddoppia sempre la forza; vicino a terra gliela somministra il popolo; accosto al cielo gliela partecipa Dio.

I coperchi degli avelli romani sollevati dalla voce del Capitano del popolo non si sono richiusi; come tante bocche aperte gridano: – codardi! eroi da teatro! a Roma non si va che con ardimento romano.

Roma venne tratta dinanzi come l’arco di Ulisse; bisogna curvarlo o morire. O Proci, divoratori della sostanza altrui, badate, Ulisse è già approdato in Itaca.

Ma intanto che i fati si compiono, bisognerebbe che gl’intelletti divini imprendessero due compiti, pure aspettando d’imprendere il terzo. – Roma un dì ebbe il popolo; – a ripigliarsi Roma, giorno e notte si travaglia il popolo; – il popolo, in avvenire prossimo, si acquisterà Roma. Pertanto alla Italia adesso farebbero mestieri tre uomini, Omero, Macchiavello, ed Erodoto… il guerriero ci è.

 

Omero per consolare con la luce del canto le anime di coloro i quali da tutte parti d’Italia convennero a Roma a fare la prova con documenti di sangue, che la Città eterna è patrimonio degl’italiani.

Macchiavello per insegnare con quali modi i popoli caduti ritornino in fiore, e come i deboli devano adoperare per rifarsi gagliardi; – e più ancora chiarire le menti, che ogni disagio deva sopportarsi a patto di costituirci nazione. Se il Demonio, o volesse, o potesse venire al mondo per istrascinare nel suo inferno Papa, e Borbone, e di ogni risma stranieri, ben venga il Demonio; noi lo saluteremo: Demonio I rè d’Italia; purchè venga armato di ferro, e di fuoco.

Erodoto, il fortunato, il quale poichè la Italia andrà famosa di battaglie come quelle di Maratona, di Platea, delle Termopili, di Salamina, e di Mycale, potrà sotto la ispirazione delle Muse dettarne la Storia, e leggerla al popolo fatto per entusiasmo divino nelle Olimpiadi e nelle Panatenee nostre.

Le storie dei grandi gesti scritte dal popolo, solo la Immortalità accetta e ripone dentro i suoi archivi; dalle altre, dettate da gente di corte e venduta, ella ritira le mani come da cosa immonda.

Ora in Italia dov’è Omero? Dove Macchiavello? In qual terra nacque Erodoto? E lasciamo questi ingegni magni da parte.... dov’è chi accenni portare sul capo la fiammella del Paracleto fra noi? Come l’uccello, secondo la stupenda similitudine di Dante, che su l’aperta frasca fisa la plaga di oriente pure aspettando che sorga l’alba, io mi volgo da tutti i quattro venti, smanioso di vedere sorgere la luce nuova di faccia a cui gl’ingegni nostri diventino quale si fa il lume di candela quando splende il sole nella gloria dei suoi raggi; ma, ahimè! da lungo tempo io lamento il secolo apparirmi simile all’uffizio della settimana santa dove al finire di ogni salmo spengono un cero; ed oscurata la chiesa, si annunziano poi le tenebre con le battiture.

Senza paura, come senza offesa io lo dirò; non basta la gagliardìa; anco i gladiatori erano forti; e corre gran tratto tra coraggio, e coraggio; anco i gladiatori erano animosi, e sostentavano la vita per darsi la morte dinanzi ai Quiriti. La vita consolata da affetti, decorosa di sapienza, pura da colpa è sagrifizio degno della Patria; chi butta là la vita bestiale, fastidiosa, e contaminata offre alla Patria la offerta di Caino. I sommi capitani in antico comparvero eroi però che con lo intelletto intendessero e col cuore sentissero quello perchè combattevano, e palpitassero prima per la Patria poi per loro; nè le armi, già instituto di vita o fine delle azioni, bensì, mezzo o via per tutela della Patria, e della famiglia. Cincinnato, compita la guerra, ripigliava il solco interrotto nel campo paterno. Oggi, si corre dietro a’ gradi della milizia al pari che dietro una prebenda, e il divario, che occorre tra un capitano e un canonico, gli è questo: che uno si procaccia il vivere con la spada, d’altro, se lo procura col breviario, onde se non trovi canonici che abbiano genio di capitano, ti occorrono qualchevolta soldati che arieggiano anco troppo del canonico; nè questo giudico il peggio. Le armi appartate dal vivere civile, e sceme di dottrina, e piene di presunzione tu reputa addirittura minaccia non sostegno di libertà; il soldato ignorante e il mastino della tirannide. Erodoto, Senofonte, Socrate, Epaminonda di Tebe, Arato di Sicione capitani furono e filosofi; la spada in tempo di pace mettevano per segno in mezzo alle pagine dei libri della sapienza, però, quando ne la traevano fuori non si correva pericolo che senza accorgersene essi l’adoperassero a danno della Patria, e in pregiudizio della Libertà. La milizia incivile ha educato fra noi gente misera a un punto e contennenda; poichè non la menò diritto al canonicato, fastidisce i lavori dagli studii rifugge, irrequieta sempre e bisognosa di sommovere le acque per pescare nel torbido; al contrario di quanto disse stupendamente il Danton, si porta la Patria sotto le suola delle scarpe.

Morte degli studii onorati, come del senno politico, del senso morale, di tutto che compone l’onesto vivere civile il mestiere dei Giornalisti. In questa maniera di scrittura convennero la mediocrità astiosa, la calunnia che si vende, la presunzione ventosa, insomma quanto di più volgare, e di più tristo deturpa la razza umana. La più parte dei Giornali, macelli di malacarne, dove i quarti della coscienza degli scrittori tu vedi appesa ai ganci per ritagliarsi a minuto. E’ par bello ai dì nostri vendere a peso, e a misura ciò che altra volta avrebbe condotto sopra la panca dell’accusato; chè, appunto quegli che fu commesso alla custodia della legge, e all’onore dei cittadini paga co’ denari del pubblico i laceri contro la legge, e l’onore dei cittadini. Gli è il saturnale dei maestri di scuola senza scolari, di causidici senza liti, di medici senza ammalati, di ghiottoni di ogni risma; ai quali larvati dell’anonimo sembra grazia, ch’era follia sperare, rifarsi dell’astio contro cui per virtù, o per ingegno, o per servizi resi alla Patria primeggia; sfogare lo infinito veleno che gli affoga; industriarsi ad avvilire altrui onde abbiano gaudio della propria viltà Giornalismo sifilitide schifa della Libertà. – Cristo! che alluvione di pantano si distese per tutta la Italia.

E Cristo, tuttochè mansuetissimo fra le creature, quando gli occorse il tempio contaminato dai pubblicani e dai rivenditori, a colpi di flagello li cacciò via dal portico; e vendevano mercerie, o commestibili; i Giornalisti poi vendono la coscienza, e non mica nel portico sibbene dentro il tempio, anzi nel santuario, dove impugnato il corno dell’altare della Libertà, in nome della Iddia pretendono asilo.

E tuttavia come cosa barbara gli asili antichi abolironsi, e chi vi rifuggiva s’ingegnava sottrarsi alla pena di delitto commesso, e forse gli rimordeva la colpa; ad ogni modo costui o non poteva o male rinnovare la colpa mentre i Giornalisti abbracciano l’ara della Libertà per continuare impuni i misfatti; nè di altro sentono rimorso, che di non avere fatto peggio.

Per tema di offendere l’altare nel colpire il nefario, che lo abbracciava quando tenni in mano la scure del potere, aborii adoperarla; nè me ne astenni solo, bensì curai, che i diari infesti e pieni d’ingiustizia liberamente si propagassero: non sono vanti questi ma verità, e fossero vanti, veruno può contrastarmeli; però, molto meno privato cittadino devo adoperarmi a restringere per anticipazione l’esercizio liberissimo delle facoltà dell’uomo; tanto però ho chiesto, ed in tanto insisto, che ogni scrittore apponga il nome sotto il suo scritto; questo impongono la giustizia e la buona morale, e dacchè gli scongiuri mossi a custodia di cose siffattamente necessarie non sortirono l’effetto desiderato; intervenga la legge e comandi; pei trasgressori metta le pene. Ai liberi uomini sconviene camminare come i topi nei cunicoli; e quando troppi, rodendo le staminare al buio pongono in pericolo la nave, il marinaro li leva di mezzo con la stufa. – Nè mi acqueto punto all’obietto, che in fondo al Diario occorre il nome del Direttore il quale malleva di tutto, perchè il Direttore sta lì per finzione, nè si può disprezzare altrui per finzione, e molto meno trovo giusto punirlo; e poi sovente il Direttore si sceglie per la ragione, che natura ed arte gli foderarono la faccia di zinco sopra ogni altra creatura umana; non potrebbe toccare mai a cittadino onorato peggiore fortuna, che prendere briga con taluno di quelli che si appellano Direttori di Giornali; chi con le mani ignude vorrebbe raccattare lo scorpione…?

Anco questo il popolo si abbia per segno di Libertà verace; – il cessare la compra e vendita delle coscienze co’ danari spillati dal sudore del popolo per difendere le colpe e gli errori dei governanti, e per assassinare i cittadini dabbene. Da sè il Governo libero e degno di popolo libero si difenda aperto, franco, ed ardito, e cacci da sè lontano i sicarii; perchè, che cosa mai altro sono gli scrittori comprati se non sicarii della penna? Si, sicari della penna.

E questo fu detto, e lo andremo ripetendo, finchè la esecrazione pubblica non gli abbia presi a sassi: ella è la morte dei lupi affamati; tornate, o paltonieri, ai solchi aviti, che vi piangono lontani, tornate magari nel ghetto a vendere ciarpe, scorticate clienti, uccidete infermi, tuffatevi rospi nel sembiante, e più nell’anima nei fanghi del Sebeto e della Dora; tutto men peggio, che vedere caduta la Patria tra gli artigli di questi sciagurati adoratori della nuova Trinità d’ignoranza, di prosunzione, e di viltà, ch’essi hanno inventato per uso loro e dei loro divoti. Intantochè la stampa, pari all’asta di Achille, non abbia curate le ferite che ha fatto, sopportiamola come si sopporta il fumo che precede la fiamma, letizia degli occhi e ricriamento delle membra assiderate.

Poichè questa nostra resurrezione, mercè la setta stupida ed iniqua, che sì argomenta, assai si rassomiglia ad un campo-santo, e poichè l’alba con tanta ansietà aspettata si manifesta col raddoppiare del buio, mi proverò io a compire il debito della nuova generazione: nelle notti di estate, quando l’oscurità afosa ingombra fitta la terra, anco la lucciola pare una stella.

Una volta io possedeva una cosa buona, e la gioventù un’altra, cento cotanti migliore; io aveva il braccio forte, la gioventù un petto pari all’antico ancile lo scudo venuto dal cielo, onde allorchè io ci battevo sopra, quel cuore-scudo sprizzava scintille d’ingegno e di virtù; ora, vedrete, il suo rumore sbanderà impauriti i giovani quasi colombi alla pastura.

Mi si dice esserci noi discostati dalla servitù; questo può darsi: io domando questo altro: di quanto ci siamo accostati alla libertà? – Tu gitti, mi si risponde, sopra la carta la tua anima come lava ardente, e veruno ti torce un capello; un dì per questa colpa quante carceri hai tu visitato? – È vero, io sussurro sgomento, ma la carcere ci appariva gioconda quasi stanza nuziale, perchè l’onda delle passioni popolesche sommossa dalle nostre parole, ne percoteva i muri come mare in tempesta: confidavamo che le sarebbero state seme di verace libertà: – coraggio, gridavano l’uno all’altro, erpichiamoci anco su quel dirupo, superato quel monte, addio nevi, addio dolori, e fatiche; la Libertà ci aspetta tutta amorosa a mo’ che apparisce la sua benedetta culla, la Italia, a coloro che scendono giù dal Moncenisio. Affascinati gli occhi dalla divina speranza, chi sentiva le piante lacere dal tormentoso cammino, e chi, sentendole, avrebbe ardito lamentarsene? Ora, valicato quel monte ci sorge davanti un’altro monte più aspro, e rigido di ghiaccio; i cagnotti dell’antica tirannide, mutata veste, tribolano come prima; della Libertà accadde quello che favoleggiano avvenisse alla Giustizia la quale volando al cielo lasciò cascarsi la veste; i Giudici di cotesti tempi lontani la presero, la tuffarono nella propria coscienza e la fecero nera; d’allora in poi, gli uomini scambiarono la toga per la giustizia, proprio a quel modo che eglino adesso per lunga stagione, hanno barattato la Libertà con le insegne di lei. E da per tutto così. Poteva durare vitale la Libertà ch’ebbe per compare il marchese Lamartine? Poteva essere Libertà quella, covata dal Barone Ricasoli e compagni, superbi odiatori del popolo più che del sangue viperino? A Parigi, come altrove, e forse lì peggio che altrove, una mano di aristocratici e di sofisti adoperarono il popolo secondo che costuma il ladro della scala per salire alle finestre della reggia, e saccheggiarla in nome della Libertà: piaggiatori palesi della moltitudine, quanto più in segreto la odiavano, non guidatori, l’accesero a brame impossibili; poi la saldarono a cannonate. Il popolo si accosciò sgomento e tu ora (atroce a dirsi!) lo raccogli per combattere guerre, che nulla gli dice essere patrie, nella guisa stessa che traduci in vincoli il malfattore affinchè paghi la pena. Con la faccia china alla terra bagnata dal suo sudore, il popolo mormora: ora e sempre, questa terra rappresenta per me travaglio disperato, e sepolcro miserabile. Chi basso, chi alto, ma fin qui tutti quelli che vedemmo succedersi, ombre grottesche di lanterna magica sopra la parete avversa, ci hanno intonato agli orecchi; – servi, paga, e ce ne avanza. – Nè ometto qualche altra cosa, che è questa: – scegliti prima il padrone, e poi, quando ti chiameremo a pagare il tuo tributo di sangue corri a gambe; se meni un solco lascialo a mezzo come costumò il Putnam americano; se ti manca cucire gli ultimi punti ad un’abito, buttalo là; se la chiamata ti coglie mentre ti curvi a baciare nella culla il tuo figliuolino, rompi la curva, e vienne via; se abbracci la tua consorte sciogliti e respingila; se cali adagio adagio l’amata salma paterna nella fossa, scaraventala giù di tonfo, corri a salvare la Patria tutto di un fiato – emula Euchida che nel giorno stesso preso il fuoco a Delfo ritornò a Platea di tutto corso facendo ben cinquanta leghe di cammino, e portò il fuoco, dopo salutati i cittadini morì; e bada qui, sta’ attento, la Patria siamo noi.

 

La Libertà è cosa oltre ogni estimativa preziosa, bisogna che tu popolo la paghi cara, anzi carissima. Lo ha detto chi non poteva fallare. Ma dove alberga, di grazia, e come ha faccia la Libertà? La Libertà è pianta che cresce; e vive a Torino, dove gli alberi privi dell’onore delle foglie paiono spettri sette mesi dell’anno; là Libertà, guardaci bene, è fatta ad immagine nostra.

Insomma, come la donna adultera della scrittura, questa setta empia si frega i denti e dice: – io non ho peccato! – All’opposto, sfrontata e bugiarda dopo avere seguito da lontano il Lione del popolo e dopo essersi, sozzo Jakallo, pasciuta dei suoi rilievi, montata su i trampoli, strilla: – -io feci, io fui.

Sembra impossibile a qual punto d’insania ella trascorra, perocchè adesso senza impeto alla scoperta ti affermi: – tarlo della Monarchia, io m’imposi; trovo il mio conto a roderla, e con lei mi sto, nè fie che me ne diparta finchè io non miri il popolo in procinto di empire le città di sangue con battaglia cittadina.

Il popolo ode queste sentenze uscire dalla bocca di coloro, che gli si professavano amici; leva gli occhi lenti e tardi a guardarli; li nota e ruguma sopra i tempi passati, e gli avvenire.

E a noi, che gli parliamo parole di speranza, e gli diciamo: «non badare a cotesti insensati, è una eclissi che passa, una nuvola traverso la faccia del sole; ripiglieremo la via interrotta, cesseranno le mostre sceniche, i giorni delle vere battaglie torneranno, i generosi sul campo daranno e riceveranno perdono; – il popolo brontola cupo, e scorrubbiato: – via di qua poeti, perchè storcerete voi sempre il senso alle parole? E che prò trovate a nascondere la realtà delle cose? Lo hanno dichiarato espresso, bisogna combattere, e vincere, allora e solamente allora ci daranno ragione; essi hanno torto, e lo sentono, ma la legge adoperano come della lacciaia i butteri; chi preso tentenna, sente stringersi il collo. Per quanto amore portate a Dio lasciatemi stare; io non vi chiamerò perfidi ingannatori, ma ingannatori siete perchè vi ostinate a volere essere ingannati. Ormai, dinanzi al popolo la setta empia mette due vie, quella di buttarsi sopra la terra e confidarsi nel tempo che consuma il tiranno e lo schiavo, i re, e i popoli, che logora le catene, e i polsi, i flagelli, e le schiene, appo cui tutto è foglia che disperde il verno; il tempo che ogni cosa travolge dentro ai sepolcri. Ah! poichè il sommo Creatore non volle impedire alla ingiustizia di ramificare le sue potenti radici sopra la terra a sollievo di tanta amarezza mandò la morte. – E’ pare insensato, ma io popolo, affermo solennemente e predico, che senza la morte non potrei più sopportare la vita....»

Ecco che ci risponde il popolo adesso che gli favelliamo liberi in tempi che salutano di libertà; prima, le nostre parole scendevano nel suo cuore, auspici la persuasione, e la speranza; adesso la rabbia le respinge pari al demonio che sbatte le porte in faccia all’angiolo, nella divina Commedia. E l’empia setta presume conoscere il popolo, e si vanta tenergli le mani nei capelli. «Esagerazioni! ella esclama, qualcheduno di coloro che a prezzo di vita acquistarono un regno alla Italia morì di fame; forse tal’altro per non patire vergogna portò contro di sè le mani violente; le sono cose che tutto dì accadono, nè per questo se ne «turbano l’ordine delle stagioni nell’anno, nè lo appetito a noi.»

Oh! dateci, ridateci i nostri gesuiti, e i vecchi sbirri, e le vecchie manette; dateci tutto, tutto, a patto che ci si ridia il popolo che tremava di odio contro lo straniero, il tempo che al cittadino italiano preso in sospetto di odiare meno l’oppressore della Patria era mestieri ripararsi in istranie contrade, la stagione nella quale un’uomo perchè aveva accettato ufficio da principe assoluto trovò chiusi i cuori e le porte dei suoi amici, la carcere dove si poteva serivere; il Papa vuolsi aborrire per tre tiranni però che porti tre corone sul capo.

Non importa, però che l’uomo sia quasi un sasso nella mano del destino e gli tocchi andare dove si sente sbalestrato – e Nemesi duri, la quale vigila eterna; il sonno fugge dagli occhi suoi senza palpebre, il braccio di lei si agita senza posa a percotere le colpe dei mortali: cotesta è gelosa divinità e terribile, dov’ella spinge bisogna andare; conduce i volenti, i repugnanti strascina.

È cosa naturale che ogni generazione si consideri la predestinata a compire l’opera del perfezionamento dell’uomo; bene provvide la natura nello infondere dentro l’individuo la baldanza di essere il prescelto a porre l’ultimo sasso all’edifizio; – ma quando l›opera gli si aumenta alla stregua del travaglio, e a mano a mano che sale gli si dilata l›orizzonte davanti agli occhi, allora comprende, generazione o individuo, se essere particola della somma Intelligenza sì, ma particola finita nella sua specie, ma frammento di opera che andrà compita in capo ai secoli, e forse mai.

Perchè, quando mancassero le necessità del perfezionarsi, cesserebbero a un punto le cause del vivere, e la umanità priva di passioni rimarrebbe immobile, pari alla nave sorpresa da calma perpetua con le vele pendenti, a infracidirsi sopra il mare morto.

Si contentino dunque lo creature umane di formare parte dello edifizio fatale: ognuna fie lodata pel compito, che le venne imposto, e ch›ella valorosamente condusse; e di tanto ringrazi l›Eterno architetto che con gli occhi mortali non potrà vedere il termine della opera manifesta ed intera, le si presenta agli occhi dello intelletto: dove il corpo non giunge, l’anima vola, e se ne appaga. Se poi taluna, o non vede o rifiuta vedere, è colpa di natura se l’uccello non usa l’ale?

Vi hanno tre modi di considerare il bene, e tre modi altresì di praticarlo; quanto a vederli basta un baleno della favilla divina chiusa dentro il cranio dell’uomo; circa a praticarli bisogna che la intera umanità acconsenta; io voglio dire lo assoluto, il teoretico, e il pratico; l’assoluto sta lontano lontano quasi al lato a Dio; arduo a conseguirsi, sarà la soglia a piè della quale l’ira, la cupidità, le sventure e la morte lasceranno l’uomo; sarà la porta oltre la quale la creatura umana sublimata a natura angelica assumerà forma e concetto di spirito, il teoretico, comecchè meno in alto, tuttavia apparisce sempre sublime così, che l’uomo dispera di conseguirlo, e pure lo raggiunge non già perchè egli si abbassi verso il pratico, ma si all’opposto perchè il pratico si solleva fino a lui; il pratico rasenta la terra dove lo tirano volgare istinto, voracità, ingordigia, e mente bestiale, e paure; – questo, di verme si muta in farfalla e s’indirizza in su. Se tra lo assoluto e il pratico non intercedesse il teoretico, l’uomo sbigottirebbe, non gli si parando altra via che rimanere lumbrico, o trasformarsi in angiolo.