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Loe raamatut: «Œuvres complètes de lord Byron, Tome 6», lehekülg 12

Font:
SCÈNE IV
(La Piazza et Piazetta de Saint-Marc. – Le peuple en foule se presse
autour des portes grillées du palais ducal. Ces portes sont fermées.)
PREMIER CITOYEN

Enfin, je touche la porte, je puis discerner les Dix, vêtus de leurs robes d'état, et rangés autour du Doge.

DEUXIÈME CITOYEN

J'ai beau faire, je ne puis aller jusqu'à toi. Que vois-tu? Parle du moins, puisque la vue en est défendue au peuple, excepté à ceux qui touchent la grille.

PREMIER CITOYEN

En voici un qui approche le Doge; voilà qu'on ôte de sa tête le bonnet ducal. – Maintenant, le Doge lève les yeux au ciel, je les vois remuer; ses lèvres s'agitent; – silence, silence! – non, ce n'est qu'un murmure. – Maudite distance! Ses paroles semblent inarticulées; mais sa voix retentit comme un tonnerre lointain. Ne pourrons-nous saisir une seule phrase!

DEUXIÈME CITOYEN

Chut! peut-être entendrons-nous le son.

PREMIER CITOYEN

Impossible; je ne l'entends pas moi-même. – Le vent agite ses cheveux blancs, comme si c'était la mousse des vagues. Oh! voilà qu'il s'agenouille; – ils forment un cercle autour de lui; ils m'empêchent de rien voir; mais je distingue l'épée nue dans l'air. – Ah! entendez-vous? il tombe.

(Mouvement parmi le peuple.)
TROISIÈME CITOYEN

Ainsi, ils ont tué celui qui voulait nous rendre libres!

QUATRIÈME CITOYEN

Il avait toujours été bon au peuple!

PREMIER CITOYEN

Ils ont bien fait de barrer leurs portes; si nous avions deviné ce qu'ils voulaient faire, nous serions venus ici avec des armes, nous les aurions brisées.

CINQUIÈME CITOYEN

Êtes-vous bien sûr qu'il soit mort?

PREMIER CITOYEN

Puisque j'ai vu tomber l'épée. Mais, qu'allons-nous voir?

(Un chef des Dix19 paraît sur le balcon du palais qui est en face de la place Saint-Marc, avec une épée ensanglantée. Il l'élève trois fois devant le peuple, et crie:)
La justice a frappé le grand traître!

(Les portes s'ouvrent, la populace se précipite sur les degrés de l'escalier du Géant, où l'exécution s'est faite. Les plus avancés disent à ceux qui les suivent:)

La tête ensanglantée roule encore sur les marches!
(La toile tombe.)

FIN DE MARINO FALIERO.

APPENDICE

N° I.

Fu eletto da' quarantuno elettori, il quale era cavaliere e conte di Val di Marino in Trivigiana, ed era ricco. Si trovava ambasciadore a Roma; e a di 9 dì settembre, dopo sepolto il suo predecessore, fù chiamato il gran consiglio, e fù preso di fare il Doge giusta il solito. E furono fatti i cinque correttori, ser Bernardo Giustiniani, procuratore; ser Paolo Loredano; ser Filippo Aurio; ser Pietro Trivisano, e ser Tommaso Viadro. I quali a dì misero x°. queste correzioni alla promessione del Doge: che i consiglieri non odano gli oratori et nunzi de' signori, senza i capi de' quaranta, e delle due parti del consiglio de' quaranta, nè possono rispondere ad alcuno, se non saranno quattro consiglieri e due capi de' quaranta, e che osservino la forma del suo capitolare. E che messer lo Doge si metta nella miglior parte, quando i giudici tra loro non fossero d'accordo. E che egli non possa far vendere i suoi imprestiti, salvo con legitima causa, e con voler di cinque consiglieri, di due capi de' pregati. Item. che in luogo di tre mila pelli di conigli, che debbon dare i Zaratini per regalia al Doge, non trovandosi tante pelli, gli diano ducati ottanta l'anno. E poi a di xi°. detto, misero etiam altre correzioni, che se il Doge, che sarà eletto, fosse fuori di Venezia, i savj possano provvedere del suo ritorno. E quando fosse il Doge ammalato, sia vice-doge uno de' consiglieri, da essere eletto tra loro. E che il detto sia nominato viceluogotenente di messer lo Doge, quando i giudici faranno i suoi atti. E nota, perchè fù fatto Doge, uno, ch'era assente, che fu vice-doge ser Marino Badoero più vecchio de' consiglieri. Item, che' il governo del ducato sia commesso a' consiglieri, e a' capi de' quaranta, quando vacherà il ducato, finchè sarà eletto l'altro Doge. E così a dì 11 di settembre fù creato il prefato Marino Faliero Doge. E fù preso, che il governo del ducato, sia commesso a consiglieri e a' capi de' quaranta. I quali stiano in palazzo di continuo, fino che verrà il Doge; sicchè di continuo stiano in palazzo due consiglieri, un capo de' quaranta. E subito furono spedite lettere al detto Doge, il quale era a Roma oratore al legato di papa Innocenzo IV, ch' era in Avignone. Fù preso nel gran consiglio d'eleggere dodici ambasciadori incontro a Marino Faliero Doge, il quale veniva da Roma. E giunto a Chioggia, il podestà mandò Taddeo Giustiniani suo figliuolo incontro, con quindici Ganzaruoli. E poi venuto a S. Clemente nel Bucintoro, venne un gran caligo, adeo che il Bucintoro non si potè levare. Laonde il doge co' gentiluomini nelle piatte vennero di lungo in questa Terra a 5 d'ottobre del 1354. E dovendo smontare alla riva della Paglia per lo caligo andarano ad ismontare alla riva della Piazza in mezzo alle due colonne dove si fa la giustizia, che fù un malissimo augurio. E a 6 la mattina venne alla chiesa di San Marco alla laudazione di quello. Era in questo tempo cancellier grande messer Benintende. I quarantuno elettori furono ser Giovanni Contarini, ser Andrea Giustiniani, ser Michele Morosini, ser Simone Dandolo, ser Pietro Lando, ser Marino Gradenigo, ser Marco Dolfino, ser Niccolo Faliero, ser Giovanni Quirini, ser Lorenzo Soranzo, ser Marco Bembo, ser Stefano Belegno, ser Francesco Loredano, ser Marino Veniero, ser Giovanni Mocenigo, ser Lorenzo Barbarigo, ser Bettino da Molino, ser Andrea Errizo procuratore, ser Marco Celsi, ser Paolo Donato, ser Bertucci Grimani, ser Pietro Steno, ser Luca Duodo, ser Andrea Pisani, ser Francesco Caravello, ser Jacopo Trivisano, ser Schiavo Marcello, ser Maffeo Aimo, ser Marco Capello, ser Pancrazio Giorgio ser Giovanni Foscarini, ser Tommaso Viadro, ser Schiavo Polani, ser Marco Polo, ser Marino Sagredo, ser Stefano Mariani, ser Francesco Suriano, ser Orio Pasqualigo, ser Andrea Gritti, ser Buono da Mosto.

Trattato di messer Marino Faliero Doge, tratto da una cronica antica.

Essendo venuto il giovedì della caccia, fù fatta giusta il solito la caccia. E a que' tempi dopo fatta la caccia s'andaya in palazzo del Doge in una di quelle sale, e con donne facevasi una festicciuola, dove si ballava sino alla prima campana, e veniva una colazione; la quale spesa faceva messer lo Doge, quando v' era la dogaressa. E poscia tutti andavano a casa sua. Sopra la qual festa, pare che ser Michele Steno, molto giovane e povero gentiluomo, ma ardito e astuto, il qual' era innamorato in certa donzella della dogaressa, essendo sul solajo appresso le donne facesse cert' atto non conveniente, adeo che il Doge comandò che fosse buttato giù dal solajo. E così quegli scudieri del Doge lo spinsero giù di quel solajo. Laonde a ser Michele parve, che fossegli stata fatta troppo grande ignominia. E non considerando altramente il fine, ma sopra quella passione fornita la festa, e andati tutti via, quella notte egli andò, e sulla cadrega dove sedeva il Doge nella sala dell' audienza (perchè allora i Dogi non tenevano panno di seta sopra la cadrega, ma sedevano in una cadrega di legno) scrisse alcune parole disoneste del Doge et delle dagoressa, cioè: Marino Faliero dalla bella moglie: altri la gode ed egli la mantiene. E la mattina furono vedute tali parole scritte. E parve una brutta cosa. E per la signoria fu commessa la cosa agli avyogadori del commune con grande efficacia. I quali avvogadori subito diedero taglia grande per venire in chiaro della verità di chi avea scritto tal lettera. E tandem si seppe, che Michele Steno avea le scritte. E fù per la Quarantia preso di ritenerlo, e ritenuto. Confessò, che in quella passione d' essere stato spinto giù del solajo, presente la sua amante, egli aveale scritte. Onde poi fu placitato nel detto consiglio si per rispetto all' età, come per la caldezza d' amore, di condannarlo a compiere due mesi in prigione serrato, e poi ch' e' fosse bandito da Venezia e dal distretto per un' anno. Per la qual condennazione tanto piccola il Doge ne prese grande sdegno, parendoli che non fosse stata fatta quella estimazione della cosa, che ricercava la sua dignità del ducato. E diceva, ch' eglino doveano averlo fatto appicare per la gola, o saltem bandirlo in perpetuo da Venezia. E perchè (quando dee succedere un' effetto, è necessario che vi concorra la cagione a fare tal' effetto), era destinato, che a messer Marino Doge fosse tagliata la testa. Perciò occorse, che intrata la quaresima il giorno dopo che fù condannato il detto ser Michele Steno, un gentiluomo da cà Barbaro, di natura collerico, andasse all' arsenale, domandasse certe cose ai padroni; ed era in presenza de' signori l'amiraglio dell' arsenale, il quale, intesa la domanda, disse, che non si poteva fare. Quel gentiluomo venne a parole coll' amiraglio, e diedegli un pugno su un' occhio. E perchè avea un anello in detto, coll' annello gli ruppe la pelle, e fece sangue. E l'amiraglio cosi battuto e insanguinato andò al Doge a lamentarsi, acciocchè il Doge facesse fare gran punizioni contra il detto da cà Barbaro. Il Doge disse: Che vuoi che ti faccia? Guarda le ignominiose parole scritte di me, e il modo ch' è stato punito quel ribaldo di Michele Steno, che le scrisse, e quale stima hanno i Quaranta fatto della persona nostra! La onde l'amiraglio gli disse: Messer lo Doge, se voi volete farvi signore, e fare tagliare tutti questi becchi gentiluomi a pezzi, mi basta l' animo, dandomi voi ajuto, di farvi signore di questa terra; e allora voi potrete castigare tutti costoro. Intese queste, il Doge disse: come si può fare una simile cosa? E così entrarono in ragionamento.

Il Doge mandò a chiamare ser Bertucci Faliero suo nipote, il quale stava con lui in palazzo, ed entrarono in questa machinazione. Nè si partirono di lì, che mandarono ser Filippo Calendaro uomo maritimo e di gran seguito, e ser Bertucci Israello, ingegnere e uomo astutissimo. E consigliatisi insieme diedero ordine di chiamare alcuni e altri. E così per alcuni giorni la notte se riducevano insieme in palazzo in casa del Doge. E chiamarono a parte a parte altri, videlicet Niccolo Fagiuolo, Giovanni da Corfù, Stefano Fagiano, Niccolo dalle Bende, Niccolo Biondo, e Stefano Trivisano. E ordinò di fare sedici o diciasette capi in diversi luoghi della terra, i quali avessero cadaun di loro quarant' uomini provvigionati preparati, non dicendo a' detti suoi quarenta quello che volessero fare. Ma che il giorno stabilito si mostrasse di far quisitione tra loro in diversi luoghi; acciocchè il Doge facesse sonare a San Marco le campane, le quale non si possono sonare, s' egli nol comanda. E al suono delle campane questi sedici o diciasette co' suoi uomini venissero a San Marco alle strade, che buttano in piazza. E così i nobili e primari cittadini, che venissero in piazza, per sapere del romore ciò ch' era, li tagliassero a pezzi. E seguito questo, che fosse chiamato per signore messer Marino Faliero Doge. E fermate le cose tra loro, stabilito fù, che questo dovess' essere a' 15 d'aprile del 1355, in giorno di mercoledi. La quale machinazione trattata fù tra loro tanto segretamente, che mai nè pure se ne sospettò, non che se ne sapesse cos' alcuna. Ma il signor' Iddio, che ha sempre ajutato questa gloriosissima città, e che per le santimonie e giustizie sue mai non l' ha abbandonata, ispirò ad un Bertramo Bergamasco, il quale fu messo capo di quarant' uomini per una de' detti congiurati (il quale intese qualche parola, sicchè comprese l' effetto, che doveva succedere, e il qual era di casa di ser Niccolo Lioni da Santo Stefano) di andare a dì… d' aprile a casa del detto ser Niccolo Lioni, e gli disse ogni cosa dell' ordinato. Il quale intese le cose, rimase come morto, e intese molte particolarità, il detto Bertramo il pregò che lo tenesse segreto, e glielo disse, acciocche il detto ser Niccolo non si partisse di casa a di 15 acciocchè egli non fosse morto. Ed egli volendo partirsi, il fece ritenere a suoi di casa, e serrarlo in una camera. Ed esso andò a casa di M. Giovanni Gradenigo Nasone, il quale fù poi Doge, che stava anch' egli a Santo Stefano; e dissegli la cosa. La quale parendogli, com' era, d' una grandissima importanza, tutti e due audarono a casa di signor Marco Cornaro che stava a San Felice, e dettogli il tutto, tutti e tre deliberarono di venire a casa del detto signor Niccolo Lioni, ed esaminare il detto Bertramo. E quello esaminato, intese le cose, il fecero stare serrato. E andarono tutti e tre a San Salvatore in Sacristia, e mandarono i loro famigli a chiamare i consiglieri, gli avvogadori, i capi de' dieci, et quei del consiglio ridotti insieme dissero loro le cose. I quali rimasero morti, e deliberarono di mandare ser detto Bertramo, e fattolo venire cautamente, ed esaminatolo e verificate le cose, ancorchè ne sentissero gran passione, pure pensarono la provisione, e mandarono pe' capi de' quaranta, pe' signori di notte, pe' capi de' sestieri, e pe' cinque della pace; e ordinato ch' eglino co' loro uomini trovassero degli altri buoni, e mandassero a casa de' capi de' congiurati, ut supra metessero loro le mani addosso. E tolsero i detti le maestrerie dell' arsenale, acciocchè i provvisionati de' congiurati non potessero offenderli. E si redussero in palazzo, verso la sera; dove ridotti fecero serrare le porte della corte del palazzo, e mandarono a ordinare al campanaro, che non sonasse le campane. E così fu seguito, e messe le mani addosso a tutti i nominati di sopra, furono que' condetti al palazzo. Vedendo il consiglio de' dieci, che il Doge era nella cospirazione, presero di eleggere venti de' primarj della terra, di giùnta al detto consiglio a consigliare, non però che potessero mettere pallotta.

I consiglieri furono questi: ser Giovanni Mocenigo del sestiero di San Marco; ser Almoro Veniero da Santa Marina, del sestiero di Castello; ser Tommaso Viadro, del sestiero di Caneregio; ser Giovanni Sanudo, del sestiero di Santa Croce; ser Pietro Trivisano, del sestiero di san Paolo; ser Pantalione Barbo il Grande, del sestiero d'Ossoduro. Gli avvogadori del comune furono ser Zufredo Morosini, e ser Orio Pasqualigo, e questi non ballottarono. Que' del consiglio de' dieci furono: ser Giovanni Marcello, ser Tommaso Sanudo, e ser Michelento Dolfino, capi del detto consiglio de' dieci; ser Luca da Legge, e ser Pietro da Mostro, inquisitori del detto consiglio, ser Marco Polani, ser Marino Veniero, ser Lando Lombardo, ser Nicoletto Trivisano da Sant Angelo. Questi elessero tra loro una giunta, nella notte ridotti quasi sul romper del giorno, di venti nobili di Venezia de' migliori, de' più savj, e de' più antichi, per consultare, non però che mettessero pallattola. E non vi vollero alcuno da Cà Faliero. E cacciarono fuori del consiglio Niccolo Faliero da san Tommaso per essere della casata del Doge. E questa provigione di chiamare i venti della giunta fù molto commendata per tutta la terra. Questi furono i venti della giunta: ser Marco Giustiniani procuratore, ser Andrea Erizzo procuratore, ser Lionardo Giustiniani procuratore, ser Andrea Contarini, ser Simone Dandolo, ser Niccolo Volpe, ser Giovanni Loredano, ser Marco Diedo, ser Giovanni Gradenigo, ser Andrea Cornaro cavaliere, ser Marco Soranzo, ser Rinieri da Mosto, ser Gazano Marcello, ser Marino Morosino, ser Stefano Belegno, ser Niccolo Lioni, ser Filippo Orio, ser Marco Trivisano, ser Jacopo Bragadino, ser Giovanni Foscarini. E chiamati questi venti nel consiglio de' dieci, fu mandato per messer Marino Faliero Doge, il quale andava pel palazzo con gran gente, gentiluomini e altra buona gente, che non sapeano anchora come il fatto stava. In questo tempo fù condotto, preso e ligato, Bertucci Israello, uno de' capi del trattato, per que' di Santa Croce, a ancora fù preso Zanello del Brin, Nicoletto di Rosa, e Nicoletto Alberto, il Guardiaga, e altri uomini da mare, e d' altre condizioni. I quali furono esaminati, e trovata la verità del tradimento. A dì 16 d' aprile fù sentenziato pel detto consiglio de' dieci, che Filippo Calendaro, e Bertucci Israello fossero appiccati alle colonne rosse del balconate del palazzo, nelle quali sta a vedere il Doge la festa della caccia. E cosi furono appiccati con spranghe in bocca. E nel giorno seguente questi furono condannati: Niccolo Zuccuolo, Nicoletto Blondo, Nicoletto Doro, Marco Giuda, Jacomello Dagolino, Nicoletto Fedele figliuolo di Filippo Calendaro, Marco Torello detto Israello, Stefano Trivisano cambiatore di Santa Margherita, Antonio dalle Bende. Furono tutti presi a Chioggia, che fuggivano, e dipoi in diversi giorni due a due, e uno a uno, per sentenza fatta nel detto consiglio de' dieci, furono appiccati per la gola alle colonne, continuando dalle rosse del palazzo, seguendo fin verso il canale. E altri presi furono lasciati, perché sentirono il fatto, ma non vi furono tal che fù dato loro ad intendere per questi capi, che venissero coll' arme, per prendere alcuni malfattori in servigio della signoria, ne altro sapeano. Fù ancora liberato Nicoletto Alberto, il Guardiaga, e Bartolommeo Ciruola e suo figliuolo, e molti altri, che non erano in colpa.

E a dì 16 d' aprile, giornò di venerdi, fù sentenziato nel detto consiglio de' dieci, di tagliare la testa a messer Marino Faliero Doge sul palo della scala di pietra, dove i Dogi giurano il primo sagramento, quando montano prima il palazzo. E così serrato il palazzo, la matina seguente a ora di terza, fù tagliata la testa a detto Doge a dì 17 d' aprile. E prima la beretta fù tolta di testa al detto Doge, avanti che venisse giù dalla scala. E compiuta la giustizia, pare che un capo de' dieci andasse alle colonne del palazzo, sopra la piazza, e mostrasse la spada insanguinata a tutti, dicendo: È stata fatta la gran justizia del traditore. E aperta la porta tutti entrarono dentro con gran furia a vedere il Doge ch' era stato giustiziato. È da sapere, che a fare la detta giustizia non fù ser Giovanni Sanudo il consigliere, perchè era andato a casa per difetto della persona, sicchè furono quatordici soli, che ballottarono, cioè cinque consiglieri e nove del consiglio de dieci. E fù preso, che tutti i bieni del Doge fossero confiscati nel commune, et così degli altri traditori. E fù conceduto a detto Doge pel detto consiglio de' dieci, ch' egli potesse ordenare del suo per ducati du' mila. Ancora fù preso, che tutti i consiglieri e avvogadori del comune, que' del consiglio de' dieci e della giunta, ch' erano stati a fare la detta sentenza del Doge, et d' altri, avessero licenza di portar' arme di dì e di notte in Venezia, e da Grado fino a Cavarzere, ch' è sotto il dogato, con due fanti in vita loro, stando i fanti con essi in casa al suo pane e al suo vino. E chi non avesse fanti, potesse dar tal licenza a' suoi figliuoli ovvero fratelli, due però e non più. Eziandio fu data licenza dell' arme a quattro notaj della cancellaria, cioè della corte Maggiore, che furono a prendere le deposizioni e inquisizioni, in perpetuo a loro soli; i quali furono Amadio, Nicoletto di Loreno, Stefanello, e Pietro de' Compostelli, scrivani de' signori di notte. E essendo stati impiccati i traditori, e tagliata la testa al Doge, rimase la terra in gran riposo e quiete. E come in una cronica ho trovato, fù portato il corpo del Doge in una barca con otto doppieri a seppelire nolla sua arca a San Giovanni e Paolo, la quale al presente è quell' andito per mezzo la chiesuola di Santa Maria della Pace, fatta fare pel vescovo Gabriello di Bergamo, e un cassone di pietra con queste lettere:

heic jacet
dominus Marinus Faletro dux

E nel gran consiglio non gli è stato fatto alcun brieve; ma il luogo vacuo con lettereche dicono così:

Heic est locus Marini Faletro,
decapitati pro criminibus

E pare, che la sua casa fosse data alla chiesa di Sant' Apostolo, la qual era quella grande sul Ponte. Tamen vedo il contrario, che è pure di Cà Faliero, o che i Falieri la ricuperassero con danari dalla chiesa. Nè voglio restar di scrivere alcuni che volevano, che fosse messeno nel suo breve, cioè:

Marinus Faletro dux,
temeritas me cepit,
poenas lui,
decapitatus pro criminibus

Altri vi fecero un distico assai degno al suo merito, il quale è questo, de essere posto su la sua sepoltura:

 
Dux Venetum jacet heic, patriam qui prodere tentans,
Sceptra, decus, censum perdidit atque capat.
 

Non voglio restar di scrivere quello che ho letto in una cronica, cioè, Marino Faliero trovandosi podestà e capitano a Treviso, e dovendosi fare una processione, il vescovo stette troppo a far venire il corpo di Cristo. Il detto Faliero era di tanta superbia e arroganza, che diede un buffetto al prefato vescovo, per modo ch' egli quasi cadde in terra. Però fù permesso, che il Faliero perdette l'intelletto, e fece la mala morte, come ho scritto di sopra.

(Cronica di Sanuto. – Muratori S.S. rerum italicarum, vol. XXII, 628-639.)

II.

Al giovane Doge Andrea Dandolo succedette un vecchio, il quale tardi si pose al timone della repubblica ma sempre prima di quel, che faccea d' uopo a lui, ed alla patria; egli è Marino Faliero, personnaggio a me noto per antica dimestichezza. Falsa era l'opinione intorno a lui, giacchè egli si mostrò fornito più di coraggio, che di senno. Non pago della dignità, entrô con sinistro piede nel pubblico palazzo: imperciocchè questo Doge dei Veneti, magistrato sacro in tutti i secoli, che dagli antichi fu sempre venerato quale nome in questa città, l'altrè jeri fù decollato vel vestibulo dell' istesso palazzo. Discorrerei fin dal principio le cause de un tale evento, se cosi vario, ed ambiguo non ne fosse il grido. Nessuno però lo scusa, tutti affermano, che egli abbia voluto cangiar qualche cose nell' ordine della repubblica a lui tramandato dai maggiori. Che desiderava egli di più? Io son d'avviso che egli abbia ottenuto ciò, che non si concedette a nessun altro: mentre adempiva gli uffiej di legato presso il pontefice e sulle rive del Rodano trattava la pace, che io prima di lui aveva indarno tentato di conchiudere, gli fù conferito l'onore del Ducato, che ne' chiedeva, ne' s'aspettava. Tornato in patria, pensò aquello, cui nessuno non pose mente giammai e soffri quello che a niuno accade mai di soffrire: giacchè in quel luoggo celeberrimo, e chiarissimo, e bellissimo infra tutti quelli, che io vidi, ove i suoi antenati avevano ricevuti grandissimi onori in mezzo alle pompe trionfali, ivi egli fù trascinato in modo servile; e spogliato delle insegne ducali perdette la testa e macchiò col proprio sangue le soglie del tempio l'atrio del palazzo, e le scale marmore rendute spesse volte illustri o dalle solenni festivita o dalle ostili spoglie ho notato il luogo ora noto il tempo: è l'anno del natale di cristo 1355, fù il giorno 18 d'aprile. Si alto è il grido sparso, che se alcuno esaminerà la disciplina e le costumanze di quella città, e quando mutamento di cose venga minacciato dalla morte di un sol uomo, (quantunque molti altri, come narrano essendo complici, o subirono l'istesso supplicio, o lo aspettano) si accorgera che nulla di più grande avvenne ai nostri tempi nell' Italia. Fu forse qui attendi il mio giudizio, assolvo il popolo, se credero alla fama benchè abbia potulo e castigare più metamente, e con maggior dolcezza vendicare il suo dolore: ma non così facilmente si modera un' ira giusta insieme, e grande in un numeroso popolo principalmente nel quale il precipitoso ed instabile volgo aguzza gli stimoli dell' iracondia con rapidi, e sconsigliati clamori. Compatisco e nell' istesso tempo mi adiro con quell' infelice uomo, il quale adorno di un insoluto onore, non so, che cosa si volesse negli estremi anni della sua vita: la calamità di lui diviene sempre più grave, perchè dalla sentenza contra di esso promulgata aperira che egli fu non solo misero, ma insano, e demente e che con vane arti si usurpò per tanti anni una falsa fama di sapienza. Ammonisco i Dogi, i quali gli succederanno, che questo è un esempio posto innanzi ai loro occhi, quale specchio, nel quale veggano di essere non signori, ma duci, anzi nemmeno duci; ma onorati servi della repubblica. Tu sta sano; e giacchè fluttuano le pubbliche cose, sforziamoci di governar modestissamente i privati nostri affari.

(Levati Viaggi di Petrarca, vol. IV, page 323.)

La précédente traduction italienne des lettres latines de Pétrarque prouve:

1° Que Marino Faliero était un ami personnel de Pétrarque: antica dimestichezza, ancienne familiarité, c'est l'expression du poète.

2º Que Pétrarque estimait qu'il avait plus de cœur que de conduite, più di corraggio che di senno.

3° Qu'il y avait une sorte de jalousie du côté de Pétrarque; car il dit que Marino Faliero avait fait une paix que lui-même avait vainement essayé de conclure.

4° Que le titre de Doge lui fut conféré sans qu'il le sollicitât ou attendît, che ne chiedeva ne aspettava, et qu'il n'avait jamais été accordé à un autre en pareille circonstance, ciò che non si concedette a nessun altro; preuve de la haute estime dont il jouissait.

5° Qu'il avait une réputation de sagesse seulement obscurcie par la dernière action de sa vie, si usurpo per tanti anni una falsa fama sapienza. Qu'il eût ainsi usurpé pendant tant d'années une fausse réputation de sagesse, c'est ce que l'on pourra difficilement croire. En général, on ne s'abuse guère sur le caractère d'un homme de quatre-vingts ans, du moins dans les républiques.

On peut conclure de ce passage et des autres notes historiques que j'ai rassemblées, que Marino eut la plupart des qualités, mais non pas le bonheur des héros, et que son caractère était d'une violence excessive. Ainsi tombe de lui-même le récit ignorant et ridicule du docteur Moore. Pétrarque dit qu'il n'y avait pas eu de son tems en Italie un plus grand événement. Il diffère aussi des historiens en disant que Faliero reçut la nouvelle de son élection sur les bords du Rhône, et non pas à Rome; d'autres récits veulent que la députation du sénat de Venise l'ait été trouver à Ravenne. Quoi qu'il en soit, il ne m'appartient pas de le décider, et le point d'ailleurs n'est pas d'une grande importance. Si Faliero eût réussi, il changeait la face de Venise, et peut-être de l'Italie. Telle qu'elle est restée, que sont-elles toutes deux aujourd'hui?

III.

Extrait de l'ouvrage: Histoire de la République de Venise, par P. Daru, de l'Académie Française, tom. V, liv. 35, pag. 95, etc., édition de Paris, mdcccxix.

«A ces attaques si fréquentes que le gouvernement dirigeait contre le clergé, à ces luttes établies entre les différens corps constitués, à ces entreprises de la masse de la noblesse contre les dépositaires du pouvoir, à toutes ces propositions d'innovations qui se terminaient toujours par des coups d'état, il faut ajouter une autre cause non moins propre à propager le mépris des anciennes doctrines, c'était l'excès de la corruption.

«Cette liberté de mœurs, qu'on avait long-tems vantée comme le charme principal de la société de Venise, était devenue un désordre scandaleux; le lien du mariage était moins sacré dans ce pays catholique que dans ceux ou les lois civiles et religieuses permettent de le dissoudre. Faute de pouvoir rompre le contrat on supposait qu'il n'avait jamais existé, et les moyens de nullité allégués avec impudeur par les époux, étaient admis avec la même facilité par des magistrats et par des prêtres également corrompus. Ces divorces colorés d'un autre nom devinrent si fréquens, que l'acte le plus important de la société civile se trouva de la compétence d'un tribunal d'exception, et que ce fut à la police de réprimer le scandale. Le conseil des Dix ordonna en 1782 que toute femme qui intenterait une demande en dissolution de mariage, serait obligée d'en attendre le jugement dans un couvent que le tribunal désignerait20. Bientôt après il évoqua devant lui toutes les causes de cette nature21. Cet empiétement sur la juridiction ecclésiastique ayant occasioné des réclamations de la part de la cour de Rome, le conseil se réserva le droit de débouter les époux de leur demande, et consentit à la renvoyer devant l'officialité toutes les fois qu'il ne l'aurait pas rejetée22.

«Il y eut un moment où sans doute le renversement des fortunes, la perte des jeunes gens, les discordes domestiques, déterminèrent le gouvernement à s'écarter des maximes qu'il s'était faites sur la liberté des mœurs qu'il permettait à ses sujets. On chassa de Venise toutes les courtisanes. Mais leur absence ne suffisait pas pour ramener aux bonnes mœurs toute une population élevée dans la plus honteuse licence. Le désordre pénétra dans l'intérieur des familles, dans les cloîtres; et l'on se crut obligé de ramener, d'indemniser même23 des femmes qui surprenaient quelquefois d'importans secrets, et qu'on pouvait employer utilement à ruiner des hommes que leur fortune aurait pu rendre dangereux. Depuis, la licence est toujours allée croissante, et l'on a vu non-seulement des mères trafiquer de la virginité de leur fille, mais la vendre par un contrat dont l'authenticité était garantie par la signature d'un officier public, et l'exécution mise sous la protection des lois24.

«Les parloirs des couvens où étaient renfermées les filles nobles, les maisons de courtisanes, quoique la police y entretînt soigneusement un grand nombre de surveillans, étaient les seuls points de réunion de la société de Venise, et dans ces deux endroits si divers on était également libre. La musique, les collations, la galanterie, n'étaient pas plus interdites dans les parloirs que dans les casins. Il y avait un grand nombre de casins destinés aux réunions publiques où le jeu était la principale occupation de la société. C'était un singulier spectacle de voir autour d'une table des personnes des deux sexes en masques, et de graves personnages en robe de magistrature implorant le hasard, passant des angoisses du désespoir aux illusions de l'espérance; et cela sans proférer une parole.

Les riches avaient des casins particuliers: mais il y vivaient avec mystère; leurs femmes délaissées trouvaient un dédommagement dans la liberté dont elles jouissaient; la corruption des mœurs les avait privées de tout leur empire. On vient de parcourir toute l'histoire de Venise, et on ne les a pas vues une fois exercer la moindre influence.

19.(retour) Un capo de' Dieci. Telles sont les expressions de la chronique de Sanuto.
20.(retour) Correspondance de M. Sihlick, chargé d'affaires de France, dépêche du 24 août 1782.
21.(retour) Correspondance de M. Sihlick, dépêche du 31 août.
22.(retour) Ibid., dépêche du 3 septembre 1785.
23.(retour) Le décret de rappel les désignait sous le nom de nostre bene merite meretrici. On leur assigna un fonds et des maisons appelées case rampane, d'où vient la dénomination injurieuse de carampane.
24.(retour) Mayer, Description de Venise, tome II, et M. Archenholtz, Tableau d'Italie, tome I, chap. 2.