Rimangono in scena soli Ambrogio e Anselmo che stanno dietro la tavola del buffet apparecchiata. Sulla tavola un samovar acceso, bottiglie di Champagne ed altri vini. Bicchieri e tazze. Torte, confetti. Dall'altra parte giungono forti risate, poi ad un tratto un Oh! di sorpresa seguìto da un mormorio. Entra precipitoso Filippo, va alla tavola e dice:
Un bicchier d'acqua, presto. (Lo prende e correndo lo porta di là. Sull'uscio Paolo e Rulfi vengono precipitosi).
Cognac, Cognac!
No, Marsala, meglio Marsala. Ambrogio, presto un bicchierino di Marsala. (Ambrogio serve).
Qualcuno si sente male?
Sì, la Marchesa.
Teodoro, poi secondo le indicazioni tutti gli altri, cioè: Gemma, Del Sannio, Rubaconti, Sarni, Lerici, poi Elena e Filippo, poi di nuovo Teodoro.
Lasciate, non è nulla, s'è già riavuta. Ha presa una storta al piede e il dolore l'ha fatta impallidire a quel modo. Non è nulla, discorre, vedete.
Meno male.
È bello e passato. Ora viene. (Rubaconti e Del Sannio entrano con Gemma).
Voi non state di là?
Non mi vuole vicino, mi ha lanciato uno sguardo tragico. La storta la vuol dare a noi. Quello era uno svenimento bello e buono.
Amore! Amore!
Non la credevo così presa.
Eh quel dottore? Invece d'andare al polo è arrivato a Cipro.
Ah! Ah! (ridono).
Come ha detto? Non ho capito.
Che il dottore invece d'andare al polo è arrivato a Cipro.
Ah! (non capisce ma ride) Eh! Eh!
Ne capisci meno di prima.
Oh! bella cosa. È arrivato… ma no, se non è partito.
Cipro è un'isola dove è nata Venere, la dea degli Amori.
Vedo.
Non ci siete. Sarni voleva andare al Polo, n'è vero?
Sì.
E invece s'è innamorato della Marchesa e l'ha innamorata di sè. È arrivato a Cipro.
Ah! Ah! bellissimo! Cipro è la patria… bellissimo, bellissimo. (s'allontana).
Ora lo va a ridire. E lo dà per suo. Ripete per suoi tutti i detti che gli riesce di capire.
Glielo regalo.
L'avete visto, contessa, in istrada?
Chi?
Il dottor Sarni; era fermo sull'angolo della casa qui sotto.
Possibile? Ci ha veduti entrare?
Oh certo. L'ho mostrato a Rulfi che ci ha fatto una risata.
Sfido, era troppo comico. Aveva un'aria di cane bastonato.
Ah bella, bella, bella, Gemma ti ringrazio. Quella statuetta è un capolavoro.
La terrai nel tuo salone?
Certo. Ci sta così bene! Voglio che tutti la vedano.
È un trofeo di vittoria.
I capitani veneziani tenevano nel loro salone il fanale delle galee vinte al nemico.
Qui manca il nemico.
Ecco il prodigio della vittoria.
Elena!
O zio, un bicchiere di Champagne, e t'incarico di fare il brindisi in mio nome.
Ai vostri begl'occhi, contessa!
No, no, lo voglio di circostanza. Non sono io l'eroina qui. Un brindisi a me non è possibile.
È passabile.
Ma passibile d'uno migliore.
A buon conto è passato. (tutti ridono).
Lo farò io. Ai viaggiatori che rimangono.
No! ai viaggiatori che partono.
Ah che ingratitudine! (tutti bevono ridendo).
Ho avuto occasione di dire un motto che fu trovato spiritoso.
Fuori.
Sapete che il dottor Sarni è innamorato della Marchesa Elena?
E viceversa…
Ebbene, ho detto che il dottore volendo andare al Polo, è arrivato a Capri. (i due restano seri) Non capite?
No.
A Capri, è arrivato a Capri!
Ho inteso, e poi?
Pare impossibile!.. Capri è un'isola.
Vicino a Napoli.
Dov'è nata Venere.
Cipro vuoi dire.
Il signor Sarni.
Ci… (vede Andrea) Diavolo! (s'allontana. Lerici e Pardi s'allontanano ridendo).
Li faccio scappare. (si guarda indosso per vedere se ha nulla di singolare) Sembrano ridere di me. (va verso il gruppo dov'è Elena) Marchesa, ho visto entrare questi signori coll'aria così allegra che non ho saputo resistere al desiderio di seguirli. (a Gemma) Contessa. (nota l'imbarazzo di tutti) Si direbbe che faccio l'effetto dell'ombra di Banco. (verso Elena cercando intavolar discorso per uscire d'imbarazzo) Ho visto di là un oggetto d'arte che non avevate ieri… una statuetta bellissima.
Pare che senza accorgermene dico delle cose molto lepide.
No, sono io che gli rammentavo uno scherzo.
Ma sì, è Filippo che… (s'allontana ridendo con Filippo) È troppo comico.
Ridono di me!
Mi fate il piacere di contenervi… non voglio guai!
Ho fatto male a tornare?
Perchè?
Lo domando a voi. Devo aver detto un'ingenuità.
Oh! siete così ingenuo?!
Lo sapete?
Io non so nulla; lo saprà il vostro amico D'Almèna.
D'Almèna!
Non è vostro amico?
Amicissimo… ma…
Non vi domando spiegazioni… e non mi parlate piano, ve ne prego.
Con che tono me lo dite!.. per carità…
Zio! (chiama Teodoro).
Ah! (colpito, addoloratissimo).
Mi hai chiamato?
Sì, volevo pregarti di far servire il thè, ma lo faccio io, tu mi aiuti.
Volentieri.
No, no, ancora un momento.
Dite delle cose impossibili.
Le dice perchè non le può fare.
Con voi non si può discorrere. (si alza).
Badate, contessa, che se vi allontanate, dico una parola sottovoce a questi signori.
Che parola?
Volete sentirla voi prima? Ma nell'orecchio.
No, no. (s'allontana).
A noi… a noi…
Voglio sentire anch'io.
Sì, venite, venite, Marchesa.
Che ha? Perchè sta in disparte? Ha l'aria di cattivo umore.
Dacchè ha la bontà d'accorgersene, mi risponda lei. Sono capitato qui a sproposito, eh? Mi spieghi. Qualunque cosa mi dica, se anche mi dovesse offendere mortalmente, gliela perdono e la ringrazio fin d'ora. Che fa qui tutta questa gente?
Siamo venuti a portare alla Marchesa il pegno d'una scommessa.
Quella statua?
Sì.
E la scommessa?
Oh! una cosa da nulla.
Ma perchè la mia venuta ha messo tanto imbarazzo? Si parlava di me? Lo so bene che quelli non mi sono amici. Che dicevano?
Perchè non è partito pel suo viaggio lei?
Non me lo domandi. Perchè non ero degno di farlo.
C'è chi pretende che l'abbia trattenuto la Marchesa.
Questo si diceva al mio arrivo?
E dicono che la Marchesa si fosse vantata di volerlo trattenere per esperimentare il potere de' suoi vezzi.
È un' infamia!..
Certo, se fosse…
Dico la voce che è un' infamia. La Marchesa è incapace… oh!
Eppure io stessa…
Non è vero, non è vero! (vuol passare nel mezzo).
Per carità, non facciamo scandali.
Ha ragione. Questa gente non ne vale la pena.
Andiamo.
Per la gita a Napoli è inteso?
Sì, riceverete la circolare.
Va bene. Addio, cara.
E grazie. (piano a Filippo) Filippo, fate di portar via il dottor Sarni, non voglio spiegazioni.
Subito. (mentre gli altri fanno i saluti s'avvicina al dottor Sarni) Viene con noi, dottore?
No.
Devo uscire, ve ne avverto.
Me l'avete detto un'altra volta, non era vero, v'aspetterò. Voglio parlarvi, doveste farmi cacciare dai vostri domestici.
Va bene. (s'allontana).
Se credi, io rimango.
No, tanto vale, la faremo finita, addio. (Tutti partono. Elena li accompagna).
(I due domestici vanno e vengono sparecchiando).
Lasciate pure. (i domestici escono).
Ieri sono uscito di qui a mezzanotte, dopo di aver passato tre ore con voi in discorsi intimi e confidenti, oggi vi trovo avversa e sprezzante. Questo mutamento dev'essere il frutto di qualche enorme inganno. Siamo circondati di gente invidiosa e cattiva. Qualunque cosa vi abbiano detto di me, ripetetela, perchè mi scolpi e li confonda. Avreste dovuto accertarvene prima di offendermi. Io quando v'intesi calunniata sentii tutto l'esser mio sollevarsi e gridarmi la vostra innocenza.
Calunniata? D'Almèna forse?
È la seconda volta che lo nominate… Ciò mi prova che l'insidia colpisce anche lui. D'Almèna non mi ha mai parlato di voi.
Poveretto!
Perchè quell'ironia? Voi mi parlate come ad un nemico… Che pensate di me? Ho diritto di saperlo!
Diritto?..
Diritto. Dacchè mi avete accolto in casa vostra e datami la vostra confidenza e carpitami la mia, pretendo sapere se tutto ciò non fu che un inganno atroce, e se voi ne siete vittima con me, o colpevole.
Dio! le grandi frasi! Che vi ho fatto? Andiamo.
Avete tollerato che in casa vostra i vostri amici ridessero di me, e li avete secondati. Quando vi supplicai tremando di una parola onesta, avete troncato netto il discorso, chiamando ostensibilmente vostro zio, perchè apparisse chiaro che sdegnavate di parlarmi. Non si farebbe altrimenti con un uomo disonorato. Ho sofferto una tortura senza nome, e non potevo che o scoppiare brutalmente, e mi contenni per rispetto di voi, o raddoppiare il mio avvilimento tacendo. Non conosco l'arte di mordere sorridendo. Non sono elegante io come quelli che vi circondano. Me l'avete appreso voi stessa; ma in dieci giorni volendo, potrei essere quello ch'essi sono, essi in dieci anni non potrebbero diventare quello che sono io. Dovete vedere al mio viso ed alla violenza delle mie parole che soffro un dolore mortale. Di che mi accusano? È così velenoso quello che mi dovreste dire, che non osate profferire parola?
Chiedete al vostro amico D'Almèna che vi ripeta ciò che va dicendo di voi e di me.
Lo chiedo a voi dacchè lo sapete. Egli è incapace di offendermi e di offendervi. La sua onestà è così intatta come la vostra, ma la sua amicizia è ben più salda.
E disinteressata…
La sua, sì. Non la mia per lui. Gli debbo una gran riconoscenza.
Lo confessate!
E voi lo sapete dunque! Quando ebbi rinunziato al mio viaggio, mi sentii caduto dal buon concetto dei miei amici, ho patito i motteggi dei vostri, ho veduto della gente guardarmi sogghignando; in voi stessa nei primi giorni appariva una sfiducia che credetti di aver poi dissipato. D'Almèna solo venne da me non cercato, mi sostenne contro me stesso, rimproverandomi sempre il mutato proposito, ma mostrandomi di non attribuirlo a viltà. Non basta. Due mesi fa occupavo una cattedra di scienze fisiche in un grande istituto privato; quando mi decisi per la spedizione rinunziai a quel posto che si dovette dar subito ad altri. I miei pochi risparmi erano quasi tutti andati negli apparecchi del viaggio. Rimanendo dovevo pensare a vivere. Il futuro non m'inquietava, il mio nome è noto nel mondo della scienza ed ho già offerte per l'anno venturo; ma il bisogno era urgente…
E D'Almèna?
D'Almèna indovinò le mie strettezze e senza parlarmene mi offrì di collaborare a giornali quotidiani e settimanali, e mi pregò come di un favore, perchè accettassi di dare lezioni private.
Oh!
Volevo vivere nel vostro mondo, seguirvi ai teatri, ai balli, non apparirvi da meno degli altri. Quando la sera esco di casa vostra e mi riduco nella mia, la notte mi va intera a scribacchiare articoli di scienza volgare. E la mattina corro da un capo all'altro di Roma a dar lezioni di chimica elementare a pochi ragazzi o stupidi o svogliati che tremano dell'esame. Le ore del sonno le rubo qua e là nei ritagli di tempo, perchè voglio e devo anche lavorare per me, per la mia scienza, che è il mio avvenire, la mia coscienza, il mio diritto alla vita. Tutto ciò non mi affligge nè mi affatica, verrà il mio giorno, ne sono sicuro, vi amo troppo per non sapermelo conquistare; ma voi mi avete tolto la gaiezza della mia povertà, e scemata la fede nel premio.
Perdonatemi.
Mi avete costretto a svelarvi un triste segreto. Ero così orgoglioso di nascondervelo. Mi insuperbiva tanto la vostra felice ignoranza delle mie miserie. Ora, pensando a me, quelle piccole cure mi avviliranno agli occhi vostri: questo timore che mi è così amaro che vinca il risentimento dell'offesa patita. Elena, la collera è fiaccata, ve ne supplico, ditemi di che mi hanno accusato.
Non parliamone più. Scordate quel cattivo momento, non fatemi vergognare di me stessa.
No, le male erbe vanno sradicate. Pensate che la calunnia ha potuto farvi scordare il mio amore che conoscevate benchè non ve ne avessi mai parlato. È vero?
E ha potuto farvi scordare il vostro, Elena, perchè voi mi avete amato, perchè nel fondo del cuore mi amate ancora, non vi chiedo che lo diciate, lo sento. Ieri sera quando mi levai per salutarvi mi avete guardato con degli occhi così dolci e penetranti, il vostro sguardo ha cercato il mio, caldo come una vampa, mite come una carezza materna. Lunedì al teatro nel vostro palco quando sedetti accanto a voi, e stretto dalla folla dei visitatori, il mio braccio premette tutto il vostro, ho sentito il brivido che vi prese al mio contatto, e al ballo della Neddinngton avete portato nel corsetto quella rosa pallida che vi avevo dato io, e quando vi cadde a terra, la coglieste voi stessa, premurosa che non vi fosse ridata da altri. Elena, voi mi amate e la gente volgare è nemica dell'amore, non sa che trastullarsene od ucciderlo.
Perdonatemi.
No, no, non basta od è troppo. Troppo, perchè non ho più rancori, ma non basta per la nostra pace. Ditemi, ditemi, Elena… dimmi, di che mi hanno accusato?
Non posso, lo vedete, ho ceduto alle vostre parole, avevo l'animo esacerbato, voi me lo avete rasserenato. Sono tanto contenta di voi! È così buono credere e confidare! Non attristiamoci con cattivi ricordi. Dimentichiamo.
Ebbene sì, dimentichiamo. Ma la grande parola è profferita, Elena, dimmi che mi ami, dimmelo, ripagami dalle torture che mi hai fatto soffrire, dimmi che sei mia!
No, Andrea, Andrea!
Una parola. – Te ne chiedevo una amara. – Dammi la più dolce di tutte!
Per carità, per carità, restiamo così! Era pur bello il nostro dolce silenzio cosciente; quando si è sicuri di una cosa buona, perchè guastarla con impazienze? Sdegno simulare ed abborrisco dalla sfrontatezza. Rispettatemi, Andrea. Che volete da me? Che diventi la vostra amante? No, no!
Sei libera… sii mia… sii mia moglie.
Ah!
Elena! Elena! Che avete, Elena? M'inganno, è vero? M'inganno! – Tacete?! (lunga pausa) Questo vi avevano detto? E l'avete creduto…! Disgraziata! Voi stimate dunque il vostro amore meno che i vostri averi dacchè concedendomi l'amore mi sospettate cupido delle ricchezze. Ah! mi dài il tuo cuore, e per poco non il tuo corpo… e difendi lo scrigno…! Ma allora è vero? quello che mi diceva or ora la contessa? Ed io l'ho trattata di calunniatrice! È vero! Sono stato il vostro gingillo, l'istrumento per esperimentare i vostri vezzi. Ditelo, ditelo che è vero! Quella era la scommessa…! Quella statuetta ignuda e lasciva, era il pegno della vostra vittoria. E hanno riso di me. Lo credo. Non avrei riso io pure dello scimunito che si fosse impigliato in quei lacci?
Ah! ho paura!
Addio, Marchesa! La più sfrontata cocotte non avrebbe fatto meglio di voi. (fugge).