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Loe raamatut: «Poesie scelte», lehekülg 4

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PERDONATE

 
Ignosce illis quia nesciunt quid faciunt.
Parlo a voi, che, amici a Dio,
Del dolor vi fate un trono;
Parlo a voi, dolente anch’io,
La gran voce del perdono.
Questa voce sulle penne
Dell’amore a Dio s’alzò,
Voi sapete donde venne,
E qual labbro la mandò.
Perdonate! – Sulla terra
È disceso anch’ei terreno,
A combattere una guerra
Senza esempio – il Nazareno.
Egli nasce, all’uom ridona
Il suo serto di splendor…
E si compra la corona
Dello spregio e del dolor!
Oh! lo spregio ei l’ha sofferto,
Ei senz’ombra di peccato!
Era amante, e fu deserto;
Era giusto, e fu negato:
Sino al labbro dello stolto
Che venivalo a tradir
Rese il bacio… e il santo volto
Abbassò con un sospir!
O voi tutti, a cui l’offesa
Crudelmente incise il core,
Perdonando si palesa
D’esser figli del Signore!
Perdonate! – i dì più belli
Della vita a sé rapì
Chi poteva i suoi fratelli
Amar sempre, e li abborrì.
Pace, amico! – Un uom che offende
Scemo od ebro ha l’intelletto.
Tutto certo ei non comprende
L’atto proprio, il proprio detto.
Dopo un duol, che ad altri crebbe,
Quante volte ei sospirò,
E ritorto in sé vorrebbe
Quello stral, che altrui lanciò!
Pace, amico! – Un riso, un gesto,
Una voce inavvertita
Può ferirti… e non per questo
Volontaria è la ferita!
Il fanciul, che piuma a piuma
L’augellin nudando va,
Lentamente lo consuma
E d’offenderlo non sa.
Soffri sempre, e l’odio ignora;
Fratricida ei l’uomo ha fatto:
Ei la fronte ti divora
Come il marchio del misfatto.
Questo mostro a modo d’angue
Senza posa il cor ti assal;
Stringe un calice di sangue
E sta sempre al tuo guancial.
Che fai tu fra quelle frondi?…
Sciagurato! il piè ritira.
Se dagli uomini t’ascondi,
Omicida, Iddio ti mira!
Tutti i giorni che tu prendi
Dalla vita d’un fratel,
Tutti salgono ai tremendi
Tabernacoli del Ciel.
Spezza l’arme, e nei consigli
Della mente ti riposa!
Chi tu aspetti ha molti figli,
Madre amante, e dolce sposa;
Ha una fede svigorita,
Uno spirto che non muor,
Che ha bisogno della vita
Per rifarsi nel Signor.
«M’han confitto a questo legno,
Padre mio!… ma stolti sono;
Manda a lor dal nuovo regno,
Per me compro, il tuo perdono!» —
Questa voce egli ha disciolta
Quando il Padre l’obbliò!…
Abbracciatevi una volta
In colui che vi salvò!
Abbracciatevi! – S’oscura
Della terra il dì fugace,
Si guadagna il dì che dura
Coll’amplesso della pace.
Chi perdona Iddio lo serva
Per la santa eredità,
Lascia l’anima proterva
Al giudicio che verrà.
O Signore, – Ah’io le fransi
Del rancor le ree catene;
Fui piagato, offesi e piansi;
Or la pace al cor mi viene.
Ripercotimi, se credi
Che sia giusto e salutar:
Solamente mi concedi
D’amar sempre e perdonar.
Siam fratelli in un’amara
Solitudin di dolori;
L’un coll’altro si prepara
L’acqua e il pan che lo ristori!
Posseduto è da Satano
Chi coll’ira al desco vien;
Maledetta è quella mano
Che vi mescola il velen.
Siam fratelli nell’insulto,
Donde venga e dove suoni,
Siam fratelli nel tumulto
Delle libere canzoni!
Oh! vi torni e v’affatichi
Quell’amor che vi fuggì!
Date bando agli odii antichi,
Se bramate i nuovi dì.
 

IL POETA E I SUOI PENSIERI

L’anima, che s’abbraccia col mondo fisico

e coll’immateriale, va alla sua meta.


 
Per la tua bassa ténebra
Non move un’aura blanda;
È senza stelle, o povera
Notte, la tua ghirlanda;
Non una dolce tibia
Di solitario amante
Lungo le verdi piante
Lieve ascoltar si fa.
Ma pur da me s’espandono
Suoni di fresco amore;
Più che le stelle e l’etere,
Grandi linguaggi ha il core:
Pensoso accetta il giubilo,
Lieto il dolor riceve,
E risonante e lieve,
Dov’è chiamato ei va.
Come chi parte a compiere
Pellegrinando un voto,
Tiene, piangendo, agli ultimi
Tetti lo sguardo immoto;
Poi nel trovar non cognite
Siepi e solingo piano,
Torna cogli occhi invano
Ai campi che lasciò;
Tolto così da un fulgido
Sentier di sogni, anch’io,
Movendo in solitudine
Chiedo i ritorni a Dio;
Ma un imperante spirito
Su’ passi miei cammina,
E l’alma pellegrina
Più ritornar non può.
Dunque provato ai triboli,
Rinverginato al pianto,
Come i ruscelli al murmure,
Dio mi destina al canto?
Vieni, o mia lira, abbracciami,
Giacché per fede antica
Forte e modesta amica
Dio ti congiunse a me.
Detti superbi o pavidi
Tu sul mio labbro attuta;
Quel che non sente l’anima,
Di modular rifiuta;
Non abborrir del povero
Per vil pudor le stanze,
Per misere speranze
Non inchinarti al re.
Vieni. Onoriam di lagrime
L’umanità che è mesta.
Sul nudo suol degli esuli
Santa rugiada è questa.
Con la speranza accostati
Ai tribolati ingegni,
Vinci gl’iniqui sdegni
Col doloroso amor.
Ma non però del candido
Riso fuggiam la luce,
Che a solitari palpiti
Le fantasie conduce,
Perchè del riso i balsami
Sul cor ce li diffuse
La stessa man, che schiuse
Le fonti del dolor.
Ella che pose ai turbini
L’ale e distese i cieli,
Die’ pur la vita all’alighe
E incolorò gli steli;
Tutto, dal serpe all’angelo,
Mi leva intorno un coro;
Tutto egualmente adoro,
Dal filo d’erba al sol.
Sotto l’ombrìa dei platani
Molli del novo incenso,
Assorto il cor nell’estasi
D’un viso amato, io penso
Subitamente al profugo
Se un uccellino io miro,
Che mova mesto in giro
Per rami ignoti il vol.
Con voi, fanciulle, i facili
Poggi odorosi ascendo
Lieto nell’alma, e reduce
Ripenso a voi piangendo;
Ma non così ch’io tolgavi
In quelle dolci feste
Un vezzo da la veste
O un gaio fior dal crin.
Ben saprò dir le provide
Speranze a la tradita,
Che i tenebrosi assalgono
Spaventi de la vita:
Io mi porrò degli umili
Sotto le verdi tende,
Dove più forte splende
La fede al pellegrin.
E tu, mia man, le nobili
Voci del cor tu scrivi,
Del cor che abbraccia i tumuli,
Che vagola coi rivi,
Che di sorrisi illumina
Le sue mestizie arcane,
Che le allegrezze umane
Circonda di sospir.
Più che per altri il fervido
Tumulto del convito,
A me fia caro un vergine
Pane cibar romito:
Poi, qual fuggente rondine,
Verso la patria vera,
Coll’anima che spera,
Recarmi all’avvenir.
E tu, mia lira, insegnami
Come svagato io corsi,
E, col pensier, dell’opera
Si scontino i rimorsi.
Spandi così tra gli uomini
L’aura del tuo perdono,
Se non udito il suono
Da le tue corde uscì.
Come per l’alto un zefiro,
Si passerà dal mondo,
Ma lasceremo un cantico
Non vil né inverecondo:
E i sorvolanti effluvi,
Forse nei rovi ascosa,
Riveleran la rosa,
Che nel dolor fiorì.
 

LA PAROLA

La contemplazione dell’universo insegna

All’anima la parola che lo rivela.


 
Nell’ombra, ai malinconici
Occhi velata ancora,
Arde una sacra fiaccola
Che la mia mente adora;
Ben qualche raggio io sento
Riverberar da lunge,
Ma troppo tenue e lento
Mi penetra nel cor,
E d’una brama il punge,
Che è simile al dolor.
Che val che in me discendano
Da non mortale altezza
Caste e possenti immagini
D’amore e di bellezza,
Se tra quel mondo arcano
Rapido il verbo gira,
Perseguitato invano
Dal cupido pensier,
Che rivelar sospira
Ne la parola il ver?
In me dai sensi all’anima
Passa un divin linguaggio,
Che unisce il fior col turbine,
Che mesce l’ombra al raggio,
Che d’un’occidua stella
Mi ferma agli splendori,
Che un’umile acquicella
Lungo mirar mi fa,
Esca a quei forti amori
Che a tutti il ciel non dà.
Ma la parola!… O povera,
Che speri, o tenti mai?…
L’arcano dello spirito
Tutto non s’apre, il sai.
Un vago regno ascoso
Con noi germoglia insieme,
Lo abbraccia il cor pietoso
Che col pensier lo amò,
Ma inutilmente geme,
Perchè svelar nol può.
Dunque passate, o candidi
Visi, o leggiadre vesti,
Labbra arridenti e pallide,
Occhi sereni e mesti:
Date, o gioconde lire,
Bando all’inutil verso;
Inchinati a morire,
O benedetto sol;
Non suoni all’universo
Che un’armonia di duol.
A me talor l’oceano
Povera stilla appare,
Talor nell’umil gocciola
Sento diffuso il mare,
E l’atomo che in calma
Lieve per l’aere vola,
Cose infinite all’alma
Comunicando vien;
Ma la fatal parola
Mi muor consunta in sen.
Cieca e superba polvere,
Dunque m’ha Dio percosso,
Un mondo rivelandomi,
Ch’io rivelar non posso?
E questo senso, e questa
Aura del cor romita,
Libera, ardente e mesta
Un’arpa non avrà,
Che spanda un fior di vita
Per la ventura età?
Mio Dio, quest’arpa oh datemi,
Squilla ai dormenti petti:
Non di lusinghe, armatela
Di coraggiosi affetti;
E accomunati in loro
I mal divisi amanti,
Suoni una corda d’oro,
Che ai figli del Signor
Renda animosi i canti
E valido il dolor.
Oh mobili onde! oh libere
Aure! oh campagne aperte!
Anche nel verno vedove
D’astri e di fior deserte,
Voi la parola avrete,
Che cerca il mio pensiero,
E, a temperar la sete
Che il cor mi consumò,
Sovra l’altar del vero
Tutto svelar saprò.
Tutto, dai gioghi inospiti
Ai sorridenti calli,
Dal campo dei cadaveri
Allo splendor dei balli,
Tutto che impera il senso
E che lo spirto insegna,
I mondi che l’immenso
Alimentando va,
L’uom che obbedisce e regna,
Dio che sorride e sta.
Dio sentirò nel barbaro,
Che d’uman sangue ha voglia,
Ma festeggiando all’ospite,
Gli dorme su la soglia:
Nel pellegrin, che assonna
Sotto le palme assiso:
Ne la selvaggia donna,
Che insegna al suo figliuol
Di tener vôlto il viso
Là dove nasce il sol.
Oh! nell’intatta tenebra
Saprò trovarti allora,
Misterïosa fiaccola,
Che la mia mente adora:
In quell’eccelso loco
L’arpa con Dio s’accorda;
Ben l’immortal tuo foco
Mi farà polve il cor,
Ma la morente corda
Sarà sonante ancor!
 

IL POETA E LA SOCIETA’

 
Terra, crudel, se in vincoli
Possenti a te mi lega
Pensier, che abbraccia e lacrima,
Cor che indovina e prega,
Tranne gli ardenti cantici,
Altro da me che aspetti?
Tranne i pietosi affetti,
Altro che vuoi da me?
Le tue speranze io mormoro,
E tu mi nieghi ascolto:
Io modulo i tuoi gemiti,
E tu mi chiami stolto:
S’io vo solingo e torbido
E chiudo ai canti il core,
Un riso acerbo è il fiore
Che tu mi getti al piè.
Ahi troppo duro e valido
Sento de’ tristi il regno
Per säettar le folgori
Del concitato ingegno:
È troppo rea sui deboli
Questa ragion del forte
Che fa sentir la morte
Necessità del cor.
Dimmi, che cerchi, o perfida
Noverca, ond’io ti piaccia,
E tu mi possa stendere
Le perdonanti braccia?
Vuoi ch’io mi curvi ad opere
Cui Dio non mi compose,
E che all’eccelse cose
Si tolga il mio sudor?
Terra! se tu sei giudice,
Pesa la mia parola;
Ella, se il ver la suscita,
T’è sacerdozio e scola;
In questa fiamma io m’agito,
Di questa vita io vivo,
Per onorarti scrivo,
Altro operar non so.
Cruda! tu senti il debito
Del pane all’operaio
Che ti racconcia i sandali,
Che ti rattoppa il saio,
E a questo forte povero
Che per te pensa e suda,
Sempre rispondi, o cruda:
«Pan da gittar non ho».
Non hai tu pane? E al facile
Mutar d’una carola
Profondi l’oro, e al limpido
Trillo d’un’agil gola;
Stolti! e tra voi la divite
Turba d’onor s’ammanta,
E l’anima che canta
Nuda di gloria va.
E sia così! Quest’esule
Va dove pensa e vuole,
Selvaggia come l’aquila,
Ardente come il sole.
Ma pur, divisa, un nobile,
Secreto amor nutrica.
E la respinta amica
Voi maledir non sa.
Datele almen che vergine
Possa serbar la lira,
Ch’ella non mesca gli aliti
Santi ove l’odio spira,
Che un non curar sacrilego,
Che un guerreggiar codardo,
Non le contristi il guardo
Non le recida il vol.
Voi la ponete in tenebre,
Ella vi dona il giorno;
Voi la dannate a piangere,
Ella vi canta intorno.
E nel fiammante nuvolo
De’ suoi divini incensi
Ella vi leva i sensi
Là dove regna il sol.
Ah, potess’io far cognito
Quanto in lei vive e siede:
Gli odii, gli amor, le torbide
Gioie, la dubbia fede,
E i rapimenti e gl’impeti
Soltanto a lei concessi,
E i suoi potenti amplessi
Dati a la terra e al ciel.
Oh a me compagni ed emuli
Nel carme e nel dolore,
Tutti in un solo uniamoci
Nodo d’eccelso amore:
Oda la Terra unanime
Quest’armonia di canti
E a’ suoi celesti erranti
Apra il materno ostel.
Così quest’arpe italiche,
Queste fraterne voci
Espïeran l’obbrobrio
Dei roghi e delle croci,
Quando di sé fu martire
Ogni intelletto sacro,
Ed ebbero lavacro
Di sangue i turpi dì.
Espïeran gli stolidi
Ozi e la boria vile,
E l’arroganza barbara
E l’adular servile;
E sarà duce ai popoli
Quest’armonia scettrata,
Che coll’Italia nata
Dal cor di Dante uscì.
 

CHI AMI?

 
Pria venne un conte, e con sospiri accesi
Mi porse un vago fior:
Del suo dono gentil grazia gli resi:
Ma non gli diedi il cor.
Poi venne un duca, e nel panier mi pose
Un braccialetto d’ôr.
Dissi anche a lui cento leggiadre cose,
Ma non gli diedi il cor.
Poi venne un re; del suo gemmato serto
M’offerse lo splendor:
Tremai superba del gran dono offerto!
Ma non gli diedi il cor.
Alfine un pensieroso giovincello
Venne, e mi chiese amor;
Era mesto, era povero, era bello:
Ed io gli diedi il cor!
 

LA MADRE E LA PATRIA

 
– Teco vissi; or tra le squadre
Son chiamato a militar;
Tu mi guardi, o dolce madre,
E non fai che lacrimar.
Monti e valli e piani aperti,
Madre mia, varcare io so;
Se tu brami ch’io diserti,
Madre mia, diserterò.
– Che mai dici, figliuol mio!
Non mi dar questo dolor.
Sia di me quel che vuol Dio,
Ma non farti disertor.
Infamato al patrio lito
Non recar l’incauto piè:
Figlio mio, t’ho partorito
Per la patria e non per me. —
 

TUTTO RITORNA

 
– Fanciulla, che fai qui sulla porta
Guardando da lontan per quella via? —
– Ah se sapeste! Quando la fu morta
L’han portata di là la madre mia;
M’han detto che di là debbe tornare,
E son qui da quattr’anni ad aspettare. —
– Oh povera fanciulla! tu non sai
Che i morti al mondo non ritornan mai! —
– Tornano al vaso i fiorellini miei,
Tornan le stelle… tornerà anche lei! —
 

VENDETTA

 
– Conosci, quell’Immagine di santo
Sulla muraglia con quel lume accanto?
Sotto quel lume sette pugnalate
Una volta tu desti al padre mio…
Prendi questa e quest’altra… Insanguinate
M’ho le man del tuo sangue; or va con Dio. —
– Mandami almeno un prete a confessarmi!
– Prendi anche questa!.. Io non vorrei salvarmi
Se andasse in salvamento la tua vita!…
Non gli batton più i polsi. Ora è finita. —
Stolto! Chi versa l’uman sangue, il sente
Odorar nelle mani eternamente
Dopo l’ora mortal, tutta la vita
Non è finita!
 

GIAPO

 
– Mi chiamo Giapo, chi saper lo vuole. —
Gli anni belli ho già varcato.
Di mia strada or tocco al fin;
Qui tra ’l verde pergolato
Del mio picciolo giardin
Tremola il sole!
– Son di Sicilia, chi saper lo brama. —
Ebbi il riso de’ miei piani,
La dolcezza del mio ciel,
Il fervor de’ miei vulcani;
E si tenne a me fedel
Più d’una dama.
– Ho settant’anni chi saper lo chiede. —
Ma lanciato in zuffe orrende
Perigliai la mano e il cor.
Vil, per Dio chi non difende
La sua patria, ed al suo amor
Rompe la fede! —.
Qui un fremito successe alle parole.
La rugiada avea bagnato
Già del vecchio il raro crin;
E sul verde pergolato
Del suo picciolo giardin
Moriva il sole!
 

IL DELATORE

 
Le orecchie intente, gli sguardi bassi,
Tu come un’ombra segui i miei passi:
Se un lieve accento muovo al compagno,
Ratto ti sento sul mio calcagno,
Va, sciagurato, mi metti orrore;
Sei delatore!
Ma, quando mangi pan guadagnato
Con l’abbiettezza del tuo peccato,
La bieca larva del tradimento
Non ti sta presso? non n’hai spavento?
Va sciagurato, mi metti orrore;
Sei delatore!
Il sol la luce dovria negarti;
Mai col tuo nome nessun chiamarti,
Ma con quell’altro che ti dispensa
Pane e vergogna sull’empia mensa.
Va, sciagurato, mi metti orrore;
Sei delatore!
Talora il ladro chiamo infelice;
Degna di pianto la meretrice;
Da me un’ascosa lagrima ottiene
Sin l’omicida stretto in catene:
Ma tu, tu solo mi metti orrore;
Sei delatore!
Va, sciagurato; cala il cappello,
Ti ravviluppa nel tuo mantello,
E se un istante sul cor ti pesa
La mia parola, cerca una chiesa,
E piangi, e grida: – Pietà! Signore,
Son delatore! —
Là solamente, presso a quel trono,
Può la tua colpa trovar perdono;
Impäuriti de’ tuoi tranelli,
Più sulla terra non hai fratelli,
Va, sciagurato, mi metti orrore;
Sei delatore!
 

CAMPAGNUOLI SAPIENTI

 
Lavoriam, lavoriam, dolci fratelli,
Sin che molle è la terra, e i dì son belli.
Lavoriam, lavoriam; quanto ci mostra
Di ricco il mondo, è passeggiero spettro;
Il crin sudato è la corona nostra,
Il piccone e la marra il nostro scettro.
Qui si tradisce; là s’affila il brando;
Dappertutto si piange e si fa piangere;
Noi lavoriam cantando.
Lavoriam, lavoriam, dolci fratelli,
Sin che molle è la terra, e i dì son belli,
Qui tra il susurro delle fonti e il verde,
Preghiam che lunge stia l’arso e la bruma.
Chi possiede tesori il sonno perde;
Chi possiede intelletto il cor consuma:
Quanti mila infelici errano in bando
Senza conforto! Tra le spose e i pargoli
Noi lavoriam cantando.
Lavoriam, lavoriam; l’ora che avanza
Di lavor sia tessuta e di speranza.
Se questi ricchi, che ci dan le glebe,
Qualche volta con noi miti non sono,
Noi, dolorosa ma non trista plebe,
Rispondiamo con l’opra e col perdono.
E così, nel silenzio, ammäestrando
L’umile cencio a rispettar del povero,
Noi lavoriam cantando.
Lavoriam, lavoriam: l’ora che avanza
Di lavor sia tessuta e di speranza.
Volando e rivolando s’affatica
Il suo nido a compor la rondinella;
Sugge l’ape alla rosa e la formica
Porta il cibo del verno alla sua cella,
Nel codice di Dio l’opra è comando.
Non per noi, ma pei figli è l’edifizio
Su! lavoriam cantando.
 

LE MIE SIMPATIE

 
Voi mi accusate che i miei concenti
Nuotano in nembo di troppi fior;
Sì, mi son cari questi innocenti,
Queste opre belle del Crëator.
In lor si vela tanto mistero
D’amor, di pena, di voluttà,
Che ogni movenza del mio pensiero
Armonïosa con lor si fa.
Se miro un volto di giovinetta
Dimesso e mesto, puro e gentil,
Mi trema in mente la vïoletta,
Che orna le siepi del novo april.
Quando alle spine del nostro esiglio,
Caro fanciullo, tu avvezzi il piè,
Svolto dall’urna d’un bianco giglio,
Sospira il canto d’intorno a me.
A una sembianza d’allegra sposa,
Che in mezzo ai balli gemmata appar,
Dall’ondeggiante sen d’una rosa
Profumi e carmi sento esalar.
Ricchezza occulta del trovatore
È un fior rapito da un nero crin,
E quante volte si cela un fiore
Nell’amuleto del pellegrin!
Il fior, ricordo d’una fanciulla,
Vive tra l’armi, vola sul mar.
Rose e ligustri copron la culla,
Rose e ligustri l’urna e l’altar.
Un giorno fugge, l’altro s’avanza,
Fiorisce il duolo come il gioir;
Ha un fior la vita per la speranza,
Ha un fior la morte per l’avvenir.
Spargono l’aria, l’ombra e la luce
Perle e colori sul tenue vel;
Curvo alla terra, che li produce,
Notturni amori mormora il ciel.
In lor si vela tanto mistero
D’amor, di pena, di voluttà,
Che ogni movenza del mio pensiero
Armonïosa con lor si fa.
 

GELOSIA ORIENTALE

 
Coperto la fronte di mirti e d’allori,
Tra l’arme e il tripudio di compre beltà,
Cinquanta odorose stagioni di fiori
Mirò sulla terra Braimo pascià.
Eppur su quel crine non fiocco di neve,
Non velo di nebbia nell’occhio seren;
Al nappo d’amore quel labbro non beve
Che pronta non arda la fiamma del sen.
La bella Odalisca fra tutte le belle,
Zorama di Gaza, con tacito piè
Al pallido varca fulgor delle stelle
La soglia gelosa del vago suo re.
E quando sull’alba rimira vestite
Le punte dei chioschi d’un dolce color,
Le coltri abbandona sì lungo gioite
Ancor colle labbra stillanti d’amor.
E irride superba le vinte rivali
In duri abbandoni dannate a languir;
Chè pende la gioia de’ baci regali
Da un sol di Zorama segreto sospir.
Ma sono due sere che lenta Zorama
S’interna fra l’ombre d’occulti sentier,
Che all’opere usate le ancelle non chiama,
Che ha grave la fronte d’un tetro pensier.
Volando una notte, con petto più anelo,
A’ gaudi promessi da un cenno del dì
O vide, o le parve, trascorrere un velo
Che lungo tra gli archi, qual nebbia, svanì.
Fu larva? fu donna? Zorama non crede
Le storie che il buio spavento sognò;
Eppure in quell’ora dimanda una fede,
Che il duro suo fato più darle non può.
Or dunque, fu donna!… Repente quel viso
Smarrì la celeste nativa beltà,
Fu il gel della tomba sul morto sorriso,
Ma quel che è nell’alma nessuno lo sa.
Ancora una notte del sire all’amplesso
Ritorna; si scontra nel velo fatal;
Seida, Seida! L’ha vista dappresso;
Tentò, ma non trasse l’occulto pugnal.
Non grida, s’avventa. La serra alla gola,
Si svinghia Seida, s’afferrano ancor;
Ormai di due vite s’è fatta una sola,
Son strette due tigri da mutuo furor.
Ma un gemito acuto quell’aure percosse,
Ma un corpo sul calle riverso piombò.
Non chieder se amasti, l’estinta qual fosse.
Star contro alla serpe la rosa non può.
Zorama la guata. Raccoglie le chiome:
Nel vel di Seida si terge la man
Cospersa di sangue; la chiama per nome,
La scuote alla vita con scherno inuman.
– Tu di fata hai l’orma lieve,
Rubi il canto all’usignuol;
Il tuo volto è come neve,
Il tuo sguardo è pari al sol.
E perchè non ti risvegli,
O degli angeli il più bel?
Ricomponi i tuoi capegli,
Vieni in braccio al tuo fedel. —
. . . . . . .
E via la trascina sin presso alle soglie
Fatali; sul marmo la gitta; e perchè
Ancor di bellezza un raggio s’accoglie
Sul volto a Seida, la sforma col piè.
E ancor non è paga. Gelosa, furente
Ne interroga il core, lo sguardo, il respir;
Non cerca se è morta, la brama vivente
Per anco poterla vedere a morir.
Poi tra la luce e i balsami
Dell’amoroso loco
Entra Zorama. Indocile
Per inusato foco
La invita alle sue coltrici
Il bello e infido Sir.
– Zorama, oh! perchè pallida
Mi guardi e non rispondi? —
– So che nel petto i gaudii
D’un altro amor nascondi;
Che in abbandono e lacrime
Il mio dovrà perir. —
– Oh, che di’ tu, se l’unico
Grande amor tuo mi dona
Più che i miei cento popoli,
Più che la mia corona?…
Calma l’incerto spirito,
Cara, e t’affida in me.
– Sì; ma v’è tal, che il palpito
D’un impudico affetto
Non cela… e se ti nomina
Ti chiama il suo diletto. —
– La invereconda accennami;
Parla, Zorama, ov’è? —
– Ma è dolce come un roseo
Sorriso del tramonto;
È vaga come un zefiro
Tra i fior dell’Ellesponto… —
– Ella è più rea d’un demone
Se pianto a te costò. —
– Gran pianto!… E qui pesavami
Sempre un’orrenda idea.
Ogni mia fibra, a scorgerla,
Furiosamente ardea.
M’ascolta; i tuoi vestiboli
Ella pur or calcò.
Noi ci scontrammo: – «Amabile,
Bella Zorama, addio.
– Che fai Seìda? – Io vigilo,
E penso all’amor mio. —
Parti, gelato è l’aere. —
– Gelo non sente amor.
Qui vo’ restarmi. – Appressati,
Braimo; ancor v’è forse.
Così Zorama. E subito
S’alzò, la man gli porse;
Sentì Braimo un brivido
D’incognito terror,
. . . . . . .
Si schiude la porta; del sire lo sguardo
S’affigge in un corpo; fremendo ristà;
Prorompe Zorama con riso beffardo:
– Paura del gelo l’amore non ha. —
Il resto è mistero. Ma d’urla mortali
Quegli archi segreti suonarono allor;
E i bianchi pilastri di larghi e fatali
Vestigia di sangue rosseggiano ancor.