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Loe raamatut: «La principessa romanzo», lehekülg 12

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– Però, – continuava, esterrefatta, Diana nel suo ragionamento, – Enrica è stata la sola testimone sulla cui fede fu condannato quell’innocente.... Avrebbe essa potuto usar tanta crudeltà contro un uomo, il cui solo delitto era di averla troppo amata?

Volle stornarsi, per allora, da que’ pensieri. Si mostrò gaia, disinvolta: guardò rapita, o finse, – era già la seconda volta che fingeva nella sua vita, – tutti i fiori che aveano raccolti.

– Ora, basta! – disse al guardacaccia. – Perchè sciupare tanta bellezza?

– Oh, ma domani, o dopo domani, signorina, saranno tutti appassiti. Meglio è, – disse il guardacaccia con una certa poesia, – che muoiano vicino a voi.

Diana sorrise di quel complimento.

La principessa, col volto appoggiato tra le mani, singhiozzava dinanzi a Cristina. Non era il solito pianto, di cui, come sa il lettore, si valeva ad arte.

Ella singhiozzava pensando alla sua bambinetta; la improvvisa notizia della morte di quel piccolo essere l’avea sopraffatta, affranta.

Cristina la lasciava piangere, senza affannarsi a dirle una parola di conforto e come se ogni soffrire di lei le fosse indifferente.

Alla fine Enrica sollevò la sua bella testa. Le lacrime erano rasciutte; essa avea ripreso tutta la sua fierezza.

– Brutto sogno ho fatto in pochi minuti, – disse, poichè soltanto da pochi minuti erano insieme ella e Cristina, – e ho veduto nella mia mente tante cose, e mi hanno atterrito, spaventato.... Sono ben sola nel mondo; ho destato e desto in molti le più forti passioni, ma nessuno mi ama. È il mio castigo!… Quando penso che tu mi odii, non ostante tutto il bene che hai avuto da me, e dopo aver passato insieme con me tanti anni, ora per ora....

– Nessuno vi ama, perchè non sapete farvi amare.... – rispose Cristina, – perchè nessuno ama gli orgogliosi: e l’orgoglio vi ha sempre dominato!… Il bene che avete fatto non fu apprezzato da alcuno perchè mescolato con troppo scherno, con troppo prepotente alterigia.... Ma, tali discorsi sono inutili.... Vi ho già detto ciò ch’io desidero.... ch’io voglio, anzi, signora principessa!

– Ah, sì, tu vuoi nuovi denari....

– Se non desiderate ch’io sveli tutto.... mostri i documenti....

La principessa si contorceva.

– Io non ho denaro in questo momento; non posso disporre della somma che tu domandi. Aspetta.... la troverò!

Pensava al Weill-Myot. Era sicura ch’egli le avrebbe anticipato ben volentieri quella somma. Non le pareva degno di affliggersi, di molestarsi per così poco; voleva vivere gaiamente il più che poteva, stordirsi nei piaceri.

Già in pochi istanti avea di nuovo dimenticato la bambina: era entrata in un altro ordine d’idee; tornava al suo amore della vita leggera, alla sua spensieratezza.

Cristina si lasciò supplicare dalla principessa, per un pezzo, poi acconsentì.

Come se nulla di terribile fosse accaduto tra loro, Cristina si studiava atteggiare il suo bieco volto al sorriso più ilare, più affabile che potea, cominciò a mostrare alla principessa le delizie della sua casa: poi la guidò nel giardino ov’erano Diana e il guardacaccia.

Anche la principessa, commediante perfetta, appariva tranquilla; serena, disposta al celiare.

Cristina volle a lei pure offrir un mazzo di fiori.

Mezz’ora dopo, la principessa e Diana risalivano in carrozza per tornare a Napoli.

Enrica era assai silenziosa: pensava alla visita che doveva fare al Weill-Myot, già che credeva necessario quest’atto a vieppiù persuaderlo: e di tratto in tratto il pensiero le correa al motivo di quella sua gita.

Perchè era venuta a domandar notizie di una bambina, della quale per tanti anni non s’era curata? I migliori sentimenti a lei costavan bea caro! Ora intanto era obbligata ad una bella umiliazione: andare da quel Weill-Myot: chiedergli un favore! Da molto tempo, egli non le parlava più della sua passione per lei: non pronunziava parola, non facea atto che gliela potesse menomamente ricordare: era con essa compassato; glaciale: avea un tono cerimonioso nel quale le pareva indovinare una certa lieve ironia. Non si sentiva punto inclinata a far del Weill-Myot un suo amante: sentiva, anzi, per lui ripulsione, benchè egli fosse uomo di molta prestanza, e ricercato dal comune delle femmine. Ma le doleva di veder ch’egli si alienava da lei, che usciva dal gruppo de’ suoi adoratori. Certe donne sono vaghe d’imperare su un piccolo regno e tengono a non perder niuno de’ loro sudditi.

– Che hai? – le domandò più d’una volta Diana, prima che arrivassero a Napoli.

– Sono un po’ stanca.... Ho dimenticato fare qualche cosa e temo ne possa nascere un inconveniente.... Stanotte non ho abbastanza dormito.... – ecco le risposte date dalla principessa.

In verità, ella ora si rimproverava d’aver fatto una gita sì lunga, per parlar a Cristina, per informarsi della creatura.

Chi le avrebbe mai detto che la creatura, di cui avea un istante pianto la morte, e alla cui perdita si era subito rassegnata, la figliuola sua e di Roberto, le stava accanto, che ella ne stringeva le mani, ne udiva la voce, ne avea le carezze? Chi le avrebbe detto che fra breve si sarebbero ritrovati tutti e tre insieme, e in quali angosciose congiunture.

Tornata nel suo palazzo, Enrica ebbe una vera sorpresa. Trovò, fra le lettere, una lettera del principe, suo marito: non le aveva scritto da varii mesi e le annunziava che sarebbe arrivato in Napoli entro quindici giorni.

Enrica non mostrò alcuna gioia nel partecipare a Diana tale notizia. Mentre essa guardava le lettere, Diana ripensava a ciò che il guardacaccia le aveva detto della reità di Roberto. Costui le avea perfin raccontato come Roberto era entrato di notte nel parco, ed egli avea sparato contro di esso un colpo di fucile mentre si avvicinava alla villa ove dimorava Enrica e come, scoperto, si desse alla fuga.

La fanciulla innocente cominciava ad aver i più strani presentimenti. Teneva i suoi occhi fissi sulla principessa: la studiava, la scrutava.

Enrica si volse, mentre Diana era appunto assorta in uno di questi attentissimi esami.

– Perchè mi guardi così? – le disse.

– È proibito guardarti? – rispose Diana, le cui parole non corrispondeano punto al pensiero.

– Tu rimani a pranzo con me stasera?

– Con piacere.... se vuoi!

– Sicuro che voglio: e scriveremo intanto per darne annunzio a casa tua.

– Ma, dimmi, – esclamò a un tratto Diana. – Ti ricordi che in questo stesso salotto io una sera t’invitai a unirti con me per scoprire la persona malvagia, che avea cagionato co’ suoi intrighi la perdita del povero Roberto Jannacone?…

Enrica, colta così all’improvviso, vacillò; non ebbe la forza di rispondere subito: e Diana scorse che gli occhi di lei esprimevano lo spavento.

– Non è vero, – continuava con la sua innocente baldanza, – che tu potresti dir qualche cosa su tale persona?

Il turbamento di Enrica aumentava.

Ma Diana l’attribuiva a ben altro motivo di quello che aveva: immaginava che Enrica, giovanissima, avesse avuto per Roberto qualche simpatia, forse assai viva, e il ricordo di lui forse la amareggiasse.

Ma la principessa fu scossa da un gran tremito; si pose un fazzoletto alla bocca ed uscì dalla stanza, mormorando in fretta verso Diana:

– Aspettami, aspettami!

Andò nella sua camera, le ci volle del buono a rimettersi. Quella fanciulla innocente le avea dato un colpo fortissimo, di pessimo effetto, poichè essa non era preparata a riceverlo.

Niuno, da anni, le avea mai parlato con tanta franchezza, con più crudele giustezza dell’atrocissimo fatto. Che quella fanciulla candida, inesperta, stesse per riuscire a carpirle il suo gran segreto?

Un servitore entrò.

– Un uomo, – disse, – di aspetto molto grave, vestito di abiti che lo faceano somigliare ad un bandito, era stato due volte nella giornata a chiedere della principessa.... Non aveva voluto dire il suo nome.... La seconda volta avea affermato che non potea ritornare, poichè altri affari lo chiamavano altrove. Ma – avea concluso – mi rivedrete presto!

– E non rivelò quello che desiderava?

– Non volle dirlo ad ogni costo.... Era tutto avviluppato in un grande mantello.... avea la barba incolta.... una strana capigliatura.... il volto emaciato dalle sofferenze.... Desidera V. E. – proseguì il servitore, che dirigeva tutti gli altri servitori della casa, – io le dica ciò che ho pensato, riflettendo alla fisonomia di quell’uomo, alla premura ch’egli ha mostrato d’allontanarsi, al modo sospettoso onde si guardava attorno anche nella via?

– Ti sto a sentire!…

– Ho pensato che sia qualche prigioniero fuggito e che Roberto mandi a supplicare V. E. per lui....

Il servitore lasciò la porta della camera aperta come l’aveva trovata: e la principessa, che lo aveva incontrato quasi presso la porta, mentre stava per uscire, tornò nella camera e vi si trattenne ancora alcuni istanti.

– Possibile! – esclamava, – sia lui!… sia lui!…

Si rammentava in qual modo Cristina le aveva ricordato ch’egli potesse tornare a chiederle conto.

Ma, di nuovo, si fece animo, si riebbe: non voleva attristarsi per ombre, invano: aspettiamo, – ella si diceva, – e intanto godiamo.

Era sempre il solito stile!

XI

Abbiamo interrotto il nostro racconto al punto, in cui i due prigionieri, avendo scavalcata la finestra, cominciando a effettuare la loro fuga, furono uditi quattro spari di fucile.

Il soprintendente del carcere accorreva, com’abbiam detto, a portar il decreto di grazia all’ingegnere Amoretti e avea tutto disposto per metterlo in libertà.

Gli spari de’ fucili gli dettero un vero spavento: che era accaduto? Da anni non s’eran più uditi questi spari di notte; nessun prigioniero avea tentato di fuggire.

A un tratto, il soprintendente fu fermato da una guardia, che si precipitava verso di lui.

– Chi è morto? – domandò subito, vedendo la guardia esterrefatta.

– È morto il numero Trentanove!

Il soprintendente ricevette una tal ferita al cuore che poco mancò non stramazzasse in terra.

– Morto Roberto Jannacone! – pensava: il pianto non gli usciva, i singhiozzi gli facean groppo alla gola. In un attimo fu alla prigione di Roberto avanti che altri vi arrivasse: tenea sempre in mano il decreto, che rendeva la libertà all’Amoretti. Aprì la porta della prigione e che scorse? Roberto, in mezzo alla stanza, pallidissimo, agitato.

– Voi qui? – esclamò il soprintendente. – Si dice da tutti che il numero 39 è stato ammazzato.... Oh, l’inferriata è rotta! – disse, interrompendosi, con gli occhi fissi su la finestra. – Dunque?…

– Avevo preparato la fuga, – rispose Roberto, – un mio compagno, il mio vicino di cella, volle parteciparvi.... mentre scavalcavo la finestra, udii gli spari e lo vidi cadere dall’alto.... Ohimè!

E Roberto fece un atto di supremo dolore.

– Chi è morto.... l’ingegnere Amoretti?

– Così egli mi disse che si chiamava!

– Mio Dio, quale idea!… La provvidenza vuole che io ti renda il bene da te fatto a mio figlio, sciolga il mio voto, ti salvi!… Mancherò al mio dovere come direttore della prigione, ma adempio quello di padre riconoscente.... Tu sarai d’ora innanzi l’ingegnere Amoretti.... ecco il decreto che lo metteva in libertà.... Roberto Jannacone è morto!… Vieni con me....

Lo trascinò in fretta per alcuni corridoi: lo chiuse in una stanza ove erano abiti di varie foggie.

Tutti gl’impiegati del carcere, tutte le guardie, si accostavano alla prigione di Roberto. Già alcuni, i primi arrivati, aprivano la porta, che il soprintendente aveva poco innanzi richiuso. Tutti videro l’inferriata spezzata, la corda attaccata a quelle verghe dell’inferriata, che non erano state smosse; nessuno ebbe più dubbio che non fosse morto il numero Trentanove.

L’Amoretti, ferito da quattro colpi, due dei quali al capo, e piombato giù da una sì grande altezza, non era più riconoscibile. Il suo povero corpo, sfracellato in più parti, faceva ribrezzo. Furono subito raccolti gli avanzi per ordine del soprintendente, collocati in una specie di sacco per essere seppelliti, senza molte formalità, come allora costumava, fra poche ore.

Domenico fu il solo che non si svegliasse fra gli impiegati; finito il suo servizio, disteso sul pavimento di una stanza, dormiva un sonno, il sonno dell’ubriaco, da cui niun rumore avrebbe potuto svegliarlo.

Entro un’ora tutto tornò in calma.

Nel corpo di guardia, alla porta principale della prigione, vi fu un po’ di chiacchierio; poi il sonno li vinse. Dormivano tutti: i custodi che vegliavano agli ultimi cancelli e i soldati. Il soprintendente li aveva riuniti, dopo che ebber visitato la prigione di Roberto, avea finto di aver sete, e così coglieva il pretesto di offrir da bere alle cinque o sei persone che potevano attraversare un suo disegno: in tal guisa somministrava loro un sottile narcotico.

Allorchè tutto fu quieto, il soprintendente andò a ricercare Roberto.

Avea parlato a tutti del decreto arrivato per l’Amoretti; avea ripetuto che verso il mattino, tornato l’ordine nella prigione, lo avrebbe messo in libertà.

Entrato nella stanza, ov’era Roberto, gli disse:

– Ecco il momento di partire. Coraggio!…

I due uomini si gettarono uno nelle braccia dell’altro. Roberto si era già acconciato addosso nuovi panni: su di un tavolino v’era un cappello a larga tesa; uno di que’ tabarri, che avvolgevano tutto il corpo fra le amplissime pieghe, e di cui si gettava un lembo su le spalle per chiuderli; allora molto in uso.

– Possa tu aver fortuna, fuori di qui!… – aggiunse il soprintendente. – Dopo sedici anni nessuno ti riconoscerà più, nè in Napoli, nè altrove. Ma dimmi, – continuò, – tu mi avevi nascosto il tuo desiderio di fuggire: desiderio che deve esserti costato anni di lavoro, per tentare di effettuarlo con speranza di successo. E pensa che sarebbe accaduto, se tu fossi fuggito il primo!… Sarebbe toccata a te la sorte che ha avuto l’infelice Amoretti. Ci dev’essere un motivo, e fortissimo, perchè tu abbia avuto un sì tenace proposito di fuggire.... Qualcuno che vuoi rivedere? Una donna.... un figlio? Forse hai da compiere qualche vendetta? – E il soprintendente a tal pensiero si turbava.

– Desidero rivedere i miei calunniatori! – disse Roberto con voce terribile. – E poi mi spinge un gran pensiero d’amore, ritrovare una figlia che non conosco!

– Ah! Hai provato anche tu l’amore paterno? Quali torture devi avere qui sofferto: e io non ho mai indovinato i tuoi patimenti!…

Gli orologi della prigione sonavano le ore: si udivano rintronare da varii punti i rintocchi.

– Va’, non c’è tempo da perdere.... La luce del mattino deve coglierti ben lontano di qui. Addio, Roberto; chi sa se noi ci rivedremo mai più!…

– Prendi, – mormorò il soprintendente, da’ cui occhi sgorgavano le lacrime, – questo ti sarà utile, indispensabile anzi, ed è poca cosa a quanto io ti debbo! Gli dette una borsa piena di denari.

– Dio vi ricompensi di tutto quello che fate per me! – esclamò Roberto.

Commossi entrambi, non si potevano staccare l’uno dall’altro. Il soprintendente prese per mano Roberto, come se lo guidasse, e uscirono dalla stanza. Andarono innanzi: di cancello in cancello il soprintendente pronunziava certa parola d’ordine e soggiungeva: l’ingegnere Amoretti!

I custodi assonnati, desti a quel rumore, si alzavano, aprivano i cancelli, li rinchiudevano in fretta, e tornavano a cacciarsi a dormire. Le guardie aprivano appena gli occhi un istante.

La carrozza della prigione aspettava Roberto alla porta. Dal soprintendente aveva ricevute tutte le debite istruzioni, mentre facevano insieme il cammino per uscire. Il brav’uomo gli aveva detto: che salisse nella carrozza, senza dir verbo, e che arrivato a un certo punto la licenziasse e prendesse una vettura a conto suo: prendesse poi altre vetture in modo che si perdessero le sue traccie: e non parlasse con alcuno, fin che non fosse molte miglia lontano dalla prigione.

Il soprintendente lo accompagnò sino alla carrozza ed ebbe il sangue freddo, mentre egli vi saliva, di rivolgergli uno scherzo, che gli premeva fosse udito dalle due guardie a lui vicine e dal cocchiere.

– Signor Amoretti, – gli disse, – sono sicuro sarete rimasto poco contento dell’alloggio e del vitto ch’io v’ho dato per tanti anni.... Non fu tutta mia colpa.... buona notte!

E richiuse lo sportello.

Roberto sentì una stretta al cuore. Gli parve soffocare; quella facezia acquistava un non so che di lugubre: e capiva che doveva esser costata al soprintendente un intimo dolore.

Vide subito quanto, non ostante il lento lavorìo di tanti anni, avesse mal preparato la sua fuga: quanti ostacoli gli sarebbero rimasti a superare, se si fosse soltanto affidato a sè stesso. Ora, ogni grave difficoltà era scomparsa.

Mentre i cavalli correvano, guardando la campagna, che gli passava dinanzi appena illuminata per un certo breve spazio dai fanaletti della carrozza, egli si lasciava sopraffare da’ suoi pensieri.

Ove sarebbe stata in quell’ora la principessa? Dormiva ella forse? Non sospettava che qualcuno venisse a turbare la sua tranquillità? O facea qualche brutto sogno? Perchè Roberto credeva che Enrica dovesse vederlo qualche volta ne’ sogni, e non s’ingannava. Spesso da qualche tempo l’immagine di lui veniva a darle raccapriccio, a impedirle, amareggiarle il sonno.

XII

La principessa voleva denaro. Aspettava, da un momento all’altro, Cristina, e le occorreva di comporre affari urgentissimi. Pensò effettuar il suo disegno di recarsi dal Weill-Myot. Egli le avea detto che andava alla sua Banca molto di buon’ora ogni mattina: che alle otto era spesso già al lavoro.

Circa le otto e mezzo, la principessa scendeva una mattina dalla sua carrozza dinanzi alla Banca.

Indossava un abbigliamento studiato con arte. Avea le sue braccia stupende coperte solo di trina e di una trina larga, che lasciava vedere tutto il nitore della pelle. La stessa trina copriva appena il nascere del suo bel seno. La gonna leggera, succinta sui fianchi, ne rivelava la solidità, la potenza.

Ella era, come donna, meravigliosa: gli antichi romani ne avrebbero fatta una dea. Era più appariscente delle loro Minerve, delle loro Giunoni, come almeno ci sono raffigurate.

Scese dalla carrozza, dopo che il portinaio le ebbe detto che il signor Weill-Myot era arrivato.

Salì una scala; spinse un uscetto, tutto imbottito di stoffa verde, salvo che nel mezzo, ove, entro una cornice di cuoio lustro, nero, era un vetro opaco, ovale, e sul centro di esso era scritto a lettere d’oro: W.-Myot.

Entrò in un corridoio, poi in una stanza e in un’altra; per tutto vetrate opache, fisse e incorniciate su basi di legno in noce, dietro alle quali avrebbero dovuto essere gl’impiegati. Ma non c’era nessuno. Leggeva sulle vetrate: Cassa: Sconti: Esportazioni: Segretarii: altre parole, ma non udiva il più lieve rumore; non si accorgeva che vi fosse alcuno in quel vastissimo locale. O dunque?

Le parve sentir muovere una sedia in una stanza vicina. Traversò un’amplissima anticamera; aprì la porta della stanza donde le era sembrato venisse il rumore, sperando che almeno vi sarebbe stato qualcuno per rispondere alle sue domande, dargli notizie del Weill-Myot.

Appena ebbe spalancato la porta, vide l’americano seduto, anzi sprofondato in una gran poltrona di pelle grigia, mezzo ricoperto da que’ grandi giornali, che si pubblicano a New-York, a Londra: uno ne leggeva, il Times: gli altri avea gettato a destra, a sinistra, su le ginocchia.

La sala era elegantissima, severa: alle due maggiori pareti erano appesi due grandi quadri ch’egli avea commesso a un giovane pittore napoletano, Edoardo Nisieli, da lui protetto: uno de’ quadri rappresentava la “Congiura de’ Baroni” con molte figure; l’altro, “Colombo, che parte per scuoprire l’America”.

I due quadri erano di tinte cupe, molto serii, di uno stile castigato.

Per tutta la stanza, alle pareti, alti stipiti in ebano: quattro scaffali, pure in ebano, di un lavoro squisito, con intagli di graziose figure, di fiori, di frutta, di colonnette: alcuni divani in raso nero, con filettature, nappe e frangie d’oro: su i tavolini, bronzi: il Mercurio di Gian Bologna, che stava lì sì bene; la Venere Callipige; varie piccole terre cotte di molto e molto valore.

Subito il Weill-Myot, sentendo aprire la porta, aveva alzato gli occhi dal giornale che stava leggendo.

Riconosciuta la principessa, si alzò di scatto: non ebbe neppur un sorriso di trionfo; il suo sangue freddo era stato uno de’ segreti della sua immensa fortuna.

– Caro Weill-Myot, – disse la principessa, che voleva cominciare con le parole: – Caro Gustavo, – ma pensò di non scoprir troppo il suo giuoco.

Mentre da casa sua andava alla Banca, essa avea interrotto più volte una serie di strani pensieri, dicendo fra sè:

– Come il mondo si muta: noi gran signori, della più antica nobiltà, siamo tutti, o quasi tutti, in balìa di questi grandi avventurieri.... In certi momenti, essi sono la nostra unica speranza: noi dobbiamo ricorrere a loro, inchinarci, sottoporci magari a’ loro capricci.... È una nuova aristocrazia, che sorge. Forse non è peggiore della nostra, che è nata da guerrieri prepotenti, o da trafficatori rapaci, come il Weill-Myot, e si è sfiaccolata, impoverita con l’ignoranza e col vizio.... La nuova aristocrazia ha almeno le due più cospicue forze del mondo, le due virtù che muovono tutto: l’intelligenza e il lavoro.

– A quest’ora, principessa?… – esclamò il Weill-Myot. – Qual affare vi conduce?…

E pronunziò la parola affare con un tuono, che non lasciò alla principessa illusione di sorta.

Il banchiere, vista specialmente la studiata abbigliatura della principessa, le facea intendere che egli non era disposto a sostener una scena di seduzione.

Non già che verso la principessa non le attirasse la sua passione, ma egli oramai volea vendicarsi di lei, volea parlarle dignitoso, burlarsi dei suoi imbarazzi, ridurla suo trastullo. La principessa ha motteggiato, schernito tutti? – pensava. – Io sono americano, uomo di carattere, e glielo proverò!

La principessa era venuta per sedurlo, per divertirsi di lui, strappargli il denaro, che contava restituirgli con tutti i suoi frutti: ma, quando egli fosse divenuto incalzante come altra volta, respingerlo. Sentiva verso quel bell’uomo, forse troppo bello, un’antipatia, una repugnanza inesplicabile.

– L’affare, che mi conduce, – riprese la principessa, tutta sorridente e ostentando il piglio più leggero, – non è molto grave....

– Ho piacere! – interruppe il Weill-Myot, – Da un pezzo non mi parlate della vostra amministrazione, ma il giovane, che vi ha dato forse qualche consiglio non molto pratico, m’assicurava, giorni sono, e n’ebbi molta soddisfazione, che voi, con la vostra energia, avete riparato a tutto.

– Oh! – rispose disinvolta la principessa, che sapeva la sua rovina: e il Weill-Myot la sapeva meglio di lei. – Siete però su una falsa strada: non crediate ch’io non abbia più bisogno del vostro aiuto. Io debbo domandarvi un altro piccolo favore!

– Ahimè, principessa, – soggiunse l’ipocrita Weill-Myot, – speriamo sia tale che mi sia dato l’onore, il piacere di soddisfarvi.... sapete quanto sia vostro amico!

– Vi ripeto, il favore è piccolo.... per voi, – disse freddamente la principessa, – m’occorrono in giornata sessantamila franchi!

Il banchiere finse di aver ricevuto un gran colpo.

– E vi occorrono proprio? – volle domandarle lentamente. Si compiaceva a torturarla.

– Altrimenti non sarei qui! – rispondeva la principessa con piglio di sovrana, che sa non poterlesi negar nulla e non è abituata, neppur può pensare, a un rifiuto.

– Non potete dunque farne a meno?… – insistè il Weill-Myot che, col secondare in lei la fiducia di averli, si preparava a gioire del suo profondo turbamento.

– No, no!… – ella ribattè un po’ sdegnosa e impaziente.

La principessa non sapea che tra’ suoi beni non le rimaneva più da garantire una tal somma. Al Weill-Myot, causa della rovina di lei, era ben noto: ma egli non era ancora contento. Il male fattole non gli sembrava sufficiente.

Stette alquanto pensoso: si alzò, stropicciandosi la fronte con una mano; andò qua e là per la stanza, tutto assorto, senza dir verbo, come se cercasse un espediente difficile.

Poi tornò a mettersi in piedi dinanzi alla principessa, e dominandola, divorandola con gli sguardi per non perdere alcuna mutazione del suo volto, mentre egli parlava, le disse:

– Non mi sono mai sentito così umile, così sventurato come oggi… debbo farvi una confessione… pur che tutto rimanga fra noi....

La principessa assentì.

– Io sono alla vigilia di un fallimento!

– Eh! – esclamò la principessa, scattando in piedi. – Non è vero!

– Una gran Casa di New-York, d’accordo con la più gran Casa di Parigi, ha giurato la mia rovina.... Mi combattono su tutti i mercati, anche qui. Da due mesi io combatto una guerra atroce: una guerra di milioni, intendete....

Non è a descrivere come rimanesse Enrica. Le sue speranze, le sue illusioni cadevano a una a una. Lasciò che il banchiere parlasse: essa lo ascoltava, guardando le punte de’ suoi stivalini, che uscivano di sotto alla fimbria del suo abito: e, mentre nel cuore si rodeva, voleva aver sempre sembiante di spensierata.

– Oh, ma sessantamila lire sono un nulla per voi.... sempre: e anche per me, forse, – aggiunse negligentemente, – ma non in questo momento! Voi dovete trovarle! – concluse, tornando al suo fare imperioso, e riguardando, in tal punto, perfino il Weill-Myot, quest’uomo potentissimo, per ciò che ella solea riguardar tutti: suoi soggetti, o strumenti de’ suoi piaceri.

– M’è impossibile, principessa! – rispose il Weill-Myot, in tuono che non ammetteva replica.

I begli occhi di lei si gonfiaron di lacrime.

Il banchiere vedeva lo sforzo ch’ella faceva per frenar la commozione, e involontariamente gli sguardi dell’americano corsero al forziere ove era chiusa una somma, fra denari e titoli, più che dieci volte maggiore di quella domandata da Enrica.

Sentì una gioia profonda; forse in quel momento egli era padrone di quella donna, potea dominarla; aprendo quel forziere, mostrandole tutta quella ricchezza, l’alterigia di lei si sarebbe piegata.... Egli la respingeva. Nella lotta di amor proprio, a non dire di odio, che le avea dichiarato, egli usciva trionfante.... Così, almeno, si dava ad intendere!

Ma Enrica non avrebbe mai ceduto: ella era pronta ad ogni capriccio, non sarebbe però mai discesa a tal punto. Aveva per il banchiere un disgusto insormontabile; gli domandava un favore, come si domanda a un servo quel che ci occorre: senz’annettervi alcuna importanza, e sicura che avrebbe potuto restituire quello che da lui aspettava, magari procurando a lui un grosso guadagno.

A tal segno s’illudeva, non bastandole l’animo di credere a tutta la sua rovina.

Un’idea corse alla mente del Weill-Myot. E subito, egli volle rompere il silenzio imbarazzante, che già regnava fra loro.

– Mi duole, – -osservò il banchiere, – rispondere con un rifiuto. Ma, – e credeva così insinuare una idea, – io non posso più disporre neppure d’alcuni miei oggetti di gran valore.... Essi sono una garanzia, già acquisita, de’ miei creditori.... Tenterò uno sforzo supremo: e, se riesco, principessa, fra poche ore sarò al vostro palazzo....

E la prese per mano, come a darle maggior sicurtà di ciò che le diceva, ma, infatti, per spingerla con un lieve moto ad alzarsi e liberarsene.

La principessa, che non era più in condizione di dirigere la sua volontà, cedette a quel moto, e si alzò: e, senza dir altro, s’accomiatava dal banchiere con il più scintillante sorriso sulle labbra.

Entrata nella carrozza, si mise a riflettere. Non volea darsi vinta così per nulla. Non era di quelle indoli che si spaventano a’ primi ostacoli, e che sono sì numerose: era di quelle indoli rare che, fra gli ostacoli, si ritemprano, acquistan gagliardia, ne vivono, se non li spezzano, o ne sono esse stesse accasciate, infrante.

Di queste indoli si trovano specialmente nelle donne appassionate e negli uomini politici.

– Finalmente, – pensava, – l’americano non m’ha detto di no.... – E si appigliava a tale speranza. – Se non riuscisse? – si diceva. – -Io non mi posso rivolgere ad altri!…

Non avrebbe mai domandato a un gentiluomo della sua classe ciò che avea domandato al Weill-Myot. Quell’americano poteva ben rendere un servizio a una gran dama: non era nato per altro! Essa l’avrebbe ringraziato, rimunerato: ecco tutto. Con un gentiluomo, sarebbe discesa, si sarebbe avvilita al cospetto di esso! E sentiva sempre questa specie di singolare fierezza.

– Se il Weill-Myot mi manca?… – e si torturava il cervello per sapere in che modo avrebbe trovato il denaro di cui aveva urgente bisogno. Non le veniva all’animo per allora di domandarlo al marito.

Se ne tornò a casa e aspettò per lunghe ore nelle sue stanze l’arrivo del Weill-Myot.

Era una giornata piovosa, malinconica. Ogni tanto ella sentiva brividi di freddo e si avviluppava nella sua gran veste di velluto color granato, con ampie rivolte di raso bianco.

Nessuno quel giorno venne a trovarla, ed essa aspettava una visita, palpitando.

Appena la principessa aveva lasciato l’americano, egli, chiamato un commesso, allora allora giunto alla Banca, gli avea ordinato di andar a chiamare, perchè venisse da lui, il gioielliere De Carlo, uno dei primi di Napoli.

Era un vecchietto molto furbo, di aspetto signorile, e legato d’affari con l’americano.

Il ricco gioielliere, un’ora dopo, si recava dal Weill-Myot. Parlarono un po’ insieme.

– Ma, ditemi, – interruppe a un tratto il gioielliere, – quello che debbo fare, ditemelo con chiarezza, senza i vostri soliti viluppi....

– Avete in riparazione qualche gioiello della principessa, Gorreso; vi ha dato essa commissione di qualche lavoro?

– No.

– Ma allora non avreste un pretesto per andare da lei, per parlarle!

– Ne ho quanti volete.... Andar a mostrarle un bel diamante, una bella collana, un qualche lavoretto fino, originale.... Essa compra molto spesso oggetti, soltanto perchè io glieli offro.... È la miglior cliente che abbia in Napoli, migliore anche della Sovrana.

– E vi ha sempre pagato?…

– Sempre!

Il banchiere fece una breve pausa: pensò al denaro che quella donna dovea aver prodigato.

Chiedendo a lui sessantamila lire, essa dovea credere di domandargli a pena un servizio ed esser sicura che glieli avrebbe, in pochi giorni, restituiti. Che erano sessantamila lire per lei?