La Macchina Per Scrivere

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La Macchina Per Scrivere
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INDICE DEI CAPITOLI

CAPITOLO I

FRANCO SUL TERRAZZO

CAPITOLO II

L’INCIDENTE AL LAVORO

CAPITOLO III

LA PRIMA PAGINA

CAPITOLO IV

LE ANALISI DI FRANCO

CAPITOLO V

UN BRUTTO RISVEGLIO

CAPITOLO VI

IL MICIO

CAPITOLO VII

LA TELEFONATA A SISSI

CAPITOLO VIII

LA RICERCA DELLA GUIDA SPIRITUALE

CAPITOLO IX

FRANCO E CHICA

CAPITOLO X

“NO, NON FARLO!”

CAPITOLO XI

LA MORTE DEL MICIO

CAPITOLO XII

I DUBBI DI FRANCO

CAPITOLO XIII

IL PRIMO TASSELLO

CAPITOLO XIV

IL SECONDO TASSELLO

CAPITOLO XV

IL TERZO TASSELLO

CAPITOLO I

FRANCO SUL TERRAZZO

Franco stacca gli occhi dal foglio e alza distrattamente la testa, perplesso. Tende il braccio e allontana ancora di un poco la pagina che ha appena letto, per osservare meglio quel groviglio di segni d’inchiostro. È come se stesse cercando una visione tra tutte quelle virgole e punti, maiuscole e minuscole, caporali e virgolette. E poi parole, un fiume di parole. Leggere gli è sempre piaciuto, ma è sempre stato convinto che scrivere sia tutta un’altra cosa. Prende una pagina a caso e ricomincia a leggere.

CAPITOLO XXII (LA STORIA DI WALTER)

Malgrado il caldo umido e soffocante, Walter si avvicinò ancora un po’ al falò per tenere a debita distanza le zanzare, grandi come aeroplani. Per sopravvivere in quel posto dimenticato da Dio aveva dovuto imparare a convivere con animali ben più terrificanti e letali, i piranha come le sanguisughe e le Vedove Nere come i serpenti. Eppure continuava a nutrire un odio profondo per le zanzare, ed era certo che sarebbe stato così fino alla fine dei suoi giorni. Che strano, dopo tanto tempo trascorso qui, nel cuore della foresta tropicale, sono riuscito ad abituarmi a tutto meno che a questi inutili insetti. Madre Natura ha stabilito un ruolo e una funzione ben precisa per tutti gli altri esseri viventi, persino per i più ripugnanti e i più pericolosi. Per le zanzare, invece no! Loro si limitano a ronzarti nelle orecchie per toglierti la pace nelle ore del riposo e a succhiarti il sangue, magari all’occorrenza te lo infettano anche. Chissà che Dio non le abbia create tanto per fare un dispetto agli uomini, considerò, infatti queste avevano rappresentato l’unica realtà costantemente immutata durante la sua lunga permanenza in quel posto, gli avevano fatto sgradevolmente compagnia a ogni ora del giorno e della notte come la tortura cinese della goccia d’acqua. Chissà se mi mancheranno si chiese infine, poi tornò a riflettere sconsolato sull’assurdità della situazione in cui si trovava. Essere costretto a partire di soppiatto come un ladro, senza neanche aver capito bene il perché, proprio non gli andava giù! Sospirò sconfortato e si lasciò cullare dal cupo e familiare brontolio del fiume, che aveva da tempo fatto suo come l’odore intenso dell’humus. Dover abbandonare tutto in quel modo gli bruciava dentro, provava il dolore sordo di chi si sente sconfitto senza neanche aver lottato, senza nemmeno aver avuto modo di capire chi era l’avversario da combattere.

Il falò stava ormai per spegnersi, ma Walter decise di attendere ancora un po’, cullandosi nella speranza che Sarah si facesse viva. Avrebbe tanto voluto che lei gli dicesse “vengo con te” o anche soltanto “mi dispiace”. Ma Sarah non venne. Lui ripensò ai suoi lunghi capelli neri e lisci, lucidi, ai suoi occhi scuri e profondi e al profumo della sua pelle, che gli ricordava quello del miele. Soltanto poche ore prima, forse perché avevano intuito che le cose stavano precipitando, avevano fatto l’amore per la prima volta. Stavano passeggiando lungo il fiume, nei pressi della piccola cascata, quando d’un tratto si erano messi a litigare furiosamente. Dopo alcuni istanti però si erano bloccati d’improvviso, così come avevano cominciato, per fissarsi astiosamente. Coi nervi logorati dalla tensione dei giorni passati si erano avvicinati lentamente l’uno all’altra, sfidandosi con lo sguardo, pronti a colpirsi senza pietà e a farsi del male con ogni mezzo possibile. Ma invece qualcosa di incomprensibile era scattato in loro, che si erano lasciati travolgere dall’istinto. Nessuno dei due l’aveva mai fatto in modo così selvaggio, si erano scambiati morsi e graffi ansimando, gridando e aggrappandosi alle pietre scivolose del fiume. Walter si era sentito come se ogni sua più piccola parte esplodesse in lei, con lei. Dopo erano rimasti a lungo avvinghiati sulla riva fangosa, in silenzio, con le unghie di lei ancora piantate nella schiena di lui.

Per la prima volta da quando si erano incontrati, Walter l’aveva sentita veramente sua fino in fondo, ma quando era tornato al villaggio aveva trovato quei fogli sulla scrivania del suo ambulatorio. Era un invito ufficiale a comparire davanti al Tribunale della Capitale, per fare chiarezza sulla morte improvvisa e misteriosa di molti abitanti del villaggio dove prestava servizio da molti anni. Dopodiché, c’era scritto sui fogli, l’avrebbero trasferito in una non meglio precisata struttura ospedaliera situata in Europa. Ma per lui quella era soltanto carta straccia, sapeva di non potersi fidare della parola dei burocrati. Non era stupido, aveva capito subito di essere stato scelto come capro espiatorio e sapeva che in gioco c’era la sua stessa vita. I rappresentanti della polizia locale, grassi e sudaticci, sarebbero venuti a prelevarlo all’alba con la loro Jeep e i loro modi strafottenti. L’avrebbero gentilmente invitato a seguirli per poi buttarlo in una cella dove l’avrebbero lasciato marcire per il resto dei suoi giorni, per far sì che non trapelasse all’esterno notizia del marciume in cui era rimasto invischiato.

Walter sapeva che una copia di quei fogli era stata sicuramente recapitata anche a Sarah, così aveva capito che, appena un attimo dopo averla trovata, avrebbe perso per sempre quella ragazza meravigliosa. Sapeva che lei non sarebbe venuta perché non c’era niente da aggiungere, rivedersi sarebbe servito soltanto a rendere tutto molto più difficile. Si accorse che gli mancava già.

Guardò ancora una volta i documenti che stringeva in mano, senza rendersene conto li aveva stropicciati a causa della rabbia. Li infilò nella sua borsa di cuoio e sospirò nuovamente, poi si alzò e si avviò con passo mesto verso il moletto. Si fermò solo per un attimo, per dare un ultimo sguardo dolente verso il piccolo edificio a forma di “L”. Quell’ammasso disordinato di mattoni di fango appena sbozzati faceva da scuola, ospedale, mensa, magazzino e sala riunioni. Così come lui nel tempo aveva fatto da maestro e cuoco, dottore e magazziniere, almeno fino all’arrivo di Sarah. Quella palazzina era soltanto uno dei molti risultati visibili dell’impegno col quale aveva combattuto giorno dopo giorno, a dispetto degli scontri politici ed economici tra le nazioni, per riuscire dare qualcosa a quella povera gente. Giunto al luogo dell’appuntamento fece scorrere lo sguardo sui volti scuri e tesi, schierati a semicerchio attorno a lui, soffermandosi per un attimo su ogni singola coppia di occhi luccicanti che lo fissava nella semioscurità della sera. Oltre la fila di teste, in lontananza, scorse la figura di Sarah dietro la tenda di una finestra. Per un istante fu tentato di tornare sui suoi passi per abbracciarla un’ultima volta, ma sapendo che sarebbe stato troppo doloroso rinunciò.

Walter scrutò la radura poco distante che ospitava il piccolo cimitero, illuminato dall’incerta luce lunare. Le croci bianche, che nelle ultime settimane si erano moltiplicate, spiccavano nel buio. Walter scosse la testa e riprese il cammino lungo il breve sentiero che lo separava dal fiume, seguito dagli altri.

Camminava lentamente, accompagnato dai flebili rumori notturni, con il machete in mano e i pantaloni color Kaki che frusciavano contro l’erba troppo rigogliosa. Si fermò sulla riva paludosa, davanti al piccolo pontile al quale erano attraccate le piroghe. Gli altri continuavano a fissarlo in silenzio, timidamente rispettosi, lui sperò ancora una volta che si trattasse soltanto di un brutto sogno. Alla luce della torcia si notavano le precoci spruzzate di grigio sulle sue tempie, accompagnate da qualche piccola ruga attorno agli occhi e agli angoli della bocca. Sentì un improvviso rumore di passi in corsa e per un attimo sperò che si trattasse di lei, ma dal folto della vegetazione sbucò invece fuori un piccolo aborigeno. Poteva avere al massimo otto anni, aveva il viso dipinto coi colori della sua tribù e si atteggiava come un guerriero. Stringeva in mano un arco pronto a scoccare verso di lui, gli altri misero rapidamente mano alle proprie cerbottane e le puntarono contro il bambino. Pochi secondi divennero un’eternità. Walter fece cenno ai propri accompagnatori di abbassare le armi, poi socchiuse gli occhi e rivide il padre del bambino morirgli tra le braccia.

 

«Mi spiace» riuscì appena a mormorare Walter nella sua lingua, aveva la gola arsa e sapeva che non era a causa della paura. Il piccolo guerriero era scosso da un tremito, ma i suoi occhi sembravano non tradire alcuna emozione.

«Hai ucciso mio padre» accusò Walter con la sua stridula voce da bambino, lui non rispose.

«Dì qualcosa» insisté l’ometto, ma l’altro continuò a guardarlo fisso senza aggiungere altro. Lasciò cadere il machete, si sfilò la tracolla della borsa e l’adagiò a terra. Poi rimase in attesa, mentre una goccia di sudore freddo stillava dalla sua tempia. Il bambino lanciò un ruggito rabbioso e nello scoccare la freccia spostò l’arco di pochi gradi verso destra, il dardo avvelenato sibilò a pochi millimetri dalla testa di Walter e andò a perdersi nell’oscurità. Poi il piccolo guerriero lasciò cadere l’arco e corse ad abbracciarlo, piangendo.

«Non andare» gli sussurrò all’orecchio, e lui si sentì morire.

«Non andare Dottore, come faremo senza di te? Chi si prenderà cura di noi?» gli fece eco Sam.

Walter rispose con un lungo sguardo silenzioso e triste, stringendo i pugni per la rabbia. Raccolse le sue cose, si cacciò in testa il cappello di paglia e si sistemò alla meglio sulla canoa. Sam prese posto di fronte a lui, Walter gli fece un cenno con la testa e i colpi di pagaia presero a risuonare nella notte, secchi e regolari, accompagnati da un lamentoso canto d’addio. Ogni tuffo del remo nell’acqua era una sferzata al suo cuore, stava abbandonando contro la sua volontà tutto quello a cui aveva dedicato gran parte della propria vita, senza risparmiarsi. Si domandò che cosa avrebbe fatto dopo, ma subito scoprì che non gliene importava niente. Era come se la sua vita fosse finita lì, affondata nel fiume Congo, nel cuore della foresta tropicale.

CAPITOLO XXIII (WALTER E SARA)

Guardando scomparire Walter nel fitto della foresta, Sarah si rese conto di non aver mai provato un simile stato d’animo. L’unica cosa di cui era certa era che si sentiva un verme, per non aver avuto nemmeno il coraggio di andare a salutarlo. Guardò ancora un volta i fogli sparsi a terra, la copia degli stessi che aveva ricevuto lui. “Per conoscenza” vi aveva scritto a grandi lettere, in bella calligrafia, qualche impiegato amante della burocrazia e del proprio lavoro. Si protese in avanti per raccoglierli ma ci ripensò, diede un’alzata di spalle e andò a sedersi sul divano di bambù intrecciato, cercando un improbabile sollievo nel getto d’aria artificiale del ventilatore. Ma questo continuava a muovergli intorno l’odore di lui che si sentiva ancora addosso, esasperando la sua lotta interiore. Ripensò a com’era stata bene nelle ultime settimane e a come la situazione era inaspettatamente precipitata, travolgendoli senza lasciar loro una possibilità di scegliere. Le cose avevano cominciato ad andar male proprio nel momento in cui loro due avevano iniziato a conoscersi meglio e a capirsi, quando si erano sentiti finalmente pronti a lasciarsi andare. Fare l’amore con lui era stato bellissimo, ma adesso le restava addosso soltanto una grande e triste amarezza. Si odiava perché non era stata abbastanza egoista, o forse coraggiosa, da tradire la povera gente della missione in cui prestava servizio come tirocinante, in attesa di diventare dottoressa in medicina. Era certa che comunque, in qualche modo, laggiù avrebbe potuto comunque continuare a rendersi utile. Eppure, rinunciare così a quella che sembrava dover diventare la storia d’amore più importante di tutta la sua vita la addolorava molto. Ripensando ai pochi intensi attimi che aveva vissuto con lui, dagli scontri che avevano avuto all’inizio fino alla scoperta di un sentimento profondo, si assopì. Un lieve rumore la svegliò improvvisamente e lei sussultò per lo spavento, Sam era in piedi davanti a lei e la stava studiando, indeciso se svegliarla o meno. Era sudato, i muscoli delle sue possenti braccia erano turgidi a causa dello sforzo, aveva remato ininterrottamente per quasi tre ore.

«E’ partito?» gli domandò lei, lui annuì. Sarah si disse che l’aveva perso davvero, si coprì il viso con le mani e si costrinse a non piangere. «Hai fatto ciò che ti avevo chiesto?»

«Gliel’ho infilato nella borsa mentre lo abbracciavo.»

«Grazie» mormorò lei, poi non aggiunse altro. Il gigantesco uomo di colore capì che voleva stare sola e si allontanò.

Franco alza la testa, si sente stordito. Gli sembra impossibile essere l’autore di quelle pagine, eppure ha appena terminato di scrivere un intero romanzo. Mette distrattamente a fuoco i propri piedi, che penzolano nel vuoto come se fosse la cosa più normale del mondo. Fa leva con un piede sull’altro per sfilarsi le scarpe da tennis già slacciate, scalciando per lasciarle cadere nel vuoto. Una di esse rimane incastrata tra i fili per stendere i panni, due piani più giù, l’altra tocca il suolo dopo un volo di quindici metri e per poco non arriva dritta sulla piccola folla assiepata nel cortile. Franco guarda in basso e si stupisce di come siano piccole le teste dei curiosi, viste da lassù, addirittura più piccole dell’unghia del dito mignolo del suo piede. Un potente sferragliare, misto a un cigolio acuto attira di colpo la sua attenzione. Schermandosi gli occhi con l’avambraccio, per proteggerli dalla luce ancora intensa del sole morente, guarda avanti sé. Stagliata contro la palla rossa, la scala del camion dei Vigili del Fuoco è salita in alto. Adesso sta calando dritta verso di lui, senza fretta, scotendo le fronde dei pini. Per un attimo Franco la trova invitante, gli viene da pensare che forse sta sbagliando tutto. Si dice che magari sarebbe sufficiente che si lasci aiutare e che aspetti l’arrivo di sua moglie. Magari i mostri che ha nella testa scompariranno, improvvisamente come sono venuti, e lui potrebbe riabbracciare i suoi figli. Non li vede da appena pochi giorni ma gli mancavano già terribilmente. L’uomo sulla scala indossa una tuta di colore arancione bordata di strisce fluorescenti, è ancora lontano ma sta già tendendo un braccio verso di lui. Franco scuote la testa, deciso, si sente come avvolto in un invisibile bozzolo di ovatta grigia che lo tiene separato dal resto del Mondo e gli impedisce di vedere chiaramente le cose.

«Vattene, lasciami in pace! Andatevene tutti, ormai è tardi!» grida sbracciandosi, si sbilancia e scivola in avanti. Un capogiro lo fa sporgere eccessivamente, ma un attimo prima di precipitare nel vuoto riesce ad agguantarsi alla ringhiera, rimanendo sospeso nel vuoto, mentre i fogli che ha appena letto vengono portati via da un vento leggero.

«Stai calmo!» gli urla l’uomo sulla scala dopo aver ringraziato il Cielo, lo aveva già visto schiantarsi al suolo. «Tieniti forte e non agitarti, tra un momento sarò lì!»

Un mormorio trepidante si leva dalla strada per salire fino a lui, per un attimo Franco prova la tentazione di lasciarsi andare per cadere addosso a quei maledetti curiosi e spiaccicarne più che può. Ormai sono radunati lì sotto da un pezzo, immobili, attendono come avvoltoi che lui si schianti al suolo oppure che il pompiere lo salvi, per poi applaudire come tanti idioti al circo. Franco li invidia, sa che comunque andranno le cose, per loro ogni soluzione sarà buona. In ogni casa, tornando a casa avranno qualcosa da raccontare e un video da mostrare sullo smartphone. Guardando di sottecchi verso il salone vede la macchina per scrivere, appoggiata sul tavolo. Bella. Immobile. Lucida. E’ maledetta si dice per l’ennesima volta, poi comincia a ricordare.

CAPITOLO II

L’INCIDENTE AL LAVORO

Fine Luglio. Faceva caldo, nel cantiere. Troppo. Gocce scintillanti di sudore si riunivano in rivoli per scendere lungo i dorsi bronzei degli operai, e sulle loro fronti. Da lì scivolavano negli occhi, e bruciavano, e confondevano la vista. Era da poco terminata la pausa pranzo, un panino e una birra consumati all’ombra dei tubi prefabbricati di cemento che trasmettevano un tenue e illusorio senso di freschezza. L’aria era immobile, nonostante ci fossero ovunque uomini indaffarati, il saltuario crepitare del martello pneumatico rompeva un silenzio quasi innaturale. Franco Amore era il consulente tecnico di una azienda che installava infissi e la sua vita scorreva sui binari della tranquillità, senza troppe salite né facili discese. Aveva una moglie giovane con la quale fare ancora progetti e due figli con cui giocare, credeva nel bene e nell’amore, nella forza dei sogni e della fantasia. Per lui erano qualcosa di speciale, era convinto che l’amore sia l’unica cosa che rende veramente libero un uomo, che gli permette di essere sé stesso e di vivere le sue passioni. E ne aveva soprattutto una, di passione: la corsa. Amava correre a piedi nudi sulla sabbia come sull’erba, perché il contatto con il terreno morbido gli dava la sensazione di essere parte di quel mondo, a volte incomprensibile, che gli girava intorno. Il profumo dell’aria salmastra o dell’erba bagnata, respirato la mattina presto, erano per lui inebrianti almeno quanto un buon bicchiere di vino in compagnia degli amici. Come tutti i giorni Franco era sul ponteggio, a controllare che i lavori procedessero secondo le direttive impartite, ma quel pomeriggio percepiva nell’aria qualcosa di strano: il Sole cocente sembrava aver seccato esageratamente le tavole sporche di cemento, i tubi innocenti arrugginiti dell’impalcatura, tenuti insieme dai bulloni di ottone lucido, bruciavano più del solito.

Ancora pochi giorni, poi finalmente sarò al mare. Mi sento un po’ diverso dal solito, ma deve essere per via di questo caldo spietato. Devo resistere ancora un poco, stava pensando per darsi forza, ma appena ebbe terminato di formulare questa riflessione ebbe un giramento di capo. Mise un piede in fallo e cadde giù dal ponteggio.

«Avete preso tutto?» domandò Franco al più grande dei figli mentre li aiutava a caricare le valigie in auto.

«Stai tranquillo,» intervenne sua moglie Silvia anticipando il bambino, «abbiamo controllato tutto almeno dieci volte. È tutto a posto, possiamo dare il via al count-down…»

«E allora perché continuate a perdere tempo? Non voglio che siate ancora per strada quando farà buio!» la rimproverò Franco, lei distolse lo sguardo e sospirò.

«La stiamo tirando in lungo perché lasciarti qui da solo non ci piace, siamo convinti che ti annoierai a morte» gli spiegò leggermente preoccupata lei mentre i figli annuivano.

«Ma quale noia e noia, potete stare certi che qualcosa mi inventerò! E poi intendo approfittare di questi giorni per riposare, gli ultimi tempi al lavoro sono stati davvero duri» replicò lui, ma notò che la sua risposta non li aveva convinti affatto. Allora sfilò dal portabagagli un retino da pesca e mimò la camminata di un vecchio col bastone. «In qualche modo me la caverò, anche se convalescente non sono ancora da casa di riposo» concluse, e finalmente i suoi figli risero. «Forza ora, entrate in macchina e partite!»

«Riguardati, e non fare sforzi, ricorda cosa ti ha detto il dottore» gli ripeté Sissi per l’ennesima volta.

«Stai tranquilla. Appena mi consegneranno i risultati delle analisi salterò sul primo treno e vi raggiungerò.»

«Verrai davvero?» gli domandò Giorgio, il figlio più piccolo.

«Certo che verrò! Cercate di divertirvi e non fate arrabbiare la mamma, e soprattutto non state in pensiero per me» rispose Franco. Poi tornò a rivolgersi alla moglie. «Fai la brava anche tu, vedi di non fare troppe conquiste, al mare. Guida con prudenza e chiamami appena arrivi.»

Un bacio attraverso il finestrino della macchina, una strizzata d’occhio e via. Dopo averli accompagnati con lo sguardo fino alla curva, Franco rientrò in casa.

 

Dunque, vediamo un po’: da mangiare e da bere ci sono, libri e giornali pure. Il frigorifero è ben fornito e le pile del telecomando sono nuove di zecca… dovrei essere a posto per un pezzo. Dopotutto stare un po’ da soli ogni tanto fa bene, chissà quando mi capiterà di nuovo si disse convinto Franco, sforzandosi di trovare l’aspetto positivo della situazione. Ma malgrado tutte le sue buone intenzioni, non ricordava più cosa volesse dire passare un’intera giornata senza scambiare una sola parola con qualcuno. E anche se non osava confessarselo, la cosa lo spaventava un po’. Infatti, proprio come aveva temuto, trascorsi appena due giorni cominciò ad accusare la noia. Era stufo di leggere riviste e aveva fatto il pieno di televisione, era un uomo attivo e non era abituato a stare fermo, specialmente se qualcuno o qualcosa lo aveva costretto. Più di una volta fu tentato di indossare canottiera e pantaloncini per farsi una corsetta, ma i medici glielo avevano decisamente sconsigliato e lui rinunciò, seppure a malincuore. Tentò una serie di telefonate agli amici, ma queste andarono tutte a vuoto perché in piena estate la città si era trasformata in un grande deserto, così la solitudine iniziò a farsi davvero pesante. Una sera, dopo un’altra intera giornata trascorsa a sonnecchiare davanti alla tivù scese in cantina e la mise sottosopra, alla ricerca di qualcosa che lo aiutasse a trascorrere un po’ di tempo. Di colpo notò una macchina per scrivere, era seminascosta in un angolo basso di uno scaffale dietro un mucchio di cose inutili e coperta da un drappo di velluto di colore viola. Era tutta polverosa ed era tanto vecchia che le lettere sui tasti erano ormai quasi completamente cancellate.

Antica com’è deve avere un valore. Chissà come ci è finita, in questa cantina, magari era già qui quando abbiamo acquistato la casa… chissà se funziona ancora.

Felice di aver finalmente trovato qualcosa di quasi interessante a cui dedicarsi, L’indomani Franco smontò la macchina e trascorse l’intera giornata a pulirla, lucidarla e oliarla. Quando ebbe finito di rimontarla, arretrò di due passi per ammirare meglio il risultato del proprio lavoro. E’ proprio bella, ha il sapore delle cose antiche pensò soddisfatto. Immaginò uno scrittore seduto alla scrivania e una casa arrampicata sulla scogliera a picco sul mare, o magari un faro solitario piantato su uno scoglio in mezzo al mare. I cormorani e la luce di una candela, il rumore della risacca.

Chissà quali fantastiche storie hanno scritto con questo oggetto. Adesso che é tornata come nuova mi resta soltanto da collaudarla, fortuna che ho trovato anche i nastri con l’inchiostro in buone condizioni. Infilò un foglio bianco e verificò che tutti i tasti funzionassero. Soddisfatto del risultato si accese una sigaretta e prese una lattina di birra dal frigo, poi andò a stendersi in terrazza su un lettino da campeggio.

Ho fatto proprio un bel lavoro, ma purtroppo il divertimento è già finito. Dovrò escogitare alla svelta qualcos’altro per passare il tempo, altrimenti rischio di ammuffire considerò quasi preoccupato mentre si godeva il fresco della sera. Attraverso le sbarre della ringhiera punteggiate di ruggine osservò i bambini giù nei giardinetti, che correvano qua e là facendo a gara nel catturare lucciole. Lasciò correre lo sguardo sui palazzi, sulle finestre buie, sull’ombra fugace di qualche pipistrello. Infine si fissò ad osservare il cielo stellato mentre il canto dei grilli saliva fino a lui, accompagnando l’odore delle rose appena sbocciate.

Cosa posso fare? Ormai dormo poco, le giornate si stanno facendo sempre più interminabili. Ci penserò domani, adesso è ora di dormire.

Sulla scia delle sue riflessioni rientrò, diretto verso la camera, attraversando la sala passò davanti alla scrivania sulla quale aveva sistemato in bella mostra la macchina per scrivere e si fermò.

«Maledizione, che diavolo succede adesso?» grida il Vigile del Fuoco nella ricetrasmittente, sporgendosi a guardare i suoi colleghi dabbasso. La scala si era bloccata d’improvviso e aveva ondeggiato violentemente, se lui non avesse indossato la cintura di sicurezza sarebbe stato sbalzato giù dal contraccolpo.

«Abbiamo un problema… la cinghia di sicurezza gira a vuoto perché si è allentata una puleggia, mi serve qualche minuto per tirarla e stringere un paio di dadi» gli risponde una voce confusa nel gracchiare della radiolina.

«Qualche minuto? Io non ho qualche minuto, accidentaccio! Se non lo raggiungo subito, quell’uomo si lascerà cadere. Ha lo sguardo allucinato e ha appena gridato come un matto per cacciarmi via, mi sembra proprio che di cadere giù non gliene freghi niente. Vedi di muoverti, e intanto preparate il telone!»

«Il telone non c’è! L’hai mandato in manutenzione ieri, non te lo ricordi?» replica dopo qualche istante la voce dalla trasmittente.

«E nessuno ha pensato a mettere sul mezzo quello di scorta?» chiede incredulo il caposquadra sporgendosi ancora di più dalla scala, per frugare con gli occhi nel vano che solitamente ospitava il telone.

«A quanto pare no. Lo sai, in periodo di ferie c’è sempre confusione» mormora imbarazzata la voce nella radiolina, strappando un’altra imprecazione al Vigile del Fuoco. Torna a guardare l’uomo, che sta inesorabilmente scivolando verso il basso lungo stecche della ringhiera, le sue mani sudano a contatto col metallo e stentano a fare presa.

«Ehy» gli grida, Franco si volta a guardarlo distrattamente.

«Ehy, amico! Non mollare. Hai capito? Non mollare, mi raccomando. Tra poco sarò da te, devi soltanto tenere duro un altro po’. Tieni duro ancora un po’!» gli ripete, ma Franco non lo ascolta nemmeno. Gli risponde con un sorriso vago e incomprensibile, poi torna a fissare la macchina per scrivere e la pila di fogli dattiloscritti accatastati al suo fianco, il portacenere traboccante e la sedia girata con lo schienale verso la scrivania.

E’ cominciato tutto quella sera, quando mi sono seduto a quella dannata scrivania riprende a ricordare, mentre inconsapevolmente stringe forte le mani alla ringhiera viscida per non cadere.

Si, non c’è altra spiegazione: la macchina è maledetta…. e ormai è tardi… la punizione….

CAPITOLO III

LA PRIMA PAGINA

Quasi inconsciamente, come guidato da una forza misteriosa, Franco tolse il foglio imbrattato che aveva usato per provare la macchina e ne inserì uno pulito. Lo centrò per bene e cominciò a battere goffamente sui tasti, ripensando alla vista di cui si era compiaciuto poco prima.

CAPITOLO I (LA CASA DI CARPETTI)

Il cielo della sera era tanto pulito che le stelle si potevano quasi contare una ad una, mentre una mezza Luna affilata e lucente sembrava appesa a un filo invisibile, che andava a perdersi nell’infinito. Dalla finestra al terzo piano di un palazzone di periferia si notava, riflesso sulle tende, il baluginare delle immagini di un televisore. Era piccolo, in bianco e nero, di quelli rivestiti di plastica bianca con la classica antenna circolare attaccata sopra in modo sbilenco. Era poggiato sopra un massiccio mobile di colore marrone scuro, sul quale il tempo aveva impresso segni prepotenti. Accanto, una brutta statuetta di terracotta raffigurava chissà quale divinità africana.

Però, come inizio non è niente male. forse ho finalmente trovato la maniera di ingannare il tempo, si disse Franco rileggendo quello che aveva appena scritto. Ma dopo diversi fogli gettati nel cestino, e un altro paio di birre, allontanò la macchina per scrivere e si strofinò gli occhi, poi si alzò con uno scatto stizzito. Guardò l’orologio e decise di andare a dormire perché era già a corto di idee, come tutte le sere si addormentò con il pensiero rivolto alla moglie e ai bambini.

Le prime di lame di luce che filtravano dalle persiane lo sorpresero a fissare il soffitto, aveva un’espressione leggermente preoccupata sulla faccia dalla barba già un po’ troppo lunga.

Accidenti alle buone abitudini, non posso continuare a svegliarmi così presto! Se mi alzo adesso cosa mi metto a fare? si disse preoccupato. Allungò un braccio verso il comodino, prese l’ultima sigaretta dal pacchetto vuoto e lo accartocciò. Lo gettò a terra e guardò la piccola montagna di spazzatura che si era formata ai piedi del letto, si domandò se avesse voglia di raccoglierla e di andare fino in cucina per buttarla nella pattumiera. Si rispose di no con un’alzata di spalle e mise la sigaretta in bocca, si lasciò ricadere pesantemente e una volta disteso cercò di resistere alla tentazione di accenderla. Sto fumando troppo, è colpa della noia. Vorrei uscire un po’, ma con questo caldo devo essere prudente. Anche se si è trattato solo di un banale malore, non voglio rischiare di dover allungare questa convalescenza. I passerotti appostati sui cornicioni stavano salutando l’arrivo del nuovo giorno con una bella melodia e da là osservavano i movimenti giù in cortile, sapevano che di lì a qualche minuto l’anziana signora avrebbe buttato dalla finestra la loro colazione. E’ inutile, non riuscirò mai a riprendere sonno… è meglio se mi alzo si rassegnò dopo aver sperato per un po’ di riuscire a riaddormentarsi. Intanto, un senso di inquietudine si stava lentamente ma prepotentemente impadronendo di lui, aveva come la sensazione di aver lasciato qualcosa a metà ma non riusciva a ricordare cosa. Poco dopo era di nuovo seduto davanti alla macchina per scrivere con la sigaretta ancora spenta in bocca. Guardò a lungo la macchina, incerto, domandandosi se era davvero in grado di scrivere una storia. Squillò il telefono, quel suono improvviso a rompere il suo tentativo di concentrarsi lo disturbò. Per qualche istante pensò di non rispondere.