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La plebe, parte II

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Si tacque un momento quasi cercando le parole con cui aveva da esprimersi; poi crollando lievemente la testa con atto pieno di grazia e d'abbandono e sorridendo di quella sua guisa gentile ed amichevole, soggiunse:

– Io non ho autorità nè influsso di sorta presso nessuno degli alti funzionari che regolano a lor posta lo Stato, anzi sono loro grandemente in uggia ed in sospetto, e una parola mia farebbe peggio; non è quindi a nessuno di essi che penso indirizzarmi. Dacchè sono in Torino, quest'ultima volta, ho sempre pensato di domandare un'udienza al Re; ora le cose sono ad un punto che la desidero e la stimo necessaria più che mai. Domanderò sollecitamente questa udienza, e per essere sicuro del fatto mio, la domanderò per mezzo del marchese di Baldissero, il quale, benchè di opinioni affatto contrarie alle mie, mi stima, e cui io stimo oltre ogni dire. Al Re francamente, insieme con tutte le altre cose che voglio dire, parlerò dei suoi amici, signor Romualdo, e spero di ottenere dal cuore di Carlo Alberto la più clemente risposta.

– E non si può dubitare dell'esito: proruppe Romualdo con un calore contenuto che era un entusiasmo di buona lega frammisto a riconoscenza. Ella avrà tolto dalle angustie la famiglia di Benda, avrà salvata quella di Vanardi; avrà conservato all'Italia dei giovani che son pronti a dare per essa, quandocchessia la vita…

Qui si fermò ad un tratto, e chinò gli occhi con aspetto dubbioso ed esitante, come chi vede affacciarglisi ad un tratto una difficoltà od uno scrupolo di molta rilevanza.

– Ma, soggiuns'egli tosto di poi con accento privo della foga di poc'anzi, ma non di una certa dignitosa sincerità, sollevando di nuovo gli occhi sull'Azeglio che lo guardava sempre con quella sua attenzione benignamente osservativa: ma supplicare di grazia Carlo Alberto, noi… imperocchè gli è come se noi medesimi lo supplicassimo… noi che in realtà congiuriamo a suo danno e vogliamo abbattuto il suo governo che stimiamo avverso ai destini ed ai diritti della nostra patria!.. Lo dobbiamo noi? Lo possiamo in coscienza?..

Massimo d'Azeglio prese vivamente la mano del giovane e la strinse nella sua.

– Bravo! Esclamò. Ecco uno scrupolo che mi piace.

– E poi, continuava Romualdo, l'avere dal Re una grazia anco a quel modo ottenuta, non implicherebbe un tacito impegno da parte nostra di rinunziare ai nostri propositi e disegni? E noi ciò non possiamo fare a niun modo. Un giuramento solenne, e più ancora le nostre convinzioni non ce lo permettono. Fino alla morte, con ogni mezzo che ci si presenti, noi dobbiamo e vogliamo adoperarci per la libertà e per l'indipendenza d'Italia…

– E va benissimo: interruppe con vivacità l'autore di Niccolò de Lapi. E ciò dovete fare, e farete, ci conto su. Ma la questione sta nei modi di questo adoperarvi per la santa causa della patria. Certo riavendo da Carlo Alberto la libertà tolta loro dalla sua Polizia, i vostri amici non dovrebbero più vagheggiare nè tentare impresa nessuna che fosse contro la persona o lo scettro di quel Re… Io non voglio saper nulla dei vostri attuali progetti; ma conosco abbastanza le follie e le illusioni di quel partito a cui in disperazione d'altro mezzo avete dato il nome, per esser certo che voi scambiate per attuabili delle chimere impossibili. Non vi domando in nessuna guisa una promessa di rinunziare a quei pazzi disegni di cui le circostanze medesime vi mostreranno l'assoluta vanità. Sono sicuro che a quei propositi vi siete appigliati perchè non vedevate altro modo di agire in pro della libertà: quando io stesso vi possa additare un mezzo più sicuro e più leale da ciò, confido che voi l'adotterete eziandio, rinunciando alle tenebrose congiure.

– Questo mezzo, disse allora Romualdo, è certo quello di cui Ella ha già tenuto discorso a Mario: procedere verso l'indipendenza d'accordo coi Principi, ottenendo da loro medesimi a spizzichi la libertà.

Azeglio fece un cenno affermativo.

– Gli è quello, rispose, e primo fra i Principi in questa strada spero si possa ottenere Carlo Alberto.

– Ma chi si fida di lui? Chi può credere in esso?

– Vi domanderò di credere non alle sue parole, ma alle sue opere… Senta, signor Romualdo: nell'abboccamento ch'io avrò col Re, il primo argomento del mio discorso non sarà quello dell'arresto de' suoi amici; gli parlerò delle condizioni, dei bisogni, dei desiderii d'Italia, delle speranze e delle aspirazioni di quel gran complesso di spiriti liberali che si viene formando per tutta la penisola, il quale non è più una congiura che si nasconda, non è più una setta, nè manco un partito, ma può dirsi ed è la opinione pubblica, che dalla sua universalità, dalla più chiaramente acquistata coscienza dei suoi diritti, viene prendendo il coraggio di manifestarsi all'aperta luce del giorno. Gli è di questo coraggio che abbiamo bisogno in Italia, più che di quello di cimentare la libertà ed anco la vita in cospirazioni segrete, cui forse la pura ed assoluta morale non approva nemmeno; gli è questa massa di tranquilli patrioti palesi che dobbiamo adoperarci ad accrescere con una legale ed onesta propaganda negli scritti, nei discorsi, in ogni attinenza nostra; perchè accrescendo questa massa aumenteremo sempre più la forza che ha da spingere sulla strada del patriotismo i Principi colle loro forze già belle e ordinate, senza bisogno di convulsioni, di guerra civile e di danni di nessuna specie. Parlerò adunque di codesto al Re, e lo metterò, come si suol dire, fra l'uscio e il muro, per non uscire di là, altrimenti che con una parola definitiva. Se questa sarà qual'io la desidero, e la spero, allora ogni opera di congiura sarà non che inutile, dannosa; e credo abbastanza nel vostro patriotismo per essere certo non la vorrete proseguire; allora non esiterò a chiedere a Carlo Alberto di rimandar liberi que' giovani che domani avrà di certo suoi soldati nella lotta dell'indipendenza. Se invece dalle risposte del Re non avrò la certezza della sua compiuta adesione al nuovo programma nazionale che io gli esporrò in tutti i suoi particolari, allora taccio affatto de' suoi amici e lascierò le cose alla salvaguardia della Provvidenza. Questo proposito le va?

– Compiutamente: rispose Romualdo con accento in cui erano riconoscenza insieme ed ammirativa adesione. Guardi, signor marchese…

Azeglio lo interruppe sorridendo:

– Ah! lasci stare il marchese, la prego. I miei buoni amici, i popolani di Roma, mi chiamavano sor Massimo; è il modo con cui mi piace di meglio sentirmi a chiamare.

Romualdo s'inchinò.

– Quando Ella ci dica: sul mio onore potete fidarvi di Carlo Alberto, noi ci fideremo.

Massimo rimase un istante in silenzio, quasi come se fosse perplesso. Poi scosse la testa, si alzò e recossi alla finestra, dove si pose a guardare fiso verso il palazzo reale.

– Potrò io darvi quest'assicurazione? Là dentro, fra quelle muraglie laggiù, alberga una sfinge che tiene in pugno i destini d'Italia. Varrò io ad esserne l'Edipo? Uscirà essa, questa sfinge, dal suo cupo silenzio o dal dubbio linguaggio?.. Vedremo. Ad ogni modo una cosa posso accertarle: ed è che non sarò ingannatore altrui che ingannato io stesso… ed ho già visto abbastanza di cose e conosciuto di uomini al mondo, per non lasciarmi così agevolmente ingannare.

Romualdo, dopo molti altri discorsi coll'illustre cittadino, uscì da quella modesta camera di locanda più ammiratore e più fiducioso che mai dell'intelligenza, del cuore e del carattere di Massimo d'Azeglio.

CAPITOLO XX

Il medichino, colle buste dei diamanti della contessa di Staffarda sotto il suo mantello, era giunto all'uscio chiovato di ferro dell'abitazione di Nariccia. Giusto che stava per suonare il campanello, un battente dell'uscio si socchiuse e comparvero in quella penombra la faccia pienotta, rubiconda ed ilare di Padre Bonaventura che usciva, e quella terrea, umile e scura del padrone di casa che lo accompagnava fin sul pianerottolo della casa.

Essi continuavano un discorso che all'accento delle loro voci ed all'espressione degli sguardi onde lo accompagnavano doveva dirsi per loro interessantissimo, e Gian-Luigi potè udire le seguenti parole pronunziate dall'usuraio al frate:

– Sì, reverendo. Ella ha dato alla Gattona il miglior consiglio che sia del caso… Io non penso che quel giovane abbia ad essere ciò che il suo nome e quell'oggetto farebbero sospettare… Ho delle buone ragioni per credere che quello là non esiste più… Ma non importa: è meglio cercare di saperne alcun che di preciso, tanto più per riguardo di me che ci ho, più che interesse, alcun rischio da correre… Dunque la ringrazio ad esser venuto subito a pormene in sull'avviso e accetto affatto il suo suggerimento: non dir nulla e far agire con prudenza la Gattona, per aspettare di poi a prendere una risoluzione a cose meglio chiarite. Chi sa che non ci sia poi in codesto qualche buon mezzo di nostro vantaggio!..

Vide in quella nello scuriccio del pianerottolo staccarsi dal fondo nero della scala che si affondava al di sotto la figura d'un uomo che s'accostava.

S'interruppe sollecitamente, dicendo:

– Ah c'è qualcheduno qui; ed aguzzò i suoi occhietti birci per conoscere chi fosse il nuovo venuto.

– Buon giorno, Nariccia: disse Gian-Luigi, abbassando la falda del mantello onde si copriva la parte inferiore del volto: sono io.

– Ah ah! siete voi, dottore: esclamò Nariccia. Gli è di me che cercate?

– Appunto. Ho bisogno di parlarvi.

– Io vi lascio colla buona ventura; disse colla voce melliflua che gli era abituale il gesuita; e Dio vi tenga nella sua santa grazia.

– Amen: rispose tutto compunto l'usuraio torcendo il collo: mi raccomando alle sue preghiere, reverendo.

Padre Bonaventura fece un movimento colla mano che tramezzava fra un segno d'addio ed un atto di benedizione sacerdotale, e s'avviò senz'altro giù della scala.

 

– Venite avanti, dottore: disse allora Nariccia a Quercia, levandosi di mezzo ai battenti per lasciarlo passare, ma rimanendo lì presso l'uscio colla mano sulla serratura per esser egli a chiudere l'imposta quando l'altro fosse entrato. È forse cosa di premura quella che mi avete da dire?

– Sì, piuttosto: rispose Gian-Luigi penetrato nello scuro andito che conduceva alle diverse stanze del quartiere.

– Allora, soggiunse Nariccia, il quale chiudeva intanto la serratura colla chiave a doppia mandata, e faceva scorrere un paletto dall'una all'altra imposta dell'uscio; allora vi darò udienza subito.

– Mi farete piacere.

In quella, Nariccia che aveva finito di serrare, si voltò verso l'interno dell'appartamento; ma in quel moto fatto un po' in fretta, sembrò che un capogiro lo prendesse; gli occhi gli si appannarono, le gambe parvero mancargli sotto, le guancie gli si arrossarono e poi impallidirono subitamente, ed egli si tenne al muro del corridoio quasi temendo cadere.

– Che cosa avete? Gli domandò Quercia che vide codesto.

L'usuraio si era già compiutamente rimesso.

– Nulla, nulla, rispose. Gli è da qualche giorno che mi piglian così delle vampe al capo, e mi sento come a girare il cervello.

– Uhm! disse Quercia esaminandolo, alla vostra età, colla vostra complessione, codeste non son cose da non farci attenzione. Sono venuto a trovarvi come avventore; ma credo che fareste assai bene ad accettarmi anche come medico…

Nariccia ebbe di subito paura che Gian-Luigi colle sue cure da medico intendesse ripagato di poi quel servizio che veniva a domandargli; e siccome ciò non gli piaceva niente affatto, fu lesto a rispondere:

– Vi dico che non è nulla e ch'io non ho bisogno di nessun medico.

– Tanto meglio!

Quercia era giunto all'uscio che metteva nello studiolo dell'usuraio, ed alzò la mano alla gruccia della serratura per aprirlo.

– No lì: disse sollecitamente Nariccia, trattenendolo. Costì c'è un altro che è venuto testè per parlarmi eziandio, ed è affatto inutile che vi vediate reciprocamente.

Gian-Luigi si ritrasse con premura da quell'uscio ed abbassò la voce di cui sino allora aveva usato nel suo tono naturale.

– Avete ragione, disse, m'è più caro non esser visto.

– Venite dunque nella mia camera: soggiunse l'usuraio, e poichè mi dite che sono cose di premura quelle onde volete discorrermi e siete un vecchio amico, darò a voi la precedenza, e farò ancora aspettare quell'altro.

Introdusse il medichino nella sua fredda camera in cui non una favilla di fuoco a temperarne la gelata atmosfera; gli additò per sedere una semplice seggiola col piano poveramente impagliato, e presane una pari sedette egli stesso in faccia al suo visitatore.

Alla luce, che era maggiore in quella stanza che non nel corridoio, Gian-Luigi vide nel volto di Nariccia certi indizi che, per quanto poco foss'egli addentratosi nello studio della medicina, eragli facile conoscere come sintomi di un male minacciante.

– Nariccia, diss'egli osservandolo bene, la vostra indisposizione non è poi tanto quel nulla che voi credete. Se voi mi date retta vi farete fare qualche cosa.

L'usuraio fece un sogghigno che voleva essere malizioso, e crollò le spalle.

– Ecco lì! I medici vogliono sempre trovar dei malati, come gli avvocati vogliono farvi litigare.

– Rassicuratevi: disse Quercia che comprese il segreto sentimento del suo interlocutore. In me vedete tutt'altro che un medico in cerca d'un cliente. Sapete bene ch'io non esercito la professione. Posso dar qualche consiglio gratuitamente (e pesò sulla parola) ad un amico, ma non mando mai nessuna lista di visite a chi abbia avuto tanta fiducia in me da consultarmi.

Nariccia accostò la sua seggiola al dottore.

– Bravo! Diss'egli. È quello che ci vuole per me. Io non sono mica – grazie a Dio ed alla Madonna della Consolata – così malato da aver bisogno d'un medico; ma tuttavia il vero è che da un po' di tempo mi sento così, tutto stonato, e che qualche buon consiglio d'uno che se ne intenda mi può venire molto a taglio.

Gian-Luigi prese il polso dell'avaro, ne esaminò la lingua, gli fece trarre il respiro con forza, e poi gli disse freddamente:

– Mio caro, voi siete minacciato niente meno che d'un colpo apoplettico.

L'usuraio fece un sobbalzo sulla seggiola e il volto gli s'impallidì sotto la tinta terrea della sua carnagione.

– Un colpo apoplettico! Esclamò egli con voce mal ferma… La Santa Madonna del Carmine mi tenga lontana una tanta disgrazia!.. Dite voi per davvero?

– Davverissimo! Voi avete dalla natura le più belle disposizioni del mondo per avere un accidente, e la vita che fate è adatta a bella posta per aiutare quelle disposizioni…

– Come! La vita che faccio? A me par tutt'altro. I colpi apoplettici vengono a quelli che si nutriscono di robe grasse e sostanziose, che son ghiotti! ed io invece non uso che i più frugali cibi…

– Sì, delle porcherie, le quali non vi procurano altro che cattive digestioni, e queste son quelle che vi giuocheranno un giorno o l'altro qualche brutto tiro. Tutti gli eccessi non valgono nulla per la salute, e se i ghiotti si rovinano per eccesso di cose nutritive, voi vi rovinate per l'eccesso contrario, caricando il ventricolo d'una massa di alimenti poco acconci ad una buona e normale nutrizione. E poi, vi par egli alla vostra età di dover aver così poco riguardo a voi stesso? Siete sempre chiuso in questo antro mefitico, e qui dentro, affè di Dio, vi si gela come in una ghiacciaia…

– Io non patisco il freddo: perchè avrei da gettare via i denari per abbruciar della legna?

– Non patite il freddo! Bravo! Ma intanto questa temperatura da Siberia vi restringe di troppo il sistema venoso, la circolazione del sangue si fa impacciatamente, e nulla favorisce di più le congestioni. Voi siete minacciato da un travaso nel cervello.

– Misericordia!.. E che cosa fare per antivenirlo?

– La miglior cosa sarebbero due buoni salassi, quanto meno un'abbondante operazione di mignatte.

Nariccia scosse la testa con risoluta negazione.

– Siete pazzo? Mettermi a letto e starci parecchi giorni in questa fine del carnovale, in cui c'è tanto da fare e c'è il mezzo di guadagnare qualche cosa… Ditemi qualche altro rimedio più conveniente ai miei interessi.

– Ah! se preferite gl'interessi alla salute…

– Che? Non ci sarebbe un altro mezzo?

– Così sicuro, no; ma tuttavia una certa diversione potrebbero farla degli attivi purganti.

– A questo posso acconsentire. Sì… scrivetemi voi una brava ricetta che mi faccia proprio bene… S'intende che la scrivete come amico, non è vero?

– Sì, sì, state tranquillo; rispose Quercia ridendo; non manderò per essere pagato.

Si alzò, depose sopra un tavolino le buste che teneva sotto il mantello e scrisse un'ordinazione. Gli occhi di Nariccia si posarono curiosi ed interrogativi su quelle buste coperte di marocchino rosso ornato di filetti d'oro con impressovi in oro eziandio uno stemma ed una corona comitale.

La sua curiosità non potè frenarsi: tese egli una mano con una mossa avida e riguardosa nello stesso tempo, da paragonarsi a quella del gatto che colla zampina cerca levare il marrone dal fuoco, afferrò la più grossa di quelle buste e l'aprì. Una voce di stupore e d'ammirazione uscì dal suo petto quasi involontariamente.

– Che magnifici diamanti! Esclamò egli mentre i suoi occhi scintillavano come se la luce di quegli stupendi brillanti si ripercotesse nelle sue pupille.

Gian-Luigi alzò con calma il capo, guardò freddamente Nariccia e disse col più semplice tono di voce:

– Gli è appunto di ciò che son venuto a parlarvi.

E continuò a scrivere la ricetta. Quando ebbe finito la porse all'usuraio dicendogli:

– Prendete subito questa roba, oggi stesso, e spero ne avrete giovamento.

– Sì, grazie: rispose Nariccia, prendendo la carta dalle mani del medichino; ma i suoi occhi birci erano sempre fissi sul luccicar dei diamanti, e la sua salute in quel momento gli era quello a cui pensava di meno.

– Non è vero che sono stupendi? Disse Quercia con tutta indifferenza.

Ma sul primo effetto, cui non era stato capace di padroneggiare, Nariccia aveva già fatta prevalere la riflessione. Il medichino gli aveva detto che di ciò appunto era venuto a parlargli. Certo trattavasi di qualche transazione in proposito. Il mercatante, no, dirò meglio l'usuraio, aveva già preso il sopravvento, e fu con tono reso affatto impassibile che Nariccia rispose:

– Mi par veramente che sieno belli, ma questa non è la mia partita: io non me ne intendo di molto, e non potrei portarne un giudicio proprio esatto.

– Lasciate un po'; voi ve ne intendete benissimo, e siete maestro anche in questa come in tante altre materie… Aprite, aprite tutte quelle buste, contemplatene a vostro agio il contenuto, e quando vi sarete fatta un'idea del valore di questo tesoro che vi ho recato, allora vi esporrò la proposta che sono venuto per farvi.

Nariccia, ora compiutamente padrone di sè e in sull'avviso per dissimulare le impressioni che la vista di sì ricchi brillanti produceva in lui, aprì con calma gli astucci e guardò con freddezza tutti quei diamanti che luccicavano di mille fuochi anco nella penombra di quella stanza a stento illuminata dalla luce grigiastra della giornata nevosa.

– Che cosa ne dite? Domandò di poi il medichino che teneva i suoi occhi ardenti fissi sul volto impassibile dell'usuraio. Che valore assegnereste a questo tesoro?

– Ma! Esclamò Nariccia facendo spalluccie. Se fossero tutti veri…

– Ne dubitereste?

– Allora potrebbero benissimo valere parecchie decine di mila lire…

– Delle decine! Proruppe Quercia con voce concitata. Siete proprio sempre quel medesimo!.. Dite delle centinaia…

– Oh oh! delle centinaia… Non esagerate.

– Vi dico di sì… Non c'è manco la regina che ne abbia dei più belli.

– Uhm!.. Ma veniamo a noi… Qual è questa proposta che siete venuto a farmi?

– Ho bisogno urgente di cinquanta mila lire.

A queste parole l'usuraio cristiano fece il medesimo sobbalzo quasi spaventato che aveva fatto l'usuraio ebreo.

– Dio buono! Cinquanta mila lire!..

– Solamente per pochi giorni… Voi ci metterete il tasso che più vi piace e vi lascierò in pegno questi diamanti.

– Per quanti giorni?

– Fino a lunedì mattina… Allora verrò infallantemente a riprenderli e a riportarvi il vostro denaro.

– Cinquanta mila lire, affè, sono troppe… Ve ne darò trenta mila coll'interesse di 50 lire per giorno.

– Ne ho bisogno di cinquanta mila.

Nariccia prese di nuovo in mano una busta dopo l'altra ed esaminò attentamente i gioielli.

– Ve ne do quaranta mila.

– No: disse allora seccamente il medichino alzandosi. Se non volete far voi questo affare, ne troverò millanta altri che vi acconsentiranno con premura.

E tese una mano come per serrare gli astucci e riprenderli.

– Un momento! S'affrettò a dire Nariccia. Gli è solamente fino a lunedì che me li lasciereste in pegno?

– Sì.

– E mi paghereste 100 lire al giorno d'interesse?

Gian-Luigi fece un sogghigno di disprezzo e mormorò in mezzo ai denti:

– Ladro!

Ma Nariccia mostrò di non aver udito.

– Ve li pagherò; disse di poi Quercia con brusco accento.

– S'intende che dopo il lunedì, se tardate a venirmi a restituire la somma e pagare il totale degli interessi, ad ogni giorno che passerà, saranno altre 100 lire che s'aggiungeranno al vostro debito.

Il medichino fece con impazienza un cenno affermativo.

– Ed io non vi ritornerò neanche il menomo di questi astucci, finchè non mi avrete pagato in totalità capitale ed accessorii.

– Ma sì, ma sì… Finiamola per amor del cielo!..

– Va bene, va bene… Vo di là un momento e torno subito.

Nariccia prese il maggiore degli astucci che conteneva un bellissimo diadema e si mosse per uscire; ma Gian-Luigi l'arrestò per un braccio.

– Dove portate voi quella busta?

– Di là… un momento: rispose l'usuraio, facendo guizzare a destra e a sinistra i suoi occhietti balusanti.

– Per che cosa farne? Tornò a domandar Quercia non lasciandogli libero il braccio.

– Così… per osservarli meglio, da me solo… a un'altra luce…

– Voi volete farli vedere a qualcheduno?

Nariccia esitò un momentino, e poi credette più spediente il confessare il vero.

– Ebben sì… Ve l'ho già detto ch'io non mi intendo abbastanza di queste cose… E capirete che per avventurare una somma simile, ho piacere di essere completamente assicurato sul valore del pegno che mi viene offerto. Per fortuna quell'altra persona che mi attende di là, è appunto uomo competentissimo in siffatta materia…

 

Quercia lo interruppe con molta vivacità.

– Ma io non voglio che nessuno li veda fuori di voi…

– No? Disse lentamente e con sospetto Nariccia, deponendo sulla tavola l'astuccio. Riconoscete che questo vostro desiderio non è fatto per rassicurarmi di molto. Nella nostra professione, mio caro, la prudenza non è mai troppa, e se voi non acconsentite a codesto, vi dico in verità che non vi ha nulla di fatto.

Gian-Luigi lasciò scorgere qualche esitazione.

– Se questi diamanti sono davvero quel che voi dite, io vi porterò subito di qua le 50 mila lire: soggiunse Nariccia con tono insinuante.

Quercia diede una scrollatina di spalle che mostrava i suoi scrupoli essere passati.

– Va bene: finì egli per dire. Non temo nulla dall'esame di chicchessiasi; ma soltanto vi prego di levarli dalla busta; non c'è nessuna necessità che si veda questo stemma e s'indovini a chi appartengono.

– Avete ragione.

Nariccia levò dagli astucci i pezzi principali e li recò nel suo studio, dove stava aspettando quell'altra persona ch'egli aveva detto.

Il caso aveva voluto che quello fosse appunto un gioielliere, il sig. X, il quale da canto suo, trovandosi in urgente bisogno di denaro, era venuto da Nariccia per un'operazione uguale a quella che ci aveva condotto il medichino, recando egli eziandio da sua parte per pegno alcuni gioielli del suo fondaco.

L'usuraio pose sotto gli occhi del gioielliere i diamanti che aveva recato, e domandogli bruscamente:

– Che cosa ne dite di questa roba?

Il sig. X fece un atto di meraviglia:

– Cospetto! Quei diamanti li riconosco; sono quelli della contessa di Staffarda.

– Ah sì?

– Di certo. Sono il suo gioielliere io, e non è guari ch'ella me li ha dati tutti a ripulire e riattare.

– Benone! Allora voi sapete appuntino quanti astucci ella ne abbia e di quanti pezzi consti tutto il corredo completo.

– Perfettamente.

– Ditemeli un po'.

Il gioielliere fece l'enumerazione e la descrizione di tutti i pezzi, e Nariccia fu chiaro che Quercia glie li aveva recati tutti per davvero.

– E il valore complessivo di tutto quel corredo quale pensate voi che possa essere?

– Affè! se lo si volesse vendere, e ch'io ne avessi i denari, non esiterei a darne duecento mila lire, sicuro di fare un buon contratto.

Nariccia non potè contenere un sorriso.

– Eh eh! si lasciò scappar detto. Io l'avrò forse ad un quarto soltanto di questa somma.

– Come! Si decidono a venderlo per sole 50 mila lire?

– A venderlo no: me lo danno in pegno soltanto; ma prima che chi mi reca questo pegno abbia in suo potere una somma sufficiente da ripagarmi capitale ed interessi, son certo che ce ne passerà dell'acqua sotto il ponte di Po.

– Ho capito… E chi vi ha recato questo pegno è il dottor Quercia.

– Siete un bravo indovino!

– Ci ho poco merito. Ne ho udita la voce testè quando si è accostato alla porta di questa camera… E le sue intime relazioni con quella povera contessa, tutti le sanno.

– Non occorre, spero, che vi raccomandi il segreto.

– Figuratevi!

Nariccia tornò presso Gian-Luigi colle cinquanta mila lire in denaro sonante.

Abbiamo visto come l'usuraio faceva i suoi conti che quegli stupendi diamanti mai più gli si sarebbero potuti levar dalle unghie: da parte sua il medichino, uscendo di quella casa colle tasche piene d'oro, così la pensava seco stesso:

– Domenica sarà il giorno della gran crisi. La mi va bene, ed allora Candida non avrà più bisogno de' suoi diamanti pel ballo di Corte, e Nariccia avrò mezzo di fargli rendere quel tesoro e imporgli silenzio senz'altro per tema di peggio; o la mi va male, ed allora, allora affè un'oncia di piombo nella testa, e buona notte ai suonatori. S'aggiusti chi resta.

Recossi in casa di fretta per riporvi i denari; e là trovò Romualdo, il quale, dopo l'abboccamento con Massimo d'Azeglio, secondo le istruzioni avute da Mario, era venuto a cercare di lui e impazientemente stava aspettandolo.

Gian-Luigi lesse le poche parole scritte dall'emigrato romano, udì la narrazione dell'arresto avvenuto di quest'ultimo fatta da Romualdo, e in brevi detti promise si sarebbe adoperato a vantaggio dell'arrestato, ed avrebbe di sicuro ottenuto non fosse provata la sua identità.

Romualdo partissi; Quercia ripose i denari avuti da Nariccia in un cassettino segreto del suo stipo, trasse da quel luogo medesimo un involto di letterine profumate, la cui calligrafia rivelava la mano d'una donna, e con esse s'avviò alla casa della Leggiera.

La cortigiana era scesa allor'allora da letto ed avvolta in una magnifica veste di lana di Persia ovattata e foderata di seta color di rosa, stava sdraiata mollemente nella calda e voluttuosa atmosfera dello stanzino riposto, dove non accoglieva che gl'intimi amici.

Noi sappiamo già che un alto personaggio era stato a toglierla dal dorso nudo del cavallo nel circo per allogarla in quella sontuosità di appartamento nell'onorevole qualità di sua mantenuta. Questo alto ma poco stimabile personaggio era un Principe appartenente ad una famiglia regnante in Italia, il quale viveva allora alla Corte del Re di Sardegna, seminando di tollerati scandali il severo e bigotto ambiente della Reggia di Carlo Alberto; Principe di animo poco nobile e di costumi corrottissimi, che traditore alla causa della patria ed a Carlo Alberto suo benefattore nel tempo della guerra dell'indipendenza, messo di poi sopra un trono grande come un guscio di castagna dalla riazione del 1849, si divertiva a far da piccolo Tiberio, o meglio da Alessandro Farnese sui suoi sudditi, finchè cadde estinto senza lagrime di nessuno sotto il coltello di un regicida.

Non era lungo tempo che l'augusto e spregevole personaggio erasi partito dall'alcova della cortigiana, quando il medichino, del quale i servi conoscevano i privilegi, era lasciato entrare liberamente nel gabinetto dell'antica amazzone da circo equestre.

Al vedere il giovane, la donna mandò un gridolino di gioia e si sollevò alquanto sui cuscini con cui rifiancava la sua abbandonata persona sopra il sofà.

– Ma bravo, ma bravissimo! Esclamò essa battendo insieme le mani. T'è proprio nata un'idea felice a venir qui in questo momento… Ho avuto una lunga conferenza, troppo lunga, col Prince charmant (così chiamava essa il Duca che sciupava intorno a lei i denari dei contribuenti), e mi ha stanca colla sua nullità principesca. Ho le ganascie che mi dolgono dagli sbadigli rientrati; mi sento bisogno di rifarmi un poco lo spirito, l'umore… e il resto: e tu sei l'uomo apposta.

Lo sguardo provocatore e il sorriso procace accompagnavano acconciamente le folli parole.

Ma l'aria preoccupata di Gian-Luigi e la sua seria risposta non si acconciarono al tono con cui la Leggera aveva incominciato il colloquio.

– Mia cara, diss'egli colle sopracciglia aggrottate: io mi trovo in gravissime circostanze, in cui si decide o la mia perdita assoluta, od uno splendido trionfo… E tu puoi aiutarmi.

Zoe sorse di scatto, e fu presso a lui, fattasi seria essa pure, mettendogli una mano sulla spalla e fissandolo coll'ardente pupilla del suo occhio d'un grigio verzigno.

– Si tratta di quell'impresa, di cui tu mi hai confidato i propositi e mi hai divisato in nube le fila?

– Sì.

Gli occhi della donna s'illuminarono d'una strana fiamma, vivace ed intensa.

– Tu sai che per essa io sono pronta a dare tutto che posseggo e tutta me stessa… Tu sai che gli è appunto per quei tuoi disegni che tu piacesti supremamente all'anima mia, che vincesti il mio fiero disprezzo degli uomini, che mi hai legata a te corpo ed anima, e per sempre; tu sai che per ciò, più che per ogni altra cosa, io che non ho amato mai nulla, ti ho amato e ti amo… Parla, comandami, ed io farò tutto quello che vuoi.

– La Polizia pare aver avuto qualche sentore dell'opera nostra; ha posto gli artigli sopra alcuni che senza saperlo lavorano pel nostro successo, me stesso circonda di certe fila di cui sembrami tenti farmi intorno una rete da impigliarmivi. Qualche sospetto incomincia ad esser nato che il misterioso capo di quella schiera di ribelli alla società onde si spaventano i sonni dei felici gaudenti dell'oggi, possa esser io, perchè un accorto esploratore viene frequentando la taverna di Pelone, e quel medesimo, ne son certo, ha proceduto all'arresto di coloro che t'ho detto, e tutt'oggi me lo trovo pertinace seguitatore tra i piedi. Venendo da te, qui sotto le tue finestre, l'ho trovato ancora, come segugio che attende la cacciagione alla posta. Tutto m'indica, e più d'ogni altra cosa l'istinto, che quello è un pericoloso e risoluto nemico di cui bisogna sbarazzarci.