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La plebe, parte II

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Gian-Luigi s'accostò alla finestra e rimosse la tendolina per guardare nella strada sottoposta.

– Ed eccolo ancora là, soggiunse, i suoi occhi grifagni fissi precisamente sulle tue finestre.

Zoe accorse ancor ella presso i vetri ed appoggiandosi con mossa amorosa a Gian-Luigi, guardò nella strada di sopra la spalla di lui. Vide la tenebrosa figura di Barnaba che sotto la tesa del cappello saettava quelle finestre di occhiate sinistramente espressive.

Nel vedersi guardato dai due giovani, l'agente poliziesco sussultò, abbassò gli occhi e la testa, e lentamente si mosse come per allontanarsi di là.

Ma la Leggera nel vedere quell'uomo aveva fatto un certo moto ancor essa che non isfuggì all'acume osservativo del medichino.

– Che fu? Diss'egli, piantando i suoi occhi in quelli della donna. Tu conosci quel cotale? Zoe ruppe in una risatina che era perfettamente naturale e sincera.

– No: diss'ella; ma la mia vanità femminile ha or ora ricevuto un buffetto. Quello che tu mi riveli per un poliziotto io l'ho preso per un innamorato, vedendolo da parecchi giorni girarmi intorno alla lontana e covare con isguardi accesi la mia dimora.

– Da parecchi giorni tu dici? domandò Quercia.

– Sì, forse un mese… L'ho creduto un adoratore cui le povere fortune fanno timido… E poi quella figura, a dirti tutto, mi metteva in un certo pensiero, non so perchè. Non mi ricordo aver avuto nulla mai da spartire con un simile individuo, eppure le sue sembianze non mi riescon nuove. Occupavo alcuni momenti delle mie ore più noiose a cercare di scavar fuori dalla massa dei tanti ricordi del mio passato, se, come, quando e dove avessi visto codestui o qualcuno che gli rassomigliasse; non ci sono mai riuscita, e certo per la buona ragione che di sicuro non ho mai avuto la menoma attinenza con lui. Ora tu hai soffiato sopra tutti i miei castelli di carte. È un poliziotto che ci fa da esploratore. Il malanno lo colga…

– Sì; e bisogna che noi aiutiamo il malanno a far quest'opera buona… Sediamo, Zoe, ed ascoltami.

La Leggera tornò a sdraiarsi abbandonatamente sul lettuccio da sedere; Gian-Luigi si gettò sopra una poltrona che era lì presso; ma si ridrizzò tosto con un brusco movimento nel sentire un oggetto sopra le molle elastiche del seggiolone; si volse a guardare, vide una cosa lucicchiante e la prese in mano.

– Che cos'è codesto? Diss'egli, sollevando un collare che brillava di diamanti. Cospetto! Il gran collare dell'Ordine dell'Annunziata in casa tua!

Zoe ruppe in una gran risata.

– Gli è il mio Prince charmant che ne fa sempre qualcuna delle sue con quella testuccia che ha un cervello da passerotto. Ieri sera è venuto qui dopo il ballo dell'Accademia in tutta l'imponenza della sua tenuta di gala, per abbacinarmi collo sbarbaglio della sua montura e delle sue decorazioni; e partendo ha dimenticato il collare8.

– Va benissimo: disse allora Gian-Luigi che si compiaceva a fare mandar riflessi sotto la luce dalle gemme e dall'oro di quel collare ch'egli maneggiava con un sogghigno sulle labbra tra di scherno, tra di cupidigia, tra di disprezzo. Ecco un bellissimo pretesto che ci porge il caso, mercè la augusta smemorataggine di quella meschinissima Altezza Reale, perchè tu abbia quanto prima un nuovo colloquio con lui. Puoi fargli domandare un momento d'udienza, e portandogli il suo collare…

La Leggera interruppe crollando le spalle con una mossa molto irriverente pel suo principesco amante.

– Che io mi scomodi per andare da quel capo d'assiuolo?.. Mai più!.. Gli scriverò che venga di nuovo, e subito a casa mia per udire urgentissime cose che ho da dirgli, e il babbuino sarà felice di avere da me un secondo abboccamento… Non gli dirò che trattasi di riprendere quel giocattolo, perchè sarebbe capace di mandarmi qualcheduno de' suoi ufficiali a ritirarlo, o di lasciarmelo qui senza crucciarsene dell'altro.

Il medichino seguitava a maneggiare quella collana colla medesima espressione che ho detto poc'anzi nella sua fisionomia.

– Sì, un giocattolo; diss'egli come parlando a sè stesso; ma un giocattolo che rappresenta la potenza, la dignità, l'autorità nell'ordine com'è oggidì organato della gerarchia nella società umana. Derisione della sorte, e ingiustizia dell'assetto presente delle cose! Queste supreme insegne a cui cadono in preda per favore della nascita e per privilegio di sangue? Ad un miseruzzo dall'anima imbelle e dalla mente pusilla, che è una caricatura d'uomo ed una parodia di essere ragionevole! Guardatelo da lontano quel mannechino nella pompa della sua divisa ricamata e degli abbaglianti ordini cavallereschi che gl'ingemmano il petto, vi parrà qualche cosa di degno della riverenza umana; avvicinatelo e superate per esaminarne il valore quella suggezione che ispira, per l'abitudine tiranna della ragione, l'altezza del grado, vedrete sotto la pelle del leone la natura del somaro; grattate quella vernice lucente onde si ammanta e troverete sotto di essa l'ignobile ceppo di legno innalzato dallo scherno oltraggioso del caso sui gradini del trono all'ammirazione della gente… E intanto in quella massa di esseri pensanti che sta umile, povera e soggetta, che vive nel nulla, cui ingoia il nulla, e viene e passa e si discioglie come la goccia d'acqua nell'immenso mare, fra quegli esseri oppressi sempre, condannati sempre, che hanno torto sempre, per cui esiste il dovere soltanto, e il diritto non mai, quanti per cuore, per animo, per intelletto, più degni e capaci!..

Palleggiò ancora un istante nella mano quel gingillo d'oro tempestato di gemme, come se lo volesse soppesare, e poi lo gettò sopra un vicino tavolo con atto tra d'impazienza e tra di disdegno.

– Bah! non pensiamo a codeste miserie… Ecco ciò di cui ho bisogno tu discorra ed ottenga promessa dal tuo scimmiotto di Principe che faccia sollecitamente.

Come avete indovinato, quello di cui intendeva Gian-Luigi era la liberazione di Maurilio, Giovanni e Francesco, e l'affermazione che Medoro Bigonci non aveva nulla di comune con Mario Tiburzio.

– Non basta, soggiunse di poi il medichino, bisogna che S. A. ci tolga eziandio dai piedi l'inciampo di quel poliziotto. Io costui l'ho già raccomandato ad uno de' miei uomini, ed alla prima occasione avrà il fatto suo; ma egli mi par furbo, sta sulle guardie, ed ha molti modi da sfuggire alle mani di Graffigna che può agire soltanto con assai prudenza. Un giorno o l'altro quel demonio di Graffigna saprà pur coglierlo; ma frattanto sarebbe utilissimo che un comando dall'alto, una disposizione d'uffizio lo scartasse dai nostri piedi. Tu mi capisci? Il tuo Principe può valerci anche a codesto.

– Capisco: disse la cortigiana con atto e sembiante molto riflessivi; ma gli è il modo di entrare in codesto discorso che non so trovare, e la ragione per interessare a far ciò l'indolenza di quell'egoista.

– Il modo?.. Una bella donna ha da essere imbarazzata per la guisa di far cascare il suo discorso saltuario più qua o più là?.. La ragione?.. Un tuo capriccio è la migliore di tutte; e la minaccia d'un temporaneo ostracismo dal tuo boudoir lo renderà invincibile.

Zoe percosse le mani una coll'altra in aria di trionfo.

– Ho trovato di meglio, e son sicura del fatto mio. Il Prince charmant si è lamentato meco più volte che al Re fossero state narrate certe sue più impertinenti scappatelle e le relazioni che ha meco, per cui il Re gli viene regalando di tanto in tanto qualche buona ripassata. Dirò che il rivelatore di cotali segreti è questo poliziotto… come si chiama?

– Barnaba.

– Il quale da parecchi dì sta spiando intorno alla mia casa. Sii pur certo che il Principe non glie la perdonerà, maligno com'è sotto la sua leggerezza e nullaggine, e saprà aggiustarlo egli per le feste.

– Sta bene. L'hai pensata proprio a dovere. Allora scrivi subito e sollecita la venuta del tuo Principotto.

La Leggera si fece accostare un tavolierino su cui era un elegante buvard con elegantissimo calamaio, e scrisse di fretta alcune righe sopra un fogliolino di carta profumato.

Quand'ebbe finito, disse a Gian-Luigi suonasse il campanello, ed alla cameriera che si presentò diede ordine il bigliettino scritto allor'allora fosse tosto recato al suo indirizzo.

– Levatemi di qui questo tavolino: soggiunse ella di poi alla cameriera che stava per partire.

– No: disse Gian-Luigi, il quale, mentre Zoe scriveva, era stato dietro di lei guardando con una strana espressione di curiosità la mano della donna a tracciare le parole sulla carta: no, lasciate pur lì quel tavolino e ritiratevi.

La cameriera uscì e Zoe levò sul volto del medichino uno sguardo interrogativo.

– Ho bisogno che tu mi scriva ancora due parole: un nome, al basso d'un pezzo di carta.

Zoe sollevò vivamente la testa e guardò entro gli occhi il suo compagno – il suo complice.

– Un nome! Diss'ella. Il mio?.. Che cosa vuoi tu fare del mio nome?

Gian-Luigi atteggiò le labbra ad un diabolico sogghigno.

– Non è il tuo: rispose. Hai tu un nome, povera creatura che appartieni al par di me alla schiera dei derelitti?.. Il tuo è un nome d'accatto, simile a quello che si dà al cane od al cavallo dal padrone che l'ha comperato, e cui domani il capriccio d'un altro padrone può cambiare… Io intendo un vero nome, reale, autorevole, cui la sciocchezza comune è usa di rispettare, con cui si possono coprire onte, vizi e magagne maggiori di quelli a cagion de' quali affettano i sedicenti onesti del mondo di avere a schifo la povera plebe.

 

– Qual nome? Domandò con sollecita curiosità la cortigiana.

– Quello della contessa di Staffarda.

La Leggera mandò un'esclamazione e stette lì mirando intentivamente nel volto Gian-Luigi. Questi trasse da un portafogli un quadrilatero oblungo di carta e mettendolo spiegato innanzi alla donna, soggiunse accennando col dito l'angolo a destra del foglio:

– Qui scriverai queste parole: Candida Langosco contessa di Staffarda, nata La Cappa.

Zoe appoggiò i due gomiti al tavolino che aveva dinanzi, e sostenendo alle mani il suo mento, disse con voce quasi sommessa e lentamente pronunziando:

– Questo pezzo di carta ha da servire per una cambiale?

– Per un pagherò che devo dare a Macobaro.

– E la firma della contessa?..

– Deve starci a rincalzo della mia.

– Perchè non l'hai domandata alla contessa medesima?

– Perchè il suo concorso l'ho già ottenuto in altro modo, e conosco il proverbio che troppo tirando si strappa.

– Ma io non ho la scrittura uguale a quella della contessa.

– Tu hai una calligrafia che molto facilmente può imitare quella di qualsiasi altra donna; e tanto più la scrittura della contessa. Ti osservavo poc'anzi appunto mentre scrivevi e mi son venuto confermando appieno in quella opinione che avevo venendo qui, che cioè tu valessi a rendermi molto bene questo servizio.

– Ancora, per imitare quel modo di scrivere, converrebbe avessi sotto gli occhi un esemplare…

– L'ho recato. Eccoti, le lettere della contessa. E trasse fuor di tasca l'involto che aveva preso nel segreto cassettino del suo stipo.

La Leggera afferrò avidamente quel pacco, lo sciolse e, presa a caso una lettera, si diede a leggerla con un impertinente sorriso sulle labbra.

Povera Candida! Se essa avesse saputo mai in quel momento che le segrete espansioni dell'amor suo confidate in una carta che avrebbe dovuto esser sacra al suo indegno amante, che le più calde manifestazioni della sua sciagurata passione, erano abbandonate in preda allo scherno profanatore d'una cortigiana!

– Anzi, continuava quello sciagurato giovane in cui le sfrenate passioni avevano oramai cancellata ogni delicatezza del senso morale, queste lettere fo conto di lasciarle in deposito presso di te. Possono avvenire molte circostanze in cui elleno diventino un'arma atta a salvarmi da qualche precipizio, entro il quale mi capiti di cadere, e di cui essendo io posto nell'impossibilità di servirmi, tu dovresti valerti a mio vantaggio… In altro momento ti spiegherò più particolarmente la cosa… Ora veniamo a quei che più preme… Questa tua firma mi deve ottenere cinquanta mila lire.

Zoe lasciò andare di mano la lettera della contessa e riprendendo quella mossa che aveva poco anzi, tornando a fissare il suo acuto nel cupo sguardo di Gian-Luigi, disse, pesando bene sulle parole:

– Ma questo è un falso che mi domandi?

Il medichino crollò impazientemente le spalle:

– Ebbene sì: diss'egli con ruvido accento: è un falso… Hai tu paura?

La cortigiana stette immobile e silenziosa, guardando fisso il giovane nella stessa maniera.

– Ne prendo io tutto il carico: soggiunse Gian-Luigi. Se anco la cosa venisse scoperta, chi mai giungerebbe a pur sospettare che tu sei stata a scrivere quel nome? Io ti giuro che non parlerò.

Zoe non disse molto, ma staccò dal mento, cui sosteneva con ambe le mani, la destra, e presa la penna intinta d'inchiostro, sopra un foglio di carta, che aveva vicino, si pose sbadatamente a tracciar dei caratteri, come fa chi prova una penna prima di accingersi a scrivere.

CAPITOLO XXI

Il signor Nariccia quella mattina si sentiva male per davvero. Partitosi da lui Gian-Luigi, conchiuso l'altro contratto per cui era venuto il gioielliere X, rimasto solo, l'usuraio aveva proprio capito che il medichino gli aveva parlato da maledetto senno, e che la sua salute era, se non già colpita, seriamente minacciata da un grave malore. Volle riconfortarsi l'animo di quel modo con cui soleva eziandio rallegrarsi il cuore il vecchio Arom, come sogliono fare tutti questi avidamente cupidi dell'oro, posseduti dall'accanita ed implacabile ed insaziabile passione dell'avarizia: nel riporre entro il suo forziere i diamanti recatigli da Gian-Luigi e i gioielli del signor X, dopo essersi chiuso ben bene a chiave nella sua camera, si compiacque a vagheggiare i mucchi d'oro lucente monetato che dormiva serrato in sacchetti a tiro della sua mano.

Un sorriso di trionfante soddisfazione veniva alle labbra anche a lui, nel rivedere e ricorrere le sue ricchezze; ma tratto tratto una stretta del malanno che si veniva preparando nel suo organismo lo faceva star lì, gli mandava una rapida vicenda di caldo e di gelo per tutto il corpo, gl'impediva il rifiato e gli copriva d'una pallidezza cadaverica le guancie. E' si appoggiava con una mano allo scrigno aperto, coll'altra si premeva il cuore che o sospendeva o raddoppiava il battito, e lasciava svanire la vampa non senza un vivo sgomento nell'animo pauroso e codardo.

– Davvero che ci ho qualche cosa che non ho avuto mai: diceva egli a sè stesso. Il dottor Quercia ha ragione, e farei molto bene a dargli retta… Salassi e sanguette no: codesto costa subito un occhio della testa; ci vogliono chirurgo, flebotomo e che so io… E poi quanto tempo mi ruba, condannandomi ad ammuffire in letto! No, no, non se ne fa nulla; ma quella medicina che mi ha scritto il dottore?.. Se non costasse di molto… Potrei provarla; tanto più che la non mi toglie ai miei affari; ma quei maledetti speziali fanno pagare così caro le loro droghe!.. E poi; che abbia proprio da diventare malato, io che sono sempre stato bene?.. Non mi sento più così forte e robusto come un tempo, è naturale; ma sono ancora in buona età; vivo parcamente, non ho vizi di sorta: e perchè avrei da ammalarmi?

Parve restar persuaso da queste buone ragioni che una malattia per lui era impossibile; e si mise con più alacrità a maneggiare il suo denaro.

– Quest'anno i miei guadagni furono ancora maggiori degli anni scorsi, ma non sono tuttavia quello che possono essere, quello che vorrei… Ho camminato bene, sono giunto ad un bel risultamento, gli è vero: quando penso che sono venuto a Torino, or sono trent'anni, misero, scalzo, con trenta soldi in saccoccia, sapendo appena leggere, scrivere e far di conti, ed ora!..

Diede un'occhiata al suo scrigno e sorrise.

– Sì ora sono padrone di una bella sostanza; ma non mi basta ancora. Ci ha tuttavia di quelli che ne possedono di più di me, e vorrei essere innanzi a tutti. Ah se tutti i giorni facessi i guadagni che ho fatto questa mattina! Con cinquanta mila lire avere un valore di 200 mila!.. Perchè l'ho, questo valore, l'ho nelle mani e son certo – quasi certo almeno – che non mi si toglie più. Che bravo Quercia! come il Signore mi ha favorito a voler che io conoscessi quello sciupadenari che sa così bene spennare le sue ricche amanti… a mio profitto! Mai più, mai più egli avrà cinquanta mila lire da restituirmi alla ventura settimana; e se la famiglia della contessa vorrà riavere i suoi diamanti, oh oh la discorreremo…

Prese un libro di sue ragioni in cui soleva scrivere le sue partite del dare e dell'avere, e fra le somme sborsate registrò quella delle 50 mila lire date a Gian-Luigi. Nel tracciare questa cifra, pareva colpito da una nuova e bizzarra idea.

– La somma di 50 mila lire, diss'egli, mi è sempre stata favorevole e di buon augurio. I miei primi guadagni che mi apersero la strada della fortuna, quali furono? Le cinquanta mila lire che mi diede quel povero Maurilio Valpetrosa per suo figlio e le altre cinquanta mila che mi diede il vecchio marchese di Baldissero per farlo scomparire; e se la mi andava bene ne avrei preso altre cinquanta mila dalla contessa di Castelletto per ritrovarlo di nuovo…

A questo punto s'interruppe e diede in una scossa.

– Ritrovarlo!.. E se fosse ora ritrovato in quel giovane in cui s'incontrò la Gattona?

Appoggiò il gomito al forziere che aveva tuttavia aperto dinanzi e sostenne la fronte colla mano in una profonda meditazione.

– Oibò! Diss'egli poscia crollando le spalle. Codesto è quasi impossibile. Quel bambino fu smarrito senza che mai nessuno pensasse a battezzarlo col nome di suo padre, e quanto a quel bottone di livrea che potrebbe essere stato di Stracciaferro, esso indicherebbe piuttosto che si tratta dell'altro ragazzo… E poi perchè alcun altro non potrebbe avere un simile bottone? Bisognerà che parli ancor io colla Gattona per averne il cuor netto.

Fu interrotto in questi suoi pensamenti che molto lo preoccupavano da un pugno che senza riguardi e con violenza impaziente percoteva nell'uscio richiuso.

– Ehi signor Nariccia; gridava traverso la porta la voce aspra di Dorotea. La viene o non viene a far colazione? È passata l'ora da più di venti minuti.

– Vado, vado: rispose l'avaro affrettandosi a chiudere con ogni cura il suo forziere: e poscia, aperto l'uscio della camera, si recò nella cucina dov'egli soleva fare i suoi pasti, senz'altro bisogno di stanza apposita da pranzo.

A capo d'una lunga tavola presso l'affumicata parete era posta una tovaglia che un tempo si poteva supporre essere stata bianca, ma che ora aveva un colore indefinibile, ornata di grossolani rammendamenti ed anche di qualche strappo non ancora rappezzato: sopravi erano posti un tondo della più infima maiolica sverniciato, incrinato e scrostato, una servietta del colore della tovaglia, rotolata e legata da una cordellina, una fetta larga due dita di pane da soldato, un bicchiere dal vetro opaco, una caraffa con acqua d'un vetro ugualmente sporco, una forchetta di ferro con un coltello dal manico di legno rozzo, senza vernice ed una saliera di vetro rotta da una parte.

Appena vide entrare nella cucina il suo padrone, Dorotea prese in una credenza un piatto di terra grossolana, lo scoperchiò d'un altro piattello che ci stava sopra e lo pose in mezzo la tavola: era un'insalata di radiche.

Nariccia sedette sopra una seggiola dal piano di legno, innanzi al desco, spiegò sulle sue ginocchia la servietta sporca, fece il segno della croce e borbottò alcune parole di preghiera, poi prese il piatto di terra, e colla forchetta si fece calare nel tondo che aveva dinanzi un poco di quelle radiche in insalata.

– Mentre la mangia codesto, disse Dorotea, io le farò cuocere l'uovo.

L'usuraio fece un cenno affermativo colla testa.

Sul focolare, in mezzo ad un mucchietto di cenere, stavano quattro carboni accesi, con sopravi due piccoli bastoni i cui capi non si toccavano e che facevano salir su una riga sottile di fumo leggero leggero. Al di sopra pendeva per la catena un ramino con dell'acqua. Dorotea raccostò alquanto i due pezzi di legna, ci soffiò sopra e mise dentro l'acqua un uovo.

Nariccia frattanto aveva ritagliato in tante liste la fetta di pan nero, e poi, preso colla forchetta un pizzico di quelle radiche, aveva provato a mangiare. Ma il boccone gli pareva insipido e sentiva una ripugnanza ad inghiottire che nulla più. Tentò ancora una volta, e poi lasciata andare la forchetta sulla tovaglia, tirò in là dinanzi a se il piatto, e disse con voce dolente e piagnolosa:

– Questa roba non mi va giù. E sì che le radiche mi piacciono più d'ogni altra cosa; e mi fanno anche bene alla salute…

Sentì il rumore del soffietto, con cui Dorotea cercava di rianimare il fuoco.

– Che cosa fate? Domandò egli ritrovando nuovamente di botto la voce e l'accento che gli eran soliti.

– La vede bene: rispose Dorotea, senza nemmanco voltarsi; le faccio cuocere il suo uovo.

– Disgraziata! Non posso trangugiare nemmanco un boccone, e voi mi sciupate la legna a farmi cuocer l'uovo! Toglietelo subito dal fuoco.

– Ma ora non gli è nè cotto nè crudo, questo uovo…

– Non importa. Finirete di farlo cuocere un'altra volta e sarà buonissimo la stessa cosa… Ma non tenete acceso un momento di più quel fuoco, oggi che la legna è così cara.

La fantesca, borbottando fra i denti, fece a senno del padrone. Questi colla sua forchetta rimise nel piatto di terra le poche radiche onde s'era servito; poi s'alzò da sedere per tornare nella sua stanza; ma nel muovere il primo passo un capogiro lo assalì di nuovo, e dovette tenersi alla tavola, chè gli pareva di dover cadere.

Allora tornò a ricordarsi della ricetta che gli aveva scritto il dottor Quercia.

– Bisognerà proprio che mi decida a prendere quella medicina… Purchè non costi tanto caro!.. Dorotea, soggiunse ad alta voce, venite qui meco che voglio mandarvi a fare una commissione.

 

– Eh! un momento: rispose brusco la vecchia serva: io non ho da mangiare? Mi si misura già tanto a spilluzzico questo gramo nutrimento; vorrebbe adesso addirittura che ne facessi senza?

Nariccia non rispose nulla; andò verso l'uscio e quando fu per uscire si rivolse indietro a dire con tono quasi raumiliato:

– Bene! Quando avrete mangiato, Dorotea, verrete di là da me… Ma guardate di non mangiar troppo di quelle radiche: le sono indigeste e vi potrebbero far male: e l'uovo lasciatelo per mio pranzo.

– Sì sì, lascierò stare il suo uovo; borbottò la serva dietro l'usuraio che usciva: mangerò pan nero asciutto asciutto, che il fistolo lo colga!

Nariccia era appena fuor della soglia della cucina, quando si sentì il suono del campanello dell'uscio che metteva sul pianerottolo.

– Un'altra seccatura: disse col suo tono burbero la vecchia fante gettando dispettosamente sulla tavola le liste di pan nero, tagliate dal padrone, e ch'essa erasi recata in mano per mangiarsele: non mi lascieranno mai tranquilla un momento questa mattina.

Ma l'avaro, voltandosi indietro a parlarle dal corridoio, disse col suo tono untuoso da impostore:

– Non vi disturbate pure Dorotea. Fate in pace il vostro asciolvere, e vado io stesso a veder chi è.

Dorotea riprese il suo pane, borbottando fra sè più burbera e più bisbetica che mai:

– Chi è? chi è?.. Lo so già fin da prima chi è: un qualche povero diavolo che viene a farsi sgozzare qui in questa caverna d'usuraio… Uhm! Questo vecchio senza cuore diventa ogni giorno più avaro e più tristo. Non mi pare poi d'avere un'anima tenerella, ma se non ci fossi abituata da tanto tempo, credo che ora non ci potrei resister più. Colle sue madonne, e coi suoi santi, e colle sue giaculatorie questo vecchio esoso non ha nè fede, nè legge… È impossibile che il Signore tolleri uno scellerato che profana così il suo nome e la religione… Ho il presentimento che qui deve precipitare qualche gran disgrazia, e che l'ha da coglierci me pure… Ah! se non fossi così vecchia, gli è ben vero che me ne andrei lontano lontano; ma sì, dove potrei cacciarmi ora per vivere? e coi pochi salari che questo birbante mi ha sempre pagato non ho manco potuto mettere insieme quattro pochi di soldi per assicurarmi la vecchiaia. E certo se un bel giorno divento malata, o quando sarò tanto innanzi negli anni da non poter più servire, questo cane d'un impostore è capace di gettarmi fuor di casa come un cencio frusto…

Intanto che Dorotea prevedeva a quel modo il tristo avvenire che l'aspettava, Nariccia, aperto colle solite precauzioni l'uscio d'entrata nell'alloggio, aveva visto che il sopravvenuto era il portinaio, ch'egli quella mattina stessa aveva fatto avvertire passasse da lui a pigliarne certi ordini. Questi ordini, che Nariccia si affrettò a dare al portinaio, uomo rozzo, d'anima come di corpo grossolano, riguardavano la povera famiglia d'Andrea e di Paolina. Il portinaio doveva salire alla soffitta da loro abitata e farsi subito pagare del dovuto affitto: se si rifiutavano di pagare, senza remissione, il portinaio doveva discendere nella strada la loro poca roba, prenderli per un braccio tutti e metterli fuori, chiudere la soffitta, recarne la chiave al padrone ed appiccare al portone da via il cartellino dell'appigionasi.

– Va bene: disse il portinaio che nella bassa e crudele anima sua, degno servitore dell'usuraio, non vedeva punto la bruttezza di quest'azione spietata. Per fortuna appunto, Andrea non c'è, chè l'ho visto uscir io poc'anzi insieme con un suo compagno che è solito a ricondurlo a casa ubbriaco la sera, e molto probabilmente non tornerà più a casa fino a notte con una delle sue sbornie famose; abbiamo tutto il tempo di fare l'operazione senza impacci e resistenza, che quella miseruzza di Paolina e i suoi tisichelli di bambini non sapranno farne altra che di lagrime e di strilli. Quando Andrea torni, troverà lo sgombero compiuto e non gli resterà che stridere: chè invece s'egli fosse in casa, gnaffe! l'affare sarebbe un po' serio; ha un certo umore e certi pugni a capo di certe braccia!..

– E dunque andateci subito e sollecitate: disse Nariccia impaziente. Stamattina ci vennero delle signore in carrozza a visitare que' spiantati; certo hanno loro dato denari, e possono pagarmi… e sarà tanto di meglio, ch'io riacquisti quel poco che mi viene, che da sì lungo tempo mi si fa aspettare, e che temevo perduto… Che se non pagano, non si meritano sicuramente nessuna pietà… Andate.

Il portinaio, con tutta indifferenza, salì zufolando le scale e in breve tempo giunse alla porta della soffitta di Paolina.

– Si può? Diss'egli rozzamente urtando col piede nelle imposte chiuse dell'uscio.

– Chi è? Domandò di dentro la voce debole e quasi soffocata di Paolina.

– Sono io, il portinaio.

– Ah! Vi faccio aprir subito.

S'udì il passo lieve d'un bambino che veniva verso la porta, e questa fu aperta dal più grandicello dei figli della misera donna.

Il portinaio entrò colla sua faccia da villano che ha una gran villania da fare.

Paolina giaceva in letto oppressa dal suo malanno: affannoso ne era il rifiato, profonda e dolorosa la tosse, ma pure nell'anima sua era entrata una certa dolcezza, che sembrava quasi una speranza. L'accoglimento che le era stato fatto e le dolci parole dettele in casa della buona signora Teresa l'avevano alquanto riconfortata, più ancora le avevano recato del bene la presenza nel suo tugurio di quei due angeli di carità, che erano le signorine Maria Benda e Virginia di Castelletto, i soccorsi recatile onde i bambini suoi avevano potuto aver cibo, e i denari lasciatile per cui potevasi dalla miserrima famiglia pagare l'affitto al padrone di casa ed avere ancora tanto in serbo da campar tutti per parecchi giorni.

Andrea aveva inoltre rinnovate coi più solenni giuramenti le sue promesse di rammendarsi; e la sventurata Paolina aveva tuttavia la debolezza di credergli; ora, giacendo in letto, le si presentava alla mente, come possibile in un prossimo avvenire, la chimera di nuovi giorni di pace e di letizia, uguali a quelli che erano trascorsi un tempo, quando Andrea, innamorato di lei, savio e laborioso, l'avea sposata e mandava innanzi a meraviglia la fondata e crescente famigliuola. Era essa in queste dolci immagini, quando il portinaio, colla feroce commissione datagli da Nariccia, venne a battere all'uscio della soffitta.

– Sora Paolina, disse di botto il portinaio, gli è il padrone che mi manda a vedere se finalmente avete preparato i denari della pigione da dargli.

La povera donna si sollevò sul suo strammazzo puntando il gomito e disse con meraviglia, in cui c'era pure una tema crudele che subitamente l'assalse:

– Come la pigione?.. Se mio marito è sceso giù, non è più d'un'ora, per andarla a pagare…

Il portinaio ruppe in una grossolana risata:

– Sì, pagare quello lì: prima che egli faccia un miracolo simile mi cascherà il naso.

– Ve lo dico in verità: insistette Paolina in cui però la paura della nuova disavventura cresceva nel cuore.

– Ed io vi dico in verità ancora più vera che il padrone di casa, del vostro uomo, non ha visto manco l'ombra, e che di denari non ne ha avuto neppure un quattrino.

– O mio Dio! mio Dio! Esclamò con istraziante dolore la povera donna, che incominciava ad esser chiara di un nuovo fatalissimo fallo di suo marito. Eppure mio marito ha preso seco i denari per andarlo a pagar subito, il padron di casa… L'ho visto io… perchè grazie alla Provvidenza ed alla carità di due brave signorine, questi denari ce li abbiamo…

– Non dubito punto che vostro marito sia uscito coi denari che dite: interruppe ruvidamente l'uomo di Nariccia; ma ciò di cui sono certo, si è che invece di soddisfare al suo debito col padrone di casa, è andato secondo il solito a consumarseli all'osteria. L'ho visto io giustamente venir fuori del portone a braccetto con quel suo ordinario compagno da bettola, quel grande, grosso, dal pelo rosso…

– Marcaccio? Pronunziò Paolina con voce che era un gemito.

– Appunto! Credo bene che si chiami così.

La moglie d'Andrea cadde riversa nel suo giaciglio come se fosse stata colpita al petto da un urto simile a quello che la sera innanzi nella taverna di Pelone le aveva dato la mano del marito ubbriaco; due lagrime, due sole, ma cocenti, le spuntarono nelle scarne occhiaie, e sulle labbra livide si disegnò un movimento, un tremore che quasi poteva dirsi un sogghigno, ma pieno di disperazione. Ogni accarezzata lusinga della sua fantasia, ogni illusione del suo povero cuore era di colpo distrutta! Pure, pensando ai suoi bambini e parendole troppo terribile la sorte loro e troppo ingiusta verso di essi la Provvidenza, se vero fosse ciò che paventava, la misera volle tuttavia appigliarsi ad un ultimo ramo di speranza.

8Quest'episodio è affatto storico. Buona parte dei miei lettori lo ricorderà tuttavia.