Tasuta

Tre racconti

Tekst
iOSAndroidWindows Phone
Kuhu peaksime rakenduse lingi saatma?
Ärge sulgege akent, kuni olete sisestanud mobiilseadmesse saadetud koodi
Proovi uuestiLink saadetud

Autoriõiguse omaniku taotlusel ei saa seda raamatut failina alla laadida.

Sellegipoolest saate seda raamatut lugeda meie mobiilirakendusest (isegi ilma internetiühenduseta) ja LitResi veebielehel.

Märgi loetuks
Šrift:Väiksem АаSuurem Aa

XI

Fui introdotto in una stanza a pian terreno, spoglia, con poca luce e affumicata; essa al maestro serviva insieme di cucina, di tinello e di camera da dormire. Una scala, a mano destra di chi entrasse, menava ad una stanza superiore, della quale Ambrogio aveva fatto la scuola e lo studio, essendo più chiara, più arieggiata e più salubre.

Quando fummo tutti e due in quest'ultima stanza, il maestro sedette e mi fece segno sedessi; poi cominciò a parlare con voce debole ed esitante, tenendo timidamente lo sguardo fisso a terra, come uomo che non osa levarlo in faccia al suo interlocutore.

“Non mi lasciai vedere in questi ultimi giorni, perchè avevo mestieri di prepararmi al colloquio che avrebbe avuto luogo fra noi; avevo bisogno di sapere che uomo fosse quello che sventuratamente aveva sorpreso il mio segreto.”

Io feci un movimento di sorpresa; egli continuò senza scomporsi:

“Appresi che Ella, forestiero a questa terra, l'avrebbe presto lasciata; e già sapevo come fosse pure uno di coloro che si lasciano consumare le carni dalla veste di Nesso dello scrittore. Ciò riuscì a tranquillarmi un poco; tal sorta di uomini sono tutti corteggiatori ardenti d'una divinità implacabile e crudele, ch'essi chiamano la fama, e che dispensa il più spesso a capriccio i suoi favori; e, di solito, l'invida gelosia che nutrono gli uni degli altri, li fa lieti quando uno, che potrebbe pur conquistare le fuggevoli buone grazie della contesa deità adorata, si ritrae in disparte, e volonterosi molto lo lasciano nelle tenebre in cui si racchiude.”

Volli protestare che, nella mia nullità, non avevo il torto di appartenere a quella schiatta di maligni.

Ambrogio non mi lasciò dire.

“Hannovi delle eccezioni,” continuò egli, “e tanto meglio s'Ella è una di esse. Imperocchè costoro possedono sicuramente un animo onesto, il quale, avendo certo dovuto soffrire più o meno delle perfidie e delle sciagure che a tutti si avventano su quel cammino, sono disposti ad apprezzare e rispettare la risoluzione di tale, che, o per debolezza, od anzi per maggior forza, rinuncia alla lotta, e vuol morire ignorato…”

“Ignorato?” io proruppi. “E lo potete voi? E ne avete voi il diritto?.. Ho scoperto in voi un talento di prim'ordine, e vengo a dimandarvi perchè lasciate infruttuoso il capitale che Dio vi ha dato, perchè private il vostro paese, il mondo d'una ricchezza intellettuale che a voi fu concessa in uso, ma i cui portati devono essere il bene di tutti?..”

Ambrogio sollevò con moto quasi impetuoso la testa, e m'interruppe con più violenza che non mi sarei aspettato:

“Perchè? Perchè ciascuno ha pur diritto a procurarsi la sua pace, la sua conservazione, la salute dell'anima sua. Come! Mi sono tratto fuori dall'inferno, e voi vorreste mi vi ripiombassi? E non sapete che l'inferno di questa vita mi farebbe dannare all'inferno dell'eternità quest'anima troppo sensitiva ed impressionabile? Non sapete che, circondato dal male, ferito, tormentato dal male, io gli ho già teso una volta le braccia, e glie le tenderei ancora; che io gli ho detto e gli direi ancora: dammi tu le armi per combattere i miei nemici, e render loro dolore per dolore, dammi tu l'orribile diletto della vendetta?.. Fui sull'orlo dell'abisso, sapete, un piede già per quel declivio tremendo, alla vigilia d'esser perduto per sempre… Nulla, nulla mai potrà richiamarmi su quel lubrico, periglioso cammino. Ah! inorridite!.. Sulle mie mani c'è sangue, cui non hanno cancellato tuttavia tante mie lagrime.”

Feci un moto, ch'egli interpretò certo per manifestazione d'orrore che io provassi.

“Ah! non allontanatevi da me:” soggiunse ratto e con forza. “Sono un omicida, ma non sono un assassino. La sventura ebbe parte al mio delitto, non la mia volontà… Non condannatemi, compatitemi. Io era nato per amare ed essere amato!”

Volli parlare, ma egli mi fe' cenno tacessi, e dopo un istante riprese con più calma:

“Il mio paese, il mondo, l'umanità! Che cosa possono pretendere da me? Che io non passi inutile affatto in questa vita terrena. Ebbene, io tolgo loro un vano sognatore, un infruttuoso fabbricatore di versi, per dare ad una povera popolazione un maestro che non senza effetti s'industria ad allevare generazioni migliori, redente dai pregiudizi e dalla miseria dell'ignoranza. Spogliatevi delle vostre preoccupazioni cittadine e letterarie, dei vostri pregiudizi di scuola e di salotto, dei vostri leggieri e puerili apprezzamenti da caffè e da appendice di giornale; esaminate con fredda attenzione la cosa, e conchiuderete, credetemi, essere più vantaggiosa mille volte l'opera del più umile fra i maestri di villaggio che quella del più glorioso dei poeti.”

“Voi avete gran parte di ragione, ma la guastate esagerando. Volete disconoscere il buon effetto che producono sull'animo umano, nobilitandolo, i capolavori dei genii? Quanti furono spinti a sublimi aspirazioni, concepirono sublimi pensieri, si sforzarono ad esser grandi, ed ottennero almeno di essere più nobili di mente e di cuore alla lettura delle grandi opere dei grandi poeti? Il cómpito del maestro è certo eccellentissimo nella sua tranquilla umiltà, ma ciò non toglie che l'opera dei genii, nella dolorosa e, come dite voi, pericolosa sua gloria, non sia pure ottima a sua vólta. Ora l'intelligenza dell'umanità, l'intelligenza d'una nazione deve avere ed ha per l'una e per l'altra di codeste opere stromenti diversi, specialmente adattati; ed è un invertire le parti e fallire al dovere, chi destinato per una si dà invece all'altra. Voi che siete nato poeta, lasciate a più umili intelletti l'utilissimo ma meno elevato ufficio del maestro di bimbi; voi che lo potete, date alla vostra patria il canto dei forti onde abbisogna: siate il poeta civile dell'Italia moderna.”

Egli si alzò e passeggiò alquanto su e giù per la stanza, le braccia incrociate al petto, il capo chino. Osservai come il suo passo, abitualmente incerto e barcollante, fosse allora fermo e sicuro.

Dopo un istante, mi si piantò dinnanzi, e guardandomi con un certo piglio d'autorità e d'orgoglio, press'a poco come mi aveva guardato quel mattino sotto il viale dei pini, mi rispose:

“Essere il poeta civile dell'Italia moderna? Ma che? Pare a voi che basti il volerlo, anche chi abbia ingegno da tanto? Credete voi che il poeta tragga solamente da sè medesimo, dalla sua anima soltanto, la sostanza de' suoi versi? Egli la attinge dall'atmosfera che lo circonda; egli, fuoco che accentra e riproduce i sensi e le voglie della società in mezzo a cui vive. È questa la sua prima condizione di vita, come poeta. Quando alcuno avesse l'impossibile valore di stare e di fare contro alla corrente comune, perirebbe negletto e quindi più inutile ancora. Esaminate qual sia – nelle sue credenze, nei suoi intendimenti, nei suoi fatti – l'epoca nostra, e dite se può il poeta stillare da tali elementi il poema della virtù, della verità e della fede. Byron e Leopardi sono i due veri poeti del nostro secolo – forse i soli! – e hanno cantato lo scetticismo. Le deficienze, gli errori, i decadimenti dei nostri contemporanei, credete voi sieno tutta colpa di loro rea volontà? È per la maggior parte colpa delle circostanze, dell'ambiente in cui si vive.”

“Conviene adunque rimediarvi” interruppi, “conviene che a ciò si rivolga l'opera…”

Ed egli vivamente:

“Dei maestri, che educhino le generazioni che sorgono.”

Accennai parlare, ma non mi diede tempo.

“Sentite! Sono ormai tant'anni che io ho presa questa risoluzione, e non me ne pento. Potete pensare se tutti gli argomenti che avreste da dirmi non sono passati e ripassati per la mia mente, e se valgano ancora ad ottenere alcun effetto in me. La nostra discussione quindi si converte in una semplice conversazione accademica.”

S'interruppe un istante a prestare orecchio ad un gaio vociare che s'udiva fuori nella strada, avvicinantesi man mano: erano armoniche vocine di bambini chiassosi e ridenti che s'accostavano a quella vólta. La terrea faccia del maestro si illuminò d'una gioia quasi paterna.

“Silenzio!” diss'egli con forza. “Ecco i miei scolari, i miei gioielli, come a Cornelia romana i suoi figliuoli… Ecco la mia poesia, ecco la mia gloria.”

Pareva ringiovanito. S'affrettò a scendere e ad aprire la porta: una frotta frugola e clamorosa, da paragonarsi ad uno stormo di passerini pigolanti, si precipitò nella stanza intorno a lui, a serrarlo in mezzo con mille gridolini di affettuoso salutare.

Ambrogio chinò la sua testaccia grigia ed arruffata all'altezza di quelle testoline bionde, e lietamente commosso li abbracciò tutti uno ad uno. Poi si volse a me con due lagrimette tremolanti entro gli occhi.

“Ora,” disse, “io mi sento dappiù che molti nel mondo.”

Io mi accomiatai.

“A rivederci:” gli dissi. “Sento il bisogno di discorrere dell'altro con voi.”

Egli crollò il capo senza rispondermi.

“Entriamo a scuola, figliuoli miei” disse ai bambini; – e mentre io usciva, egli montava la scala, circondato da' suoi piccoli amici.

XII

Dopo quel giorno fui più volte a visitarlo, ed egli a poco a poco si dimesticò con me in guisa che mi parve non vedesse mal volentieri la mia frequenza.

Conobbi in breve che, dotto principalmente nella storia e nella filosofia, maestro Ambrogio non era ignaro affatto di nessuna delle parti dell'umano sapere, essendo egli uno di quegli spiriti complessivi e vasti che tutto possono abbracciare.

Credo che io venissi appunto acquistando gradatamente la sua fiducia, perchè non mi dimostravo per nulla curioso dei fatti suoi, e non gli avevo mosso ancora mai un'interrogazione sul suo passato. Non già che non mi stuzzicasse il desiderio di sapere alcuna cosa in proposito; ma pensavo che una sconsiderata richiesta su tale argomento l'avrebbe di subito impermalito e posto in sospetto, con rischio di farmi perdere a un tratto tutto il guadagno che ero venuto facendo nel suo animo.

 

Un giorno che io non aveva più che poco tempo da rimanere in quel paese, e ch'egli mi parve più espansivo del solito, pensai inopinatamente di assalirlo con queste parole:

“Presto parto, Ambrogio, per non tornar forse mai più in questo villaggio.”

Egli non mi lasciò continuare.

“Ho pensato a codesto, e parecchie volte,” disse, “più che non avrei voluto. E talora… vi parlo schietto… mi parve il mio meglio; mi dicevo anzi che sarebbe stato più a mio vantaggio, o non foste venuto mai, o non vi avessi conosciuto; talora invece me ne sono sentito a trafiggere come dalla puntura di un dolore. A buono o a mal mio grado, voi avete pure nuovamente collegata la mia anima, ormai disavvezza, ad un mondo d'idee e di fatti che alla fin fine ho amato cotanto, e, partendo voi, quest'ultimo anello si rompe, per lasciarmi, proprio del tutto, senza più rimedio, ripiombare in quella solitudine desolata che ho pur voluto, che voglio sempre, che deve essere la mia sorte, ma contro cui, alle volte, si ribella l'anima mia. Mi sono proposto il quesito: se avrei dovuto scrivervi…”

“E l'avrete sciolto affermativamente, io spero. Scriviamoci, ve ne prego… per util mio. Nei vostri colloqui io sento aver molto appreso e molto da apprendere. Da un carteggio, voi avrete per mio mezzo continuata alcuna attinenza con quel mondo esteriore a cui rinunciaste, e che pure vi è necessità di seguitare nel suo svolgimento civile e morale; e nell'espansione del vostro cuore in un cuore che vi giuro profondamente devoto ed amico, oltre che un sollievo, otterrete il giovamento di me, a cui le vostre parole saranno ammaestramento e guida e conforto.”

Ambrogio scosse il capo.

“No, no,” disse. “Partito di qui, voi mi oblierete, io vi devo obliare. Ve l'ho già ripetuto più volte: io al mondo sono morto… In un paese colaggiù, della mia regione nativa, giace un corpo entro una fossa del cimitero, e sopravi un'umile pietra con inciso il mio nome, il nome che portai fra i viventi. Io sono uno spettro, a cui non è concesso rientrar nella vita… e che non lo vuole. Nella vostra esistenza – poichè il caso, non la nostra volontà, ha fatto che io una qualche orma v'imprimessi – debbo passare non altrimenti che come un'ombra fugace. Sarò la memoria d'un estinto. Ora gli estinti non tornano, come il passato non si muta, come il destino non si rinnovella… e se tornassero, quei poveri estinti, sarebbero i mal capitati… Lasciatemi nella mia ombra di morte.”

Io volli ribattere; ma egli non mi ascoltava, assorto, come gli avveniva di frequente, nelle sue meditazioni. A un tratto si alzò, e passeggiando con agitazione per la stanza, così prese a dire:

“Credetemi, credetemi… Che la felicità sulla terra è un motto vano, l'hanno detto centinaia di Filosofi… e hanno avuto torto. La felicità per l'uomo è la pace dell'anima, la quiete dello spirito, la tranquillità della coscienza e della vita. E tutto questo non lo trova se non chi vive ignorato. Il detto del Vangelo va umanamente corretto in questa guisa: «Beati i poveri di spirito, perchè essi vivono ignorati!» Descartes lo disse prima di me. Essere oscuri, non contare per nulla nel mondo, e saperlo, e contentarsene, e fare modestamente un po' di bene intorno a sè, fuori d'ogni preoccupazione di lode e d'applauso, ecco la vera virtù, ecco la sola possibile felicità dei mortali… Ed è quello che ho trovato qui, in quest'angolo rimoto del mondo, e che non voglio perder più… No, no, no, in fè di Dio!”

Si piantò dritto innanzi a me, e ponendomi sopra una spalla la sua destra, riprese con accento tra di melanconia, tra d'ironica beffa:

“Sapete voi che cosa sono gli applausi del mondo? Vi hanno essi allappato la bocca col loro acre sapore gli encomii volgari della gente? Vi ha fatto girare la testa quel «fiato di vento che or vien quinci ed or vien quindi» e che è il mondano rumore? Vi è salita al cervello l'orgogliosa ebbrezza d'una rinomanza che fa ripetere ai polluti echi della pubblicità il vostro nome?.. Io, io l'ho provata la miseria di quell'acuto diletto; e sciolto, qual ora mi sono, da ogni laccio di vanagloria, posso pur dire che mi sono arrampicato sino sul piedistallo della celebrità, e, come nell'anima gli spasimi dei grandi, come nella mente le torture del genio, ebbi nella vita le immani superbie dei veri trionfi.”

Si cacciò nelle arruffate chiome ambe le mani e se ne serrò la testa con moto quasi convulso.

“E il mondo mi conosceva egli? M'apprezzava egli a dovere?.. No, lasciate ch'io lo dica. Nella corona di spine che impose alla mia fronte, era troppo poca la sacra fronda d'alloro… Il mondo!.. Perchè vi affannate a meditare, lottare nella battaglia de' pensieri, travagliarsi a scrivere per esso? Malaccorto! Non lo sapete? Su cento lettori, novanta sono mediocrità e peggio, svogliati, inintelligenti e superbi che non vi capiscono e v'insultano nei loro giudizi, non meno colle loro lodi che colle loro censure: sui dieci che rimangono, nove sono invidiosi, i quali, quanto maggiore il vostro merito, tanto più vi odiano: uno forse, – uno solo! – per gran ventura, vi comprenderà, forse, e porrà in voi stima ed affetto… Uno!.. felice ancora chi lo trovi!”

Fece una pausa, e tornò a passeggiare per la stanza. Io sentiva che il suo cuore era presso a traboccare in confidenze, mi guardai bene dal dir parola, per timore che una voce imprudente potesse richiamarlo al suo solito scetticismo diffidente.

Si fermò di nuovo innanzi a me e mi disse commosso e quasi stentatamente:

“E io, quest'uno, non l'ho trovato… non l'ho trovato mai! Nessuno mi amò… Da ultimo, quando fattomi umile ed oscuro, si ebbe compassione del povero maniaco; il poeta fu spregiato o temuto, odiato quasi sempre. Io non sono di quest'epoca. Appartengo o ad un passato che non so nemmanco quale, o ad un avvenire che per ora non accenna neppure di effettuarsi. Ho amato la verità, e gli uomini mi disamarono… Voi, voi medesimo avete alcuna curiosità per l'incognita che io rappresento e che vorreste spiegare; ma alcuna affezione l'avete voi per me?”

Vedendo che mi accingevo a rispondere, s'affrettò ad impedirmelo bruscamente.

“Oh non parlate!.. Crederei io alle vostre parole?.. E non vorrei che mentiste!.. E se mai aveste il coraggio di gettarmi in faccia una verità dolorosa, ne soffrirei tuttavia, tanto ancora in me rimane del vecchio uomo!.. E poi, me… veramente me, qual fui… conoscete voi bene?”

Mi prese una mano; le sue erano fredde come ghiaccio.

“Le anime nostre simpatizzarono: la vostra intelligenza comprese la mia. Lasciatemi questa illusione. Avete scorta la superiorità della mia mente e non ve ne adontaste meco, nè mi metteste odio: per ciò… Vi stimo… Oltre questo basso mondo, ci troveremo un dì, – ho questa credenza – là dove brillano di tutta la loro luce, puri d'ogni opaca volgarità, gli spiriti nostri. Vedrete allora che non avete avuto torto. Vedrete come all'interiore abbia infelicemente corrisposto il mio fisico inviluppo. Non vi pentirete d'avermi creduto da più.”

Si pose sulla fronte la mia mano che teneva ancora fra le sue. Quella fronte ardeva, come se travagliata dalla febbre.

“Qui dentro si è combattuta a lungo e si combatte ancora talvolta una tremenda battaglia: quella cui legò Adamo all'umanità; quando al dilemma postogli dal Creatore, rispose: ch'io pur muoia, ma ch'io pensi! la battaglia dell'intelligenza finita coll'infinito; una battaglia che non si vince mai!..

“Credete voi che un uomo possa, o sull'ali dell'ispirazione, o cogli sforzi faticosi della scienza, elevarsi tanto alto da abbracciare tutto il corso dell'umanità e farne risaltare il perchè della esistenza, quel perchè ond'è costituita la finalità dei nostri destini?

“Qui è tutto il segreto della creazione; questi sono i misteri eleusini, a cui forse è iniziazione la morte… Io mi ruppi la mente contro quelle tremende porte di ferro… Che cosa parlano questi immensi geroglifici scritti a sistemi di pianeti nell'infinito spazio? Che cosa sussurra questo vermiciattolo che pensa, un puntino nel gran volume, quest'atomo che è l'uomo? Tutto si viene ad infrangere innanzi alle tenebre di questo perchè… E senza un sentore almeno di esso, credete voi possa esistere teologia, filosofia, scienza, poesia umana? Bene avvisati quelli che inventarono la rivelazione, e felici coloro che vi poterono credere! Senza questo punto d'appoggio, tutto oscilla nel vago e si perde nel nulla.”

S'interruppe ad un tratto, lasciò andare la mia mano, e le braccia gli caddero lungo la persona; la faccia gli si fece pallida, pallida.

“Ah! io vaneggio:” esclamò. “Voi mi direte pazzo… e forse lo sono!.. Ma gli è che la parola è pure un'inetta traduzione del pensiero… Compatitemi!”

XIII

Pensai di agevolare colle mie parole quell'effusione che mi pareva prossima a prorompere dalle labbra di lui:

“Nessuno vi amò, voi dite; ma questa ventura non si ottiene che ad un prezzo: quello di amare a nostra vòlta; e voi, avete voi amato, realmente amato qualcheduno nel mondo?”

“Se ho amato!” esclamò con impeto, “Dio buono! Era tutto amore la mia intelligenza; su tutto il creato si versava potente, desioso di sacrificarsi, il mio affetto. Cominciò la mia famiglia medesima a respingermi. Mia madre, – mia madre stessa, capite? – si vergognò d'avere a figliuolo un mostro qual ero io!..”

Feci un atto di stupore, quasi d'incredulità.

“Ah! ciò non vi par possibile. È una disgrazia sì grande che pare Dio non la dovrebbe mandare a nessuno, che raramente o non mai si vede intravvenire pure fra le tante tristizie del mondo, avere una madre e non conoscerne i baci e le carezze!.. Ebbene, tale sventura toccò a me… Mia madre mi disamò per riportare tutto il suo affetto sui miei fratelli; e quando la morte glie li tolse, tutti! per lasciarle soltanto il negletto, quasi rendendo in colpa me della crudeltà della sorte, il suo disamore divenne odio…

“Finchè erano vissuti, i miei fratelli mi avevano disprezzato e maltrattato. Mi disprezzarono e maltrattarono i compagni nel collegio, dove mia madre mi aveva relegato lontano dalla casa paterna per non aver turbati i suoi occhi dalla mia presenza. Fui fatto lo zimbello di tutti, e siccome ero il più debole, tutti ne abusarono per amareggiarmi con ogni sorta di oltraggi. Chi può dire quanto dolore s'ammassi di questa guisa nel cuore d'una creatura che sente! Ah! se io non divenni un tristo, convien pur dire che ero stato creato buonissimo. Io piansi meco stesso da solo, e perdonai sempre. Finalmente un giorno trovai fra quelle persecuzioni un difensore e me ne feci un amico… Gran Dio! lo feci padrone dell'anima mia, il mio esemplare, il mio idolo!.. Quanto io lo abbia amato nessuno lo seppe, nè anch'egli… Eppure io stesso doveva… io stesso!..”

Si coprì colle mani la faccia e stette lì muto alcuni minuti, ma singhiozzava penosamente. Poscia si lasciò cadere abbandonatamente sur una seggiola a me dappresso, e, mostrandomi il volto sconvolto da una profonda e viva angoscia, riprese con voce debole e sommessa:

“Egli era bello, robusto, ardito ad ogni esercizio di corpo, ad ogni audacia atto e valente. Pietà lo prese di questo scimmiotto che era la vittima di tutti. Sotto la protezione della sua forza io conobbi un po' di pace. Lo ricompensavo, facendo tutti i suoi compiti ed amandolo come si amerebbe l'incarnazione del buono e del bello sulla terra. Ero suo schiavo. M'avesse detto: «gettati da questa finestra,» vi giuro che l'avrei fatto.

“Fuor del collegio i medesimi scherni e le medesime vergogne, meglio coperte dalla vernice della cortesia ma non meno maligne e spietate; e da queste non poteva più, come prima, difendermi quel tale che io amava sempre con tutta la potenza dell'anima mia… Non poteva, e più ancora non voleva più… Esso non mi aveva amato mai: era stata una sprezzante compassione la sua. Quando nella debole creatura, ch'egli aveva difeso, avvertì un'intelligenza superiore alla sua, mi odiò.

“Col giungere dell'adolescenza anche in me erano nate nuove e indefinite aspirazioni: quelle tormentose e gradite aspirazioni che inconsciamente spingono l'anima verso l'ideale e sollecitano e addestrano alla grandezza l'ingegno predestinato. Ero stupito e confuso di me medesimo, non mi riconoscevo più. Stimatomi io stesso fino allora l'ultima fra le creature viventi, mi sentivo delle vampe superbissime d'una eccelsa ambizione. Me ne vergognavo, nascondevo accuratamente nel mio timido silenzio tali accessi di pazzia; avrei voluto dissimularli anche a me stesso. Ma nei miei sogni pertinacemente tormentosi, mi appariva la felicità seducente del sorriso, non solo della bellezza, ma della gloria. Un giorno scoppiò in me l'ispirazione come un fulmine; quasi per un lampo, mi vidi a un tratto illuminato l'esser mio e il mio destino, e scoperto il segreto delle mie angosce mentali. Ero poeta!

 

“Poeta! Re della terra, re del pensiero! Favorito da Dio d'una favilla uguale alla sua luce divina; sentendo nel proprio essere più vasta l'orma del suo spirito creatore; capace di padroneggiare il mondo dell'ideale, di apprendere il sovraintelligibile, di accostarsi al miracolo della creazione! Essere infimo, debole, il più dispregiato degli uomini e conoscersi degno della più splendida corona! Comprendete voi quali intime esaltazioni e quali segreti affanni, quali inquiete lusinghe e quali terribili accasciamenti mi si avvicendassero e turbassero l'anima nella mia oscura giovinezza?..

“Oh i miei primi versi!.. Erano l'esplosione d'un delirio d'amore, erano il poema della gioia amorosa della vita, erano il misterioso canto della natura tradotto in armonia di parole, in palpiti di cuore umano. Che cosa non avrei dato per potere ad un tratto farli suonare potenti all'orecchio del mondo, e comparire innanzi ai miei concittadini cinto di quella splendida luce di poesia che mi sentivo nell'intelletto e nel cuore? Eppure avevo vergogna di me e dell'opera mia; e la nascondevo agli sguardi di tutti colla cura con cui si nascondono le traccie d'un delitto. Se il mondo avesse mai risposto colla beffa a quel vero sangue mio sgorgatomi dall'anima? Guai! Li amavo tanto quei poveri versi!..

“Amavo!.. Oh non amavo soltanto lo sfogo del mio cuore, non amavo soltanto l'amico mio… Amavo una fanciulla fieramente leggiadra come un superbo fiore di stufa signorile. Aveva ella tutto in suo favore: potenza conquistatrice di bellezza, nobiltà di natali, ricchezza di fortune, felicità d'ingegno. Era una seduzione il vederla, una malìa, un incanto, un'ebbrezza l'avvicinarla, l'udirla, il riceverne la fiamma dello sguardo. E l'amavo… io povero, io meschino, io di sì brutte forme!

“Era per lei che godevo d'esser poeta; era innanzi a lei che volevo presentarmi cinto dei raggi della gloria; era ai suoi piedi che ambivo deporre la mia corona d'alloro non ancor conquistata.

“Avevo letto di quella tale principessa che baciò sulla bocca il gobbo poeta addormentato, per le dolci cose che uscivano da quelle labbra; sognavo che di me pure la sublime armonia del canto facesse obliare la meschinità della persona.

“Così non poteva durare. Deliberai aprire il mio animo a quell'unico amico che avessi.

“Alfredo mi sfuggiva, pareva quasi vergognarsi di me; sempre più avvenente, audace, temuto da ogni competitore pel valor suo, desiderato in tutti i salotti per la sua piacevolezza, primo in tutto ciò che imprendesse e in ogni dove comparisse, cavalcatore esperto come nessun altro meglio; Alfredo godeva nel mondo i più invidiabili successi.

“Suonava con arte e sentimento, componeva romanze, ballabili e melodie che le signore eseguivano con diletto nelle serate invernali; scriveva gaie leggerezze su pei giornali e molli versettini negli Album delle dame, che gli valevano una certa gloriola di letterato e il titolo d'uomo di spirito, cui egli si confermava mercè una cara franchezza e subitaneità di motti e di rimbeccate. Era uno di quegli ingegni che riescono in ogni cosa a cui s'accingano, ma ai quali la deplorabile facilità impedisce di nulla mai approfondire.

“Io gli svelai in una i miei due eccelsi amori: quello alla Musa e quello alla mia donna. Gli dissi vivere oramai per quelli soltanto; esser quelli la mia ultima ragione, la luce che m'illuminava il pensiero, lo scopo di tutto.

“Sorrise, scherzò dapprima, di poi il mio ardore parve colpirlo, il mio entusiasmo apprendersi anche a lui; tacque per un poco, divenne serio, anche i suoi occhi lampeggiarono; sollevò la fronte e la scosse superbo come per dire: «ancor io, e forse più, sono degno di tanto.» Mi recitò, declamando alcune delle sue ballate; trovò freddi gli elogi ch'io glie ne faceva. Tentò cambiar discorso; pareva inquieto e malvoglioso; ad un tratto chiese di poter leggere i miei versi: tremando glie li affidai, e se ne partì con essi.

“Stette più giorni senza farsi vedere. Avrei voluto andare in casa di lui, e non osavo. Venne finalmente una sera da me. Dalla finestra, che guardava verso l'occaso, appariva in fondo all'orizzonte una striscia di nubi color sangue, stesa là dove il sole era da poco tramontato. La luce crepuscolare da quelle nubi diffusa illuminava soltanto con tinta giallastra la mia cameretta e la fronte di noi due che ci eravamo appressati alla finestra. All'entrare d'Alfredo io aveva impallidito come uomo che aspetta la sentenza del suo avvenire; e il cuore mi palpitava forte forte nel petto. Ci tenevamo stretti per le mani; le mie ardevano, le sue erano fredde come ghiaccio. Anch'egli mi parve un po' commosso; esitava a parlare, di certo era alquanto turbato.”