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La Carbonaria

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PERSONE CHE RAPPRESENTANO LA FAVOLA

Pirino innamorato

Forca suo servo

Mangone ruffiano

Filace suo servo

Dottore

Filigenio vecchio

Panfago parasito

Alessandro giovane

Melitea. innamorata

muto

Capitano de’ birri

Raguseo

Isoco. suo amico.

La favola si rappresenta in Napoli.

ATTO I

SCENA I

Pirino. innamorato, Forca. suo servo.

Pirino. Avea inteso dir mille volte che i seguaci d’amore erano il riso, il diletto, il gioco e tutte insieme le compite dolcezze. Misero me, che provo tutto il contrario; ché le malenconie, i noiosi pensieri, le fatiche, i disagi, i sospetti e le gelosie sono i suoi perpetui compagni: e veramente, chi le pruova conosce che queste sono vere e l’altre imagini di dolori.

Forca. Buon dí, padrone.

Pirino. O Dio, che amara compagnia m’han tenuto questi tutta la notte! ho desiato il giorno per ragionar con Forca, il mio servo, d’un mio sospetto, né posso ritrovarlo; oh, sei tu qui? t’ho chiamato tutta questa mattina.

Forca. Anzi v’ho risposto prima che voi mi chiamaste. Ma or con chi ragionate?

Pirino. Con meco.

Forca. Chi è questo meco? guardatevi che non sia qualche mal uomo.

Pirino. Dico: «meco», con me medesimo.

Forca. Dunque voi e meco son due persone?

Pirino. Non t’ho detto tante volte che l’anima mia non è dove ella abita, ma dove ama? avendo io l’animo fisso nell’amato oggetto, resto col corpo abbandonato senza anima; or ch’era ritornata al suo luogo, ragionava con lei.

Forca. Conosco che siate innamorato e malamente, perché sempre avete in bocca l’amato oggetto, andate parlando solo e raccontando i vostri difetti a chi non ve li dimanda. Ma, di grazia, voi di che ragionavate con voi?

Pirino. Apunto di te che pur un tempo eri mio scorporato, non lasciavi mai far cosa per compiacermi; non ho seguitato piacer in mia vita, di cui tu non sia stato il mezano. In somma, io era tutto il tuo bene, or non so come son divenuto tuo figliastro: o fingi o t’infingi non accorgerti de’ miei affanni, e sai che solo sei segretario de’ miei pensieri: non t’amo da servo ma da fratello, e ti dono sempre.

Forca. È vero che mi donate sempre, ma una intrata di cinquanta bastonate il giorno: ché servendovi o disservendovi, senza mirar dove date, alla luce, all’oscuro, con ogni cosa che vi trovate in mano, mi fate piovere adosso una tempesta di bastonate traditore, che non è ora che non abbia da stridere sotto le vostre mani.

Pirino. Tu ben t’accorgi, tristarello, quanto t’ami e quanto vaglio senza te.

Forca. Non mi mirate negli occhi, che non vi paia che ci manchi un pugno; non il mustaccio, che non vi stia bene uno sgrugnone; non nello stomaco, che non vi disegniate un calcio; non le spalle, che non desiate misurarle con un legno. In somma, non avete pelo sovra la persona, che non mi volesse scacciare le mosche da dosso con un querciuolo. E piacesse a Dio che vi contentaste de dieci o venti; ma quando cominciate, non lasciate mai, se prima non fate prova qual sia piú duro o la schena o il bastone: talché le mie carni son diventate come carni d’asino.

Pirino. E se pur ogni mille anni ti dessi qualche colpicciuolo, lo fo da scherzo: non sai, Forca mio caro, che chi ti vuol bene, ti fa piangere? Accadono ben spesso fra gli innamorati delle questioni e delle bòtte, e pur non lasciano d’amarsi: son segni d’amore.

Forca. Se i segni d’amor che devo aspettar da voi saranno di darme bòtte e di farmi piangere, da or vi disgrazio di quanto amore sète per portarmi giamai. I vostri scherzi a me non piacciono: gli asini soli, quando scherzano, si dán morsi che si stracciano la pelle, e calci che si rompono l’ossa.

Pirino. È cosí gran cosa soffrir due bòtte per un amico?

Forca. Cancaro! non è parte in me che non mi doglia, e mi fate portar le carni sempre di piú colori de’ panni d’arazzi. Se l’innamorata vi fa alcun favore, le consolazioni son le vostre; se mala ciera, con una finta occasione – ché son l’armi de’ padroni contro i poveri servi – sfogate la rabbia contra di me, che non ci ho né colpa né peccato: talché ho da patir la penitenza per me e per voi.

Pirino. Te ne cerco perdono, dammi il castigo e non se ne parli piú.

Forca. Ve lo darei per certo volontieri; ma dubito che or togliendolo da scherzo, quando poi vi saltasse la mosca non me lo rendessi da senno e con l’usura ancora.

Pirino. Ti giuro su la mia fé di non toccarti piú mai.

Forca. Avete giurato cosí mille volte; ma montandovi quel maladetto ghiribizzo, tornate come prima e peggio. Un giorno ne farò le mie vendette. Ma perché usate meco sí piacevoli parole? devete aver bisogno di me. Tutta la notte v’ho inteso suspirare, non so se da amore o da umore. Ditemi, che avete?

Pirino. All’infermo dá piú noia l’aver a raccontare a ciascun la sua infirmitá, che l’istessa febre. Se lo sai meglio di me, perché farmelo dire? Sappi, fratellino mio caro, che non vive uomo piú scontento di me sovra la terra; e se non lo credi, mirami in faccia, vera ambasciatrice dell’angoscie dell’anima. Non passava mai ora che la mia carissima Melitea non mi avesse mostrato segni di corrispondenza di amore e datami commoditá di ragionarle o di vederla almeno, conoscendo bene che viveva in lei e per lei. Or son otto giorni, anzi otto mesi, anzi otto lunghissimi anni che non compar né per usci né per fenestre: io dalla mia parte non l’ho dato occasione di sdegnarse meco, onde dubito che altro fuoco la scaldi. Ella è di bellezza tale che né per l’addietro s’è mai veduta né per l’innanzi fia per vedersi: però sollecitata e presentata da molti. È la donna piena di varie voglie, non si sazia mai, facile a piegarsi; e la loro costanza è l’essere mobili e incostanti.

Forca. O poveri innamorati, che ferneticano senza febre! E perché non v’imaginate che abbia rotto lo scudellino del belletto, o che abbia i suoi mesi e che i cerchi degli occhi li stieno lividi, o che abbia il ranno troppo forte che l’abbia scorticato la fronte, e però non si lasci vedere?

Pirino. In somma, ella ará mutato voglia.

Forca. Mutatela ancor voi.

Pirino. Subito dái consiglio, perché non ti duole come duole a me. Io non posso.

Forca. Forzatevi.

Pirino. Ogni cosa può essere, ma che muti pensiero non mai. Ami qualunque li piace, facciami quante offese ella puote, non sará mai che quei disgusti e quelle offese non mi sien piú dolci di quante dolcezze potessi aver in questa vita.

Forca. O padrone, è caduta una lettera dalla sua fenestra: eccola, mirate se viene a voi.

Pirino. Conosco la sua mano. La sottoscritta dice: «La vostra viva e morta Melitea». O anima mia, so che non vuoi che viva vita cosí disperata senza darmi novella di te. Ma che cosa mai potrai tu avisarmi che non mi sia di affanno e di cordoglio? o mia dolce morte, o mia amara vita!

Forca. Leggetela liberamente.

Pirino. «Caro mio bene, poiché non posso dirvelo a bocca, ve lo scrivo in questa carta con speranza che vi venghi in mano. Mi dispiace darvi cosí amara novella, ma soffritela con pacienza. Mangone mi ha venduta al dottore per cinquecento ducati; e comandandomi che mi fusse adobbata per andar a lui, un dolor cosí forte mi spinse il core, che cadei tramortita. Egli a cui sono noti i nostri amori, per stizza m’ha chiusa in una camera e serrati gli usci e fenestre con chiavistelli: e son tre giorni che non mi dá cibo, e vuol o che vada al dottore o muoia cosí di fame. Sapete bene come è dispettoso e vuol vincer ogni cosa, e io son risoluta e ostinata. Onde pria che la fame m’uccida, m’ucciderá il dolore in pensar solo che non abbia ad esser vostra. Talché fra poco darò il corpo vile alla terra, e a voi resterá lo spirito immacolato e bello per la fede…». Non posso intender piú, sono intenerito di sorte che mi dissolvo tutto in lacrime.

Forca. Le donne sono di natura tanto dolci che, per duro stia un uomo, l’inteneriscono e lo risolvono in lacrime.

Pirino. «… Quando sarò portata in chiesa morta, il che fia presto, venite a vedermi; e quando son partite le genti, baciatemi e non abbiate a schivo e in orrore quel corpo ch’è stato albergo d’un’anima vostra divota. Ponetemi le mani al petto, ché troverete certe coselline d’oro, parte donatemi da voi e parte mie, segnali infelici per trovar il mio misero padre: vi priego a ripigliarvele e tenerle appresso di voi, accioché vi rinfreschino la memoria de’ nostri amori. Vi chiedo combiato per questa, ché moro senza vedervi: se vi avessi fatto qualche dispetto, perdonatemi, ché non lo feci mai per propria volontá, ma per pietá che avea della vostra vita e per moderar le vostre passioni, quando scorgeva ch’erano in voi nel maggior colmo; e pregate Iddio per me, ché, avendo tanto patito nella vita, mi dia pace in Cielo doppo la morte». O occhi miei, voi sète di pietra, poiché parole cosí miserabili non ponno cavar da voi vivi fonti di lacrime. Ahi, che moro per non poter morire! O morte, tu vinci tutte le cose e non puoi vincer me! Senza ragione ti chiamano amara, poiché per te si finisce ogni amaritudine. Io sto in vita assai piú amara della morte. Ahi, ruffian rustico, incolto, nemico delle cose belle, hai fatto un gran furto al mondo, celando le sue bellezze. E come resterá il mondo senza lei? Dunque morrá di fame chi potrá dar pastura a mille occhi affamati della sua vista? Sta dunque prigione la vindice della mia libertá e che può carcerar mill’anime con la sua bellezza? tu serrata in tenebre, di cui gli occhi luceno piú d’ogni sole? e dove tu non sei, ivi son oscurissime tenebre? Morrá Melitea, e io resterò vivo? Tu per non essere d’altri hai voluto piú tosto esser della morte; e io che son cagion della tua morte voglio restar in vita? io restar in vita, per la cui vita tu sei morta? orsú, convien morire, e morrò. Ma dove sono? Forca, dove sei? cosí ti dogli delle miserie mie?

 

Forca. Taci, la casa di Mangone apre la gola e lo vomita fuori.

Pirino. Un cibo di cosí cattiva digestione non può digerirlo.

Forca. Nascondiamoci e ascoltiamo, ché da’ suoi maneggi ne caveremo principio di qualche garbuglio: ogni suo trattamento ne potrebbe giovare.

SCENA II

Mangone ruffiano, Filace servo, Pirino, Forca.

Mangone. Filace, olá, non odi? cala qua giú presto.

Filace. Eccomi.

Mangone. Ho inteso che da Ragugia sia venuta una nave carica di schiavi: vo’ andare infino al molo per veder se vi sia cosa da vendere o barattare. Tu resta alla guardia de’ schiavi; ché levandogli gli occhi da sovra, chi nasconde, chi rubba, chi s’empie il ventre e chi machina di fuggire.

Filace. Andate sicuro, ché non mi smenticherò del mio ufficio.

Mangone. Se venisse quel di Calabria per la Gobba, digli che non ne chiedo meno di dugento ducati.

Filace. Voi dovreste pagar chi ve la togliesse di casa: ella è brutta di volto e bruttissima della persona, col mento fitto nel petto, con le reni inarcate, con le groppe uscite fuori, che par che d’ora in ora aspetti la soma.

Mangone. Non mi mancherá il mio prezzo: conosco l’umore. Quando il martello di amor lavora, batte e cava piú scudi d’ogni martello.

Filace. Che dirò a quel genovese della Macrina?

Mangone. Daglila per quel prezzo che vuole: mangia per diece e sta piú magra d’una gatta che mangia lucertole. Ogniun che la vede cosí asciutta stima che in casa mia non si mangi se non biscotto e vi si digiunino tutte le vigilie. Mi ha fatto spendere piú che non vale, per darle tartarughe boglite, suppe la mattina e vuova fresche la sera, quando va a dormire, per ingrassarla; e se la poni nuda incontro al lume, traspare come una lanterna, che se le ponno annoverar l’ossa dentro. Son risoluto farle un buco sotto le reni fra cuoio e pelle e farla gonfiar con un mantice, come si fa a’ buoi vecchi per fargli parer grassi, quando si portano a vendere.

Filace. Che faremo di Demonica?

Mangone. Perché è tanto leggiera che con quattro carezzine si lascia volgere come l’uom vòle, lasciamola per quei di bassa mano, per dir che abbiamo una bottega generale ove son mercanzie d’ogni sorte. Io non arei pensato mai che il dottore, essendo vecchio, avesse pagato cinquecento ducati per Melitea: conobbi che l’amava non come quei ch’hanno cervello, ma come quei che ne son privi.

Filace. I legni vecchi ardono piú volentieri e senza fumo.

Pirino. (Ascolta, Forca).

Forca. (Ascolto).

Mangone. Sia benedetto Iddio, ché son uscito da quel fastidio: mi facea spender un tesoro per comprar muschio, zibetto e profumi. Tutta è ricci e belletti e abbigliamenti e attillature, e tutta cerimonie, però cosí amata da quel napolitano che non è altro che fumo, schiuma, neglia e vento: vivono di nebbia e si pascono di fumo, e chi se impaccia con loro si trova con le mani piene d’aria.

Filace. Se venisse Forca o Pirino, che dirogli?

Pirino. (Forca, ascolta bene).

Forca. (Il vostro dir: «ascolta», non mi fa ascoltar bene: tacete voi e ascoltate).

Mangone. Guardatevi da loro come dalle serpi! Quando entrano nella strada, non gli levar gli occhi da dosso: se caminano e tu camina, se si fermano e tu ti ferma. Volgi gli occhi dove si volgono, e mira dove mirano: se s’accostano alla casa, sgombra, fuggi, chiudi le porte, serra le fenestre, puntella dietro, tura i buchi, sbalestra gli occhi per ogni cantone, poni tutti gli occhi della casa in agguato: ché di niuno ho tanta paura quanto di loro. Conosco che ne sta innamorato e non ha danari; e non potendola avere con legittimi modi, ordisce furbarie, tenta ogni via, ardisce ogni impresa, non teme rischio o periglio, sta esso in travagli e dá travaglio agli altri: però sta’ in cervello, ché per ogni scappata te la rapisce. Ha quel suo Forca che, se ben spende l’autoritá sua per quel che vale, prosume saper piú di tutti i tristi del mondo.

Forca. (Fa’ quanto sai, ché ti ingannerò).

Mangone. In somma, guárdati, perché ho molti inimici.

Forca. (Perché sei solo amico di te stesso).

Filace. Morendo smorberá il mondo.

Mangone. Però vive, ché l’inferno l’abborrisce. Ma faccia quanto può, differirla può ben, ma non fuggir la forca che gli sta apparecchiata.

Forca. (Ed a te il fuoco).

Mangone. O come campeggiarebbe bene una forca in mezo due forche!

Forca. (E tu appresso me, che sei un ladro).

Mangone. Se venisse alcuna vecchia con qualche scusa, mandala subito via: ché fa piú una ruffiana in una ora, ch’un innamorato in cento anni.

Filace. Riposatevi nella mia diligenza.

Mangone. Io vo al molo, al raguseo: entra e sèrrati dietro.

Filace. Entro e mi serro dietro.

Forca. (Andiamcene ancor noi).

SCENA III

Dottore, Mangone.

Dottore. M’hai tolto la fatica di venire a casa tua. Io non so perché non m’abbi mandata Melitea, se non lo fai ché cosí straziandomi, me la facci ricever piú caramente.

Mangone. Certo non per mancamento di voluntá o di diligenza; se non che, ordinandole che si ponesse in ordine per venir a trovarvi, sovrapresa da un strano accidente, cascò morta; e se non che m’accorsi che sotto le vesti cosí pian piano le palpitava il cuore, io la mandavo a sepelire.

Dottore. L’altro giorno la viddi bellissima.

Mangone. Se la vedeste adesso, non la riconoscereste, cosí son gli occhi scoloriti e le labra smorte e sparito il fior delle guancie. Io son furbo e conosco al naso le sue infirmitá. Ella sta martellata di Pirino; e quando intese ch’era stata compra da voi, trafitta dalla disperazione, le venne quello accidente. La sua infirmitá è piú finta che vera: vorrebbe esser venduta a suo gusto, ma s’inganna, ché io uso ostinazione con gli ostinati, e con ostinata perfidia vincerò la sua perfidia. Son tre giorni che non le do da mangiare; e se non si risolve di far a mio modo, io perderò i cinquecento ducati, voi l’innamorata ed ella la vita.

Dottore. Dio me ne guardi; vorrei piú tosto perder quante robbe ho al mondo! Ma Pirino che t’offerisce?

Mangone. Pirino è un giovane attillato, pulito, che non ha che fare se non l’amor con le fenestre, non ha altro in bocca che «occhi», «vita», «speranza», «spirito» e «anima»; e pensa con le sue levate di barretta, inchini e parole profumate tormela di mano; ma erra, ch’io vo’ danari, danari.

Dottore. Perché Melitea ama piú tosto costui che me?

Mangone. Non altro ch’una maladetta usanza delle donne, che quando sono pregate, ancorché se ne morissero di voglia, se ne stanno in contegno e ci vogliono straziare. Ma le bastonate alfin le fanno far quello per forza, che di sua volontá non vogliono fare.

Dottore. Essendo in mio potere, non volendomi per amante, mi ará per padrone. Ma toltone che sia un poco di tempo, del resto non sono io meglio di lui in tutti i conti?

Mangone. Dite il vero.

Dottore. Che ha un giovane piú di me? In quel fatto proprio, in cambio di far carezze alle povere donne, tutte le dimenano e le strappazzano senza rispetto; noi vecchi abbiam un natural piú rispettoso, sempre le comparemo innanzi col capo chino e le trattiamo con piú creanza. A’ giovani quel fatto è fin de’ loro amori, e spento in lor quel disordinato appetito, è spento l’amor loro; a noi per contrario, non potendo saziarcene, l’amore è sempre nuovo. Ma io vo’ scoprirti il mio pensiero, Mangone mio. So ben che in questa etá non devrei cader in simil colpa, ma con fortezza e costanza resistere alle passioni, e devria far un guadagno della mia vergogna, tacere e soffrire: ché se è cattivo il fare, è peggio il palesarlo; ma lo fo non per fin di diletto, ma per desiderio di successione. Quando morí, mia moglie Brianna mi lasciò una fanciulla chiamata Alcesia; e volse la mia disgrazia che, fuggendosene la balia per certi rispetti, se la menò seco molti anni sono in Ragugia: mandai e non potei trarne nulla di costrutto, restai sola e infelice reliquia del mio legnaggio, del che son vissuto e vivo da disperato; e trovandomi da quarantamila ducati di facoltá, non avendo a chi lasciarla, mi par assai duro… .

Mangone. Lasciatela a me, ché ve ne arò assai obligo.

Dottore. …Tanto piú che ho una dozzina di parenti larghi che mi fanno il córso adosso degli anni che vivo, e pregano Iddio che muoia presto, per aversegli a godere. La tua Melitea mi sta molto a cuore: a lei sono drizzati tutti i miei pensieri, e sento tirarmi da una viva forza ad amarla. Poi è tenerina, poco fa levata dalla balia, come un capretto di latte; assai, per me che son vecchio, con lei mi pareria ringiovenire; e se piacesse a Dio che ne avesse un figlio, me la torrei per moglie e coprirei il fallo con nome di matrimonio; e sarebbe la sua, la mia e la tua ventura insiememente: ch’io sarei sodisfatto, ella ricca e tu padron della mia casa, ché nello avanzo della mia vita sarebbe fra noi commune la stanza, le facoltá e le mie cose piú care. Però non vorrei che fussi cosí austero con lei; vorrei che il suo carcere fusse tanto che bastasse a farmi amare, non a tormentarla. E come potresti tu batter quel corpo, che non battessi il mio cuore? però vo’ che le porti alcun presentuccio da mia parte, ché i doni sono di valore inestimabile a farsi amare dalle donne.

Mangone. Ella è vivanda riserbata per la tua bocca.

Dottore. Mangone, sai che vorrei dire?

Mangone. T’intendo: che Pirino non mi faccia qualche burla. Ti rispondo che le burle sono bene ad inventarle e ordinarle, ma a far che riescano, eh ci vuol altro che parole!

Dottore. Intendo che ha un servo molto astuto e sottile…

Mangone. Come quello uccello che porta il grano al molino.

Dottore. …«e che non ha tanti peli in testa, quante lingue che gridano:» forche e capestri; però prego Iddio, ché tosto gli succeda.

Mangone. Non bisogna pregarne Iddio, ché a questo fine ce lo condurranno le sue buone opre: ha mal vissuto e mal morirá; e il padron non è meglio di lui, servo degno di tal padrone.

Dottore. Mi vo’ partire; il presto ti raccommando.

Mangone. Ed io vo’ al molo a trovare il raguseo.

Teised selle autori raamatud