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Brani inediti dei Promessi Sposi. Opere di Alessando Manzoni vol. 2 parte 2

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II.
Il principio del Romanzo nella seconda minuta

Gli Sposi promessi
CAP. I

Quel ramo del lago di Como che volge a mezzogiorno, chiuso e come guidato da due catene non interrotte di monti, stendendosi in seni e golfi d'ineguale grandezza, a seconda dello sporgere e del rientrare di quelli, viene quasi tutto ad un tratto a ristringersi e a prender corso ed aspetto di fiume tra una montagna ed un'ampia riviera, formata lentamente dal deposito di tre grossi e vicini torrenti. Il lungo ponte, che in quel luogo congiunge le due rive, rende ancor più sensibile all'occhio questa trasformazione, e par che divida il lago dall'Adda. A diritta, la testa del ponte posa su le radici del monte Sanmichele; l'altra è piantata nel lembo della riviera, che scende con lento pendìo, appoggiata alle falde della montagna nominata il Resegone dai molti suoi comignoli acuti e separati a guisa d'una sega. Il lembo estremo, interciso dalle foci dei torrenti, è di nuda e grossa ghiaja, e ad intervalli uliginoso. Ma dove il terreno comincia a sollevarsi sopra le escrescenze del lago e il traripamento dei torrenti, tutto è prati, campi e vigneti, sparsi di ville e di paesetti; al di sopra, dove l'erta si fa più ripida, e il monte comincia a separarsi in promontorii e in valli, sono selve di castagni, di carpini, di faggi, e al di sopra ancora le ultime creste dei monti, in parte nudo ed eretto macigno, in parte rivestite di verdissimi pascoli o di foreste, e cosparse di casali e di tugurii. Lecco, la principale di quelle terre, e che dà nome al territorio, giace su la riva del lago, anzi viene in parte a trovarsi nel lago stesso, quando egli ingrossa: un borgo considerevole al giorno d'oggi, e che s'incammina a diventare città. Ai tempi in cui accaddero i fatti che siamo per narrare, Lecco era di più un passabilmente forte castello, e aveva perciò l'onore di alloggiare un comandante, e il vantaggio di possedere una stabile guarnigione di soldati spagnuoli, che insegnavano la modestia alle fanciulle e alle donne del paese, accarezzavano di tempo in tempo qualche marito, qualche padre, qualche fratello, e sul finire dell'estate non mancavano mai di spandersi nelle vigne per attaccare qualche grappolo ai tralci, ed aumentare così la vendemmia.

Dall'una all'altra di quelle terre, dalle alture al lago, da una altura all'altra, giù per le picciole valli interposte, correvano, e corrono tuttavia molte stradicciuole, ora erte, ora dolcemente inclinate, or piane, chiuse per lo più da muri composti di grossi ciottoli, e rivestiti qua e là di antiche edere, che dopo aver divorato colle barbe il cemento, ne fanno le veci, e tengono legato il muro, che fanno verdeggiare. Per qualche tratto quelle stradicciuole sono affondate e come sepolte fra i muri, di modo che il passeggiero, levando il guardo, non vede altro che il cielo e qualche vetta di monte; ad altri intervalli il muro, che dalla parte più bassa sostiene la strada a guisa di bastione, non s'innalza sul suolo di quella più che un parapetto, e quivi la vista del viandante può spaziare per varii ed amenissimi prospetti. Verso settentrione domina l'azzurro piano del lago, tagliato da istmi e da promontorii, e su le rive paesetti che l'onda riflette capovolti; a mezzogiorno l'Adda che appena uscita dagli archi del ponte si allarga di nuovo in picciolo lago, poi si ristringe, e serpeggia, e si prolunga fino all'orizzonte in larga e lucida spira: sul capo del riguardante si mostrano i massi elevati, ineguali delle montagne, sotto di lui il pendìo coltivato, i paesetti, il ponte, in faccia la riva opposta del lago, e risalendo per essa il monte che lo chiude.

Per una di queste stradicciuole tornava lentamente dal passeggio verso casa, al cadere del giorno 7 di novembre dell'anno 1628, il curato (questa è la prima reticenza del nostro autore) d'una delle terre accennate di sopra.

III.
Il principio del Romanzo nella copia per la censura148

Gli Sposi promessi
CAP. I

Quel ramo del lago di Como, che volge a mezzogiorno, chiuso e come guidato da due catene non interrotte di monti, stendendosi in seni e golfi d'ineguale grandezza, a seconda dello sporgere e del rientrare di quelli, viene quasi tutto ad un tratto a ristringersi tra una montagna, ed un'ampia riviera formata lentamente dal deposito di tre grossi, e vicini torrenti; e prende quivi corso ed aspetto di fiume. Il lungo ponte, che in quel luogo congiunge le due rive, rende ancor più sensibile all'occhio questa trasformazione e par che divida il lago dall'Adda. A diritta, la testa del ponte posa su le radici del monte Sanmichele; l'altra è piantata nel lembo della riviera che scende con lento pendìo, appoggiata alle falde della montagna nominata il Resegone dai molti suoi comignoli acuti e separati, a guisa dei denti d'una sega. Il lembo estremo, interciso dalle foci dei torrenti, è di nuda e grossa ghiaja e ad intervalli uliginoso. Ma dove il terreno comincia a sollevarsi al di sopra delle escrescenze del lago e del traripamento dei torrenti, tutto è prati, campi e vigneti, sparsi di ville e di paesetti. Più su, dove l'erta si fa più ripida, ed il monte comincia a separarsi in promontorii ed in valli, sono selve di castagni, di carpini, di faggi. Più su ancora le ultime creste dei monti, in parte nudo ed eretto macigno, in parte rivestite di verdissimi pascoli o di foreste, e cosparse di casali e di tugurii. Lecco, la principale di quelle terre, e che dà nome al territorio, giace su la riva del lago, anzi viene in parte a trovarsi nel lago stesso, quando egli ingrossa: un borgo considerevole al giorno d'oggi, e che s'incammina a diventare città. Ai tempi in cui accaddero i fatti che siamo per narrare, Lecco era di più un passabilmente forte castello, ed aveva perciò l'onore di alloggiare un comandante, ed il vantaggio di possedere una stabile guarnigione di soldati spagnoli, che insegnavano la modestia alle fanciulle ed alle donne del paese, accarezzavano di tempo in tempo qualche marito, qualche padre, qualche fratello; e sul finire dell'estate non mancavano mai di spandersi nelle vigne per attaccare qualche grappolo ai tralci, ed aumentare così la vendemmia. Dall'una all'altra di quelle terre, dalle alture al lago, da una altura all'altra, giù per le picciole valli interposte, correvano e corrono tuttavia molte stradicciuole, ora erte, ora dolcemente inclinate, or piane, chiuse per lo più da muri composti di grossi ciottoli, e rivestiti qua e là di antiche edere che divorando colle barbe il cemento, si pongono in suo luogo, e tengono collegato il muro, che tutto d'esse verdeggia. Per qualche tratto sono quelle stradicciuole affondate e come sepolte fra i muri, di modo che il passeggiero, levando il guardo non iscopre altro che il cielo e qualche vetta di monte. Altrove son terrapieni, o giranti sull'orlo d'una spianata, o sporgenti in fuora dal pendìo come un lungo scaglione, sostenuti da muraglie che piombano erte al di fuori a guisa di bastione, ma sul sentiero non sorgono che ad altezza di parapetto; e quivi la vista del viandante può spaziare per varii, ed amenissimi prospetti. Verso settentrione, domina l'azzurro piano del lago, tagliato da istmi, e da promontorii, e su le rive paesetti che l'onda riflette capovolti; a mezzogiorno l'Adda che appena uscita dagli archi del ponte si allarga di nuovo in piccolo lago, poi si ristringe e serpeggia e si prolunga fino all'orizzonte in larga e lucida spira: sul capo del riguardante si mostrano i massi elevati, ineguali delle montagne: al di sotto il pendìo coltivato, i paesetti, il ponte: in faccia la riva opposta del lago, e risalendo per essa, il monte che lo chiude.

Per una di queste stradicciuole tornava lentamente dal passeggio verso casa, al cadere del giorno 7 di novembre dell'anno 1628, don Abbondio *** curato d'una delle terre accennate di sopra. (Il nostro autore non la nomina; ed è questa la sua prima reticenza).

 

IV.
La fine del Romanzo nella prima minuta

Il tempo, che scorse tra le pubblicazioni e le nozze fu impiegato dagli sposi ai preparativi pel traslocamento a Bergamo e pel trasporto colà del loro modico avere, e Agnese, la quale, come il lettore se n'è avveduto, pareva sempre voler dominare nei discorsi, ma in fatto, povera donna, viveva per gli altri e faceva a modo dei suoi figlj, anche in questo caso si arrabattò per la causa comune: la vedova anch'essa non lasciava di dare una mano.

Forse taluno di quegli che credono di veder meglio negli affari altrui, a prima giunta, che non vegga colui di cui sono gli affari, dopo avervi molto pensato, domanderà per qual motivo quella famiglia volesse abbandonare il luogo natale, la sua casuccia, il suo picciol fondo, ora che era tolto di mezzo colui che gl'impediva di posarvisi tranquillamente. Per tre ragioni principalmente.

La prima: quantunque Fermo allora non ricevesse alcuna inquietudine per quella sua impresa di Milano, e la cattura fosse un titolo inoperoso, pure un sospetto, una reminiscenza, un mal uficio, poteva far risorgere l'antica querela e rimetterlo in Dio sa quale impiccio.

La seconda è una di quelle ragioni che nel parlare astratto non si contano quasi per nulla, ma che nel caso concreto sono più potenti a determinare che molte altre. Ciò che Fermo aveva sofferto e temuto nel suo paese gliel'aveva reso spiacevole: il suo paese gli ricordava le angherie d'un soverchiatore, i pericoli della prigione e di peggio, poi il furore del popolo, che lo cercava a morte. Memorie di questo genere disgustano l'uomo dai luoghi che le richiamano, e se quei luoghi sono la patria, ne lo disgustano tanto più, appunto perchè gli guardava prima con fiducia e con affezione. Anche il bambolo riposa volentieri sul seno della nutrice, rifugge a quello da tutti i terrori, cerca con avidità la poppa, che lo ha nutricato fin allora, e s'accheta quando l'ha presa: ma se la nutrice, per divezzarlo, intinge la poppa d'assenzio, il bambino torce con dolore e con pianto il labbro da quella nuova amaritudine, e desidera un cibo diverso.

Finalmente, i nostri sposi erano entrambi lavoratori di seta: triste circostanze gli avevano costretti a dismettere per molto tempo la loro professione; ma nè l'uno, nè l'altro aveva amore all'ozio; e il loro disegno era di ripigliare tosto il lavoro, per vivere tranquillamente e onestamente, e per nutrire ed allevare i figliuoli, che speravano, come tutti gli sposi fanno. Ora, l'industria della seta, come tutte le altre, era già decaduta spaventosamente nel Milanese, prima di quelle recenti sciagure; e queste le avevan poi dato l'ultimo crollo. Non è questo il luogo di descrivere quello stato di cose e di toccarne le cagioni. Già molte, nemiche d'ogni industria e d'ogni prosperità, appajono anche troppo in questa lunga storia; chi volesse conoscere le più immediate legga, se non le ha lette, le belle memorie storiche del conte P. Verri sulla economia pubblica dello Stato di Milano; e se vuol conoscere più a fondo, frughi nei documenti originali da cui quel valent'uomo ha cavate le sue memorie. Basti a noi il dire che l'uomo, il quale aveva abilità e voglia di lavorare, stentava nel Milanese, e che nel Bergamasco, come in altri Stati vicini, si offerivano esenzioni, privilegii ed altri incoraggiamenti ai lavoratori che volessero trasportarvisi. Questa differenza fece uscire una folla di operaj e rivivere in quegli Stati molte manifatture che perirono nel Milanese, dove avevano fiorito. Differente, per conseguenza, era anche l'aspetto dei due paesi. In Bergamo (non vogliam dire che fosse il paradiso terrestre) dopo la pestilenza, si vedevano tuttavia i tristi segni e i tristi effetti di quella: la spopolazione, le terre incolte, l'ardire cresciuto nei ribaldi, le abitudini dell'ozio e del vagabondare: ma in quella petulanza stessa v'era una cert'aria di allegria, nata, se non dalla abbondanza, almeno dalla sufficienza dei mezzi e dei capitali: quegli poi che avevano voglia di far bene trovavano in quei capitali una facilità grande e pronta. Ma nel Milanese una cagione viva e incessante di miseria sopravviveva alle miserie della peste: un sistema che onorava l'orgoglio ozioso, che favoriva la soverchieria perturbatrice, che alimentava tutti gli studj del raggiro e delle ciarle, un sistema oppressivo e impotente, insensato e immutabile, un sistema di rapine e di ostacoli, impediva l'industria, la pace e l'allegria.

Scelta dunque un'altra patria, i nostri eroi erano però impacciati del come convertire in danaro i pochi beni che dovevano lasciare nel paese dove erano nati: ma la fortuna – non osiamo dire la provvidenza – la fortuna, che voleva favorirli in tutto, come uno scrittore che voglia terminar lietamente una storia inventata per ozio, trovò un ripiego anche a questo. I beni di Don Rodrigo erano passati per fedecommesso ad un parente lontano, il quale era un uomo di ben diverso conio, un galantuomo, un amico del cardinal Federigo. Prima di anelare a prender possesso di quella eredità, trovandosi egli col cardinale, gliene parlò. – Avrete forse una occasione di far del bene e di riparare il male che ha fatto Don Rodrigo, gli disse il Cardinale, e gli raccontò in succinto la persecuzione fatta da quello sgraziato ai nostri sposi e il danno di ogni genere che ne avevan patito. Se son vivi tuttora, soggiunse, non vi prego di far loro del bene, che con voi non fa bisogno; ma di darmi notizia di loro, e di dire a quella buona giovane ch'io mi ricordo sempre di lei e mi raccomando alle sue orazioni. Il galantuomo, appena giunto al castellotto, si fece indicare il villaggio degli sposi e si presentò al curato. Don Abbondio, al vedere il nuovo padrone di quella altre volte caverna di ladroni, umano, cortese, affabile, rispettoso verso i preti, voglioso di far del bene, non si può dire quanto ne fosse edificato. E quando quel signore lo richiese di Fermo e di Lucia e gli manifestò le sue intenzioni benevole, Don Abbondio non solo si prestò volentieri a secondarle, ma lo fece con una ispirazione molto felice.

– Signor mio, diss'egli, questa buona gente è risoluta di lasciar questo paese; e il miglior servizio ch'ella possa render loro è di comperare quei pochi fondi che tengono qui. A lei potrà convenire di aggiungerli ai suoi possessi, e quella gente si troverà fuori d'un grande impiccio.

Il signore gradì la proposta, anzi con molto garbo richiese Don Abbondio se non gli sarebbe dispiaciuto di condurlo a vedere quei fondi e insieme a conoscere quella brava gente.

– È un onore immortale, disse Don Abbondio, facendo una gran riverenza; e andò in trionfo alla casa di Lucia con quel signore, il quale fece la proposta, che fu molto gradita. Il prezzo fu rimesso a Don Abbondio, a cui il signore disse all'orecchio che lo stabilisse molto alto. Don Abbondio così fece: ma il signore volle aggiungere qualche cosa: e per interrompere i ringraziamenti dei venditori, gli invitò a pranzo nel suo castello pel giorno dopo quello delle nozze.

Quel giorno benedetto venne finalmente; gli sposi promessi furono marito e moglie; il banchetto fu molto lieto. Il giorno seguente ognuno può immaginarsi quali fossero i sentimenti degli sposi e quelli di Don Abbondio, entrando non solo con sicurezza, ma con accoglimento ospitale ed onorevole nel castello che era stato di Don Rodrigo: a render compiuta la festa mancava il Padre Cristoforo, ma egli era andato a star meglio. Non possiamo però ommettere una circostanza singolare di quel convito: il padrone non vi sedè, allegando che il pranzare a quell'ora non si confaceva al suo stomaco. Ma la vera cagione fu (oh miseria umana!) che quel brav'uomo non aveva saputo risolversi a sedere a mensa con due artigiani: egli, che si sarebbe recato ad onore di prestar loro i più bassi servigj, in una malattia. Tanto anche a chi è esercitato a vincere le più forti passioni è difficile il vincere una picciola abitudine di pregiudizio, quando un dovere inflessibile e chiaro non comandi la vittoria.

Il terzo giorno, la buona vedova, con molte lagrime e con quelle promesse di rivedersi che si fanno anche quando si ignora se e quando sì potranno adempire, si staccò dalla sua Lucia e tornò a Milano: e gli sposi con la buona Agnese, che tutti e due ora chiamavano mamma, preso commiato da Don Abbondio, diedero un addio, che non fu senza un po' di crepacuore, ai loro monti, e s'avviarono a Bergamo. Avrebbero certamente divertito dalla loro strada per fare una visita al Conte del Sagrato, ma il terribile uomo era morto di peste, contratta nell'assistere ai primi appestati.

La picciola colonia prosperò nel suo nuovo stabilimento col lavoro e con la buona condotta. Dopo nove mesi Agnese ebbe un bamboccio da portare attorno, e a cui dare dei baci, chiamandolo cattivaccio. Ella visse abbastanza per poter dire che la sua Lucia era stata una bella giovane e per sentir chiamar bella giovane una Agnese, che Lucia le diede qualche anno dopo il primo figliuolo149. Fermo pigliava sovente piacere a contare le sue avventure, e aggiungeva sempre: d'allora in poi ho imparato a non mischiarmi a quei che gridano in piazza, a non fare la tal cosa, a guardarmi dalla tal altra. Lucia però non si trovava appagata di questa morale: le pareva confusamente che qualche cosa le mancasse. A forza di sentir ripetere la stessa canzone e di pensarvi ad ogni volta, ella disse un giorno a Fermo: Ed io, che debbo io avere imparato? io non sono andata a cercare i guaj, e i guaj sono venuti a cercarmi. Quando tu non volessi dire, aggiunse ella, soavemente sorridendo, che il mio sproposito sia stato quello di volerti bene e di promettermi a te. Fermo quella volta rimase impacciato, e Lucia, pensandovi ancor meglio, conchiuse che le scappate attirano bensì ordinariamente de' guaj; ma che la condotta la più cauta, la più innocente non assicura da quelli: e che quando essi vengono, o per colpa, o senza colpa, la fiducia in Dio gli raddolcisce e gli rende utili per una vita migliore. Questa conclusione, benchè trovata da una donnicciuola, ci è sembrata così opportuna, che abbiamo pensato di proporla come il costrutto morale di tutti gli avvenimenti che abbiamo narrati, e di terminare con essa la nostra storia.

17 settembre 1823.

V.
La Serva di Don Abbondio

Colla compagnia di questi pensieri [Don Abbondio] giunse a casa, chiuse diligentemente la porta e andò a gettarsi su un seggiolone nel suo salotto, dove la sua serva Vittoria150 stava parecchiando la tavola per la solita cena. Poche cose a questo mondo sono più difficili a nascondersi di quello che sieno i pensieri sul volto d'un curato agli occhi della serva. Ma lo spavento e l'agitazione di Don Abbondio erano così vivamente dipinti negli occhi, negli atti e in tutta la persona, che per distinguerli non vi sarebbero bisognati gli occhi della vecchia Vittoria.

 

– Ma che cosa ha, signor padrone?

– Niente, niente.

Questa risposta di formalità, Vittoria se la doveva aspettare, e non la contò per una risposta, e proseguì:

– Come, niente? Signor padrone, ella ha avuto uno spavento: vuol darmi ad intendere?..

– Quando dico niente, ripigliò Don Abbondio con impazienza, o è niente, o è cosa che non posso dire.

Vittoria, vedendolo più presso alla confessione che non avrebbe sperato in due botte e risposte, andò sempre più incalzando. – Che non può dire nemmeno a me? Oh bella, chi si piglierà cura della sua salute? Chi rimedierà…

– Tacete, tacete, e non parecchiate altro, che questa sera non cenerò.

Quando Vittoria intese questo, fu certa che v'era una cosa da sapersi e che la cosa era grave, e giurò a sè stessa di non lasciare andare a dormire il curato senza averla saputa.

– Ma, signor padrone, per l'amor di Dio mi dica che cosa ha: vuol ella ch'io sappia da altra parte che cosa le è accaduto?

– Si, si, da brava, andate a fare schiamazzo, a metter la gente in sospetto.

– Ma io non dirò niente, se ella mi toglie da questa inquietudine.

– Non direte niente, come quando siete corsa a ripetere alla serva del curato nostro vicino tutti i miei lamenti contro il suo padrone, e m'avete messo nel caso di domandargli scusa, come quando…

Vittoria sarebbe qui montata sulle furie se non avesse avuto un secreto da scavare, e se non avesse pensato che nulla allontana da questo intento come il piatire sopra cose estranee. Interruppe dunque Don Abbondio, ma in aria sommessa:

– Oh, per amor del cielo, che va ella mai rimescolando: sono stata ben castigata; non aveva creduto far male, e dopo d'allora guarda che mi sia uscita una parola. Signor padrone, se io parlo…

– Via, via, non giurate.

– Ma vorrei poterla soccorrere, chi sa che io non abbia un povero parere da darle. Io l'ho sempre servita di cuore e con attenzione, ma ella sa, e qui fece una voce da piangere, ella sa che i misterj non li posso soffrire. Una serva fedele ha da sapere…

In fondo il curato aveva voglia di scaricare il peso del suo cuore, onde fattigli ripetere seriamente i più grandi giuramenti, le narrò il miserabile caso: mentre la buona Vittoria, tra la gioja del trionfo e l'inquietudine del fatto, che non poteva esser lieto, spalancò gli orecchi e ristette colla posata alzata nel pugno, che tenne puntato sulla tavola.

– Misericordia! sclamò Vittoria: oh gente senza timor di Dio, oh prepotenti, oh superbi, oh calpestatori dei poverelli, oh tizzoni d'inferno!

– Zitto, zitto, a che serve tutto questo?

– Ma come farà, signor padrone?

– Oh! vedete, disse il curato in collera, i bei pareri che mi dà costei? Viene a domandarmi come farò, come farò, come se fosse ella nell'impiccio e che toccasse a me cavarnela.

– Sa il cielo se me ne spiace, signor padrone; ma bisogna pensarci.

– Sicuro, e nell'imbroglio son io.

– Pur troppo, disse Vittoria, ma non si lasci spaventare: eh! se costoro potessero aver fatti come parole, il mondo sarebbe loro: Dio lascia fare, ma non strafare: e qualche volta cane che abbaja non morde.

– Lo conoscete voi questo cane? e sapete quante volte ha morso?..

– Lo conosco e so bene che…

– Zitto, zitto, questo non serve.

– Signor padrone, ella ci penserà questa notte, ma intanto non cominci a rovinarsi la salute per questo: mangi un boccone.

– Ma, se non ho voglia.

– Ma se le farà bene; e, detto questo, si avvicinò al seggiolone dov'era il curato e lo mosse alquanto, come per dargli la leva: il curato si alzò, ella spinse il seggiolone vicino alla tavola: il curato vi si ripose, e mangiato un boccone di mala voglia, facendo di tempo in tempo qualche esclamazione, come: Una bagattella! ad un galantuomo par mio, ed altre simili, se ne andò a letto colla intenzione di consultare tranquillamente e ordinatamente sui casi suoi151.

La consulta fu tempestosa e durò tutta la notte. L'egoismo, la debolezza e la paura vi si trovavano come in casa loro, l'astuzia doveva quindi essere incitata e ricevere l'incarico di proporre il partito, e così fu. Senza annojare il lettore colla relazione di tutte le fluttuazioni, dei ripieghi accettati e rigettati, basterà il dire che il partito di fare quello che si doveva, senza darsi per inteso della minaccia, non fu nemmeno discusso, che si pensò a quello di assentarsi, tanto da aspettare qualche benefizio dal tempo, ma questo anche fu rigettato, perchè non v'era spazio per eseguirlo. La celebrazione del matrimonio era stabilita pel giorno vegnente, e una partenza di buon mattino, senza lasciare nessuna disposizione, avrebbe avuto tutto il colore d'una fuga, ed esponeva a molti impicci e rendiconti. Fu però riservato questo ripiego per l'ultimo, cercando intanto di guadagnar tempo e di agire sulla parte più debole. Don Abbondio si preparò a questo esperimento, passò in rassegna tutti i mezzi di superiorità e d'influenza che l'autorità, la scienza (in paragone di Fermo) e la pratica gli davano sopra quel povero giovane, e pensò al modo di farli giuocare. Questi bei trovati di Don Abbondio appariranno più chiaramente nel discorso ch'egli ebbe con Fermo. Fermo non si fece aspettare.


L'accoglimento freddo e imbarazzato, l'impazienza e quasi la collera, il tuono continuo di rimbrotto, senza un perchè, quel farsi nuovo del matrimonio, che pure era concertato per quel giorno, e non ricusando mai di farlo quando che sia, parlare però come se fosse cosa da più non pensarvi, le insinuazioni fatte a Fermo di metterne il pensiero da un canto; il complesso insomma delle parole di Don Abbondio presentava un senso così incoerente e poco ragionevole, che a Fermo, ripensandovi così nell'uscire, non rimase più dubbio che non vi fosse di più, anzi tutt'altro di quello che Don Abbondio aveva detto. Stette Fermo in forse di ritornare al curato per incalzarlo a parlare, ma, sentendosi caldo, temette di non passare i limiti del rispetto, pensò alla fin fine che una settimana non ha più di sette giorni, e si avviò per portare alla sposa questa triste nuova. Sull'uscio del curato abbattè in Vittoria, che andava per una sua faccenda, e tosto pensò che forse da essa avrebbe potuto cavar qualche cosa, e, salutatala, entrò in discorso con lei.

– Sperava che saremmo oggi stati allegri insieme, Vittoria.

– Ma! quel che Dio vuole, povero Fermino.

– Ditemi un poco, quale è la vera ragione del signor curato per non celebrare il matrimonio oggi, come s'era convenuto.

– Oh! vi pare ch'io sappia i secreti del signor curato? – È inutile avvertire che Vittoria pronunziò queste parole come si usa quando non si vuole esser creduto.

– Via, ditemi quel che sapete; ajutate un povero figliuolo.

– Mala cosa nascer povero, il mio Fermino.

Per timore di annojare il lettore non trascriverò tutto il dialogo; dirò soltanto che Vittoria, fedele ai suoi giuramenti, non disse nulla positivamente, ma trovò un modo per combinare il rigore dei suoi doveri colla voglia di parlare. Invece di raccontare a Fermo ciò ch'ella sapeva, gli fece tante interrogazioni, e che toccavano talmente il fatto, noto a Vittoria, che avrebbero messo sulla via anche un uomo meno svegliato di Fermo, e meno interessato a scoprire la verità. Gli chiese se non s'era accorto, che qualche signore, qualche prepotente avesse gettati gli occhi sopra Lucia, etc.; parlò dei rischj che un curato corre a fare il suo dovere; del timore che uno scellerato impunito può incutere ad un galantuomo; fece insomma intender tanto, che a Fermo non mancava più che di sapere un nome. Finalmente, per timore, come si dice, di cantare, si separò da Fermo, raccomandandogli caldamente di non ridir nulla di ciò che le aveva detto.

– Che volete ch'io taccia, disse Fermo, se non mi avete voluto dir nulla.

– Eh! non è vero che non vi ho detto nulla? Me ne potrete esser testimonio, ma vi raccomando il segreto. – Così dicendo, si mise a correre per un viottolo che conduceva al luogo ov'ella era avviata. Fermo, che aveva acquistata tutta la certezza che una trama iniqua era ordita contro di lui, e che il curato la sapeva, non potè più tenersi, e tornò in fretta alla casa di quello, risoluto di non uscire prima di sapere i fatti suoi, che gli altri sapevano così bene. Entrò dal curato.



– Mi promettete ora, disse il curato, di non dir niente?

Fermo, senza rispondere, gli chiese di nuovo perdono, e

da lui, che molto anco volea

Chiedere e udir, qual lume al soffio sparve.

Don Abbondio, dopo d'averlo invano richiamato, tornò in casa, cercò Vittoria; Vittoria non v'era; egli non sapeva più quello che si facesse.

Spesse volte è accaduto a personaggi assai più importanti di Don Abbondio di trovarsi in situazioni imbrogliate a segno di non sapere quale determinazione prendere, e non avendo nulla di opportuno da fare, e non potendo stare senza far nulla senza una buona ragione, trovarono che una febbre è una ragione ottima, e si posero al letto colla febbre. Questo disimpegno Don Abbondio non ebbe bisogno d'andarlo a cercare, perchè se lo trovò naturalmente. Lo spavento del giorno passato, l'agitazione della notte e lo spavento replicato di quella mattina lo servirono a maraviglia. Si ripose sul seggiolone tremando dal brivido e guardandosi le unghie e sospirando; giunse finalmente Vittoria. Risparmio al lettore i rimproveri e le scuse. Basti dire che Don Abbondio ordinò a Vittoria di chiamare due contadini suoi affidati e di tenerli come a guardia della casa, e di far sapere che il curato aveva la febbre. Dati questi ordini, si pose a letto, dove noi lo lasceremo senza più occuparci di lui un tratto di tempo, nel quale egli cessa d'avere un rapporto diretto colla nostra storia. Soltanto per prestarmi alla debolezza di quei lettori che non capiscono che l'uomo timido, il quale lascia di fare il suo dovere per ispavento, merita meno pietà dello scellerato consumato, il quale, cercando il male e facendolo spontaneamente, mostra almeno di avere una gran forza d'animo e di sentire le alte passioni, e che potrebbero essere solleciti per quel meschino, credo di doverli informare che Don Abbondio non morì di quella febbre.

148Racconta lo Stampa [Alessandro Manzoni, la sua famiglia, i suoi amici; II, 175]: «Il Manzoni non diede ad altri da ricopiare il suo romanzo, e udii raccontare da lui stesso che finito il romanzo ed avendo sul tavolo il mucchio di carte che lo componeva, invitato dal Grossi a darlo allo stampatore, gli rispose: – Oh giusto! ora bisogna copiarlo per porlo in netto, perchè lo stampatore possa raccapezzarsi. – Ebbene, fallo copiare, disse il Grossi. – Oh giusto! bisogna che lo copi io stesso, per fare in pari tempo quelle correzioni che saranno del caso. – Come! esclamò il Grossi, vuoi fare la fatica bestiale di copiare tutto quel mucchio di carta? Ma sei pazzo! – Che vuoi che ti dica? Non posso fare a meno. Bisogna che faccia alla mia maniera. – Ed ebbe la pazienza di copiare lui stesso tutto il manoscritto dei Promessi Sposi, e mi pareva che nel raccontare tal cosa ne provasse una certa soddisfazione». Lo Stampa nell'affermar questo è stato tradito dalla memoria. Il Manzoni, condotta a fine la prima minuta, non poteva darla a copiare ad altri, perchè non si trattava di una trascrizione, bensì di un rifacimento, che bisognava scrivesse da per sè; come infatti fece. Della copia per la Censura, che è d'altra mano, ed è la trascrizione della seconda minuta, resta soltanto il primo volume; gli altri due sono andati perduti. Dunque il consiglio del Grossi, se pur lo dette, fu accolto e seguìto. Questa copia ha molte correzioni autografe del Manzoni, che a volte rifà di suo pugno anche de' lunghi brani, o in margine, o incollando sul manoscritto qualche brandello di carta. Nel presente saggio, che ne do, stampo in carattere corsivo le correzioni di mano di lui. (Ed.)
149Il Manzoni nel testo definitivo si diffuse maggiormente a raccontare la vita de' suoi protagonisti anche dopo maritati. Parlandone a uno de' propri congiunti, che lo lodava appunto per questo, gli disse: «Che vuoi? sarò probabilmente criticato di avere diminuito l'effetto della fine del romanzo continuando a descrivere la vita dei due sposi. Ma anche a me piace di più il lieto fine; e non ho potuto trattenermi dalla tentazione di stare un po' ancora in compagnia de' miei burattini». Lo racconta lo Stampa [Alessandro Manzoni, la sua famiglia, i suoi amici, appunti e memorie; II, 177]; e aggiunge [p. 183]: il Manzoni «non si sarebbe accinto a scrivere un altro romanzo sul tipo de' Promessi Sposi, ma ebbe una volta la tentazione di scrivere un altro romanzo di genere fantastico, di cui pur troppo non mi ricordo il titolo che doveva portare e la sua traccia generale; ma la seppi». (Ed.)
150Nella stessa prima minuta la ribattezzò poi Perpetua; nome, come tanti altri de' Promessi Sposi, divenuto famoso. In uno studio molto geniale del Graziadei [La Serva di Don Abbondio, Palermo, Reber, 1903] si legge: «In quella casa, piccola, che in tre passi si traversa una stanza e s'è nell'altra, non v'ha di grande che il buon senso di Perpetua, e solo la lingua di lei si move in fretta». (Ed.)
151Qui termina il capitolo I del tomo I della prima minuta, e incomincia il capitolo II. (Ed.)

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