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Brani inediti dei Promessi Sposi. Opere di Alessando Manzoni vol. 2 parte 2

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VI.
La confessione di Lucia e il consiglio di Agnese

Parla! parla! Parlate! parlate! gridavano in una volta la madre e Fermo. Lucia152, atterrita, costernata, vergognosa, singhiozzando, arrossando, sclamò: Santissima Vergine! Chi avrebbe creduto che le cose sarebbero giunte a questo segno! Quel senza timore di Dio dì Don Rodrigo veniva spesso alla filanda a vederci trarre la seta. Andava da un fornello all'altro, facendo a questa e a quella mille vezzi, l'uno peggio dell'altro: a chi ne diceva una trista, a chi una peggio e si pigliava tante libertà: chi fuggiva, chi gridava; e, pur troppo, v'era chi lasciava fare. Se ci lamentavamo al padrone, egli diceva: badate a fare il fatto vostro, non gli date ansa, sono scherzi, e borbottava poi: gli è un cavaliere, gli è un uomo che può fare del male; è un uomo che sa mostrare il viso. Quel tristo veniva talvolta con alcuni suoi amici, gente come lui. Un giorno mi trovò mentre io usciva e mi volle tirar in disparte, e si prese con me più libertà: io gli sfuggii, ed egli mi disse in collera: ci vedremo: i suoi amici ridevano di lui ed egli era ancor più arrabbiato. Allora io pensai di non andar più alla filanda, feci un po' di baruffa colla Marcellina, per aver un pretesto, e vi ricorderete, mamma, ch'io vi dissi che non ci andrei. Ma la filanda era sul finire, per grazia di Dio; e per quei pochi giorni io stetti sempre in mezzo alle altre, di modo ch'egli non mi potè cogliere. Ma la persecuzione non finì: colui mi aspettava quando io andava al mercato, e vi ricorderete, mamma, ch'io vi dissi che aveva paura d'andar sola, e non ci andai più: mi aspettava quand'io andava a lavare, ad ogni passo: io non dissi nulla; forse ho fatto male: ma pregai tanto Fermo che affrettasse le nozze: pensava che quando sarei sua moglie colui non ardirebbe più tormentarmi; ed ora… Qui le parole della povera Lucia furono tronche da un violento scoppio di pianto.

– Birbone! assassino! dannato! sclamava Fermo, correndo su e giù per la stanza, e mettendo di tratto in tratto la mano sul manico del suo coltello.

– Ma perchè non parlare a tua madre? disse Agnese: se io l'avessi saputo prima…

Lucia non rispose, perchè la risposta, che si sentiva in mente, non era da darsi a sua madre: tutto il vicinato ne sarebbe stato informato. I singulti di Lucia la dispensavano dall'obbligo di parlare.

– Non ne hai tu fatto parola con nessuno? ridimandò Agnese.

– Si, mamma, l'ho detto al Padre Galdino153 in confessione.

 
 

– Hai fatto bene, ma dovevi dirlo anche a tua madre. E che ti ha detto il Padre Galdino?

– Mi ha detto che cercassi di evitare colui; che non vedendomi, non si curerebbe più di me; che affrettassi le nozze; e che se durava la persecuzione, egli ci penserebbe.

– Oh che imbroglio! che imbroglio! riprese la madre.

Fermo si arrestò tutt'ad un tratto; guardò Lucia con un atto di tenerezza accorata e rabbiosa e disse: questa è l'ultima che fa quel birbone.

– Ah no. Fermo, per amor del cielo, gridò Lucia, gettandogli quasi le braccia al collo. No, per amor del cielo. Dio c'è anche pei poveri. Come volete ch'egli ci ajuti se facciamo del male?

– No no, per amor del cielo, ripeteva Agnese.

– Fermo! disse Lucia, voi avete un mestiere ed io so lavorare, andiamo lontano tanto che costui non senta più parlare di noi.

– Ah! Lucia! e poi? non siamo ancora marito e moglie: il curato vorrà farci la fede di stato libero? non saremo pigliati come vagabondi? dove andarci a porre?

Lucia ricadde nel pianto. Sentite, disse Agnese; sentitemi, che son vecchia. Era questa una confessione che la buona Agnese faceva di rado, in caso di somma necessità e quando si trattava di dar fede alle sue parole. Io ho veduto un poco il mondo: non bisogna spaventarsi troppo: il diavolo non è mai brutto come si dipinge; e a noi povera gente le cose pajono talvolta imbrogliate, imbrogliate, perchè non abbiamo la pratica per uscirne. Io ho veduto molte volte dei casi che parevano disperati: un buon parere d'un uomo che aveva studiato aggiustò tutto. Fate a modo mio, Fermo. Pigliate quei quattro capponi, poveretti! che doveva sgozzare io questa mattina pel banchetto: teneteli bene stretti per le gambe, andate a Lecco: sapete dove abita il dottor Pèttola?154. – Lo so benissimo. – Bene, andate da lui, presentategli i capponi: perchè, vedete, quando si vede che uno può regalare, gli si dà retta. Contategli tutto il fatto, e domandategli parere. Eh ne ho visto io della gente che non sapevano dove dar del capo, che andando a consultarsi con lui non trovavano la strada, e dopo d'avergli parlato tornarono a casa vispi come un tincotto che saltellando nella barca, per disperazione, cade nell'acqua e si trova in casa sua. Fate così, Fermo.

Nelle situazioni molto imbrogliate il parere che piace più è quello di pigliar tempo per avere un altro parere definitivo: ogni consiglio che suggerisca una risoluzione presenta ostacoli, difficoltà, nuovi imbrogli: ma questo, di consigliarsi di nuovo e meglio, è semplice, non nuoce e nello stesso tempo dà una lusinga indeterminata che per questo mezzo si troverà una uscita155.

VII.
Una digressione

Bisogna confessare che nei romanzi e nelle opere teatrali, generalmente parlando, si vive meglio che a questo mondo: ben è vero che vi s'incontrano birboni più feroci, più diabolici, più colossali, scelleraggini più raffinate, più ingegnose, più recondite, più ardite, che non nel corso reale degli avvenimenti; ma vi ha pure dei grandi vantaggi, ed uno che basta a compensare molti mali, uno dei più invidiabili si è che gli onesti, quelli che difendono la causa giusta, per quanto sieno inferiori di forze e battuti dalla fortuna, hanno sempre in faccia dell'empio, ancor che trionfante, una sicurezza, una risoluzione, una superiorità di animo e di linguaggio che dà loro la buona coscienza, e che la buona coscienza non dà sempre agli uomini realmente viventi. Questi, quando abbiano dalla parte loro la giustizia senza la forza, e vogliano pure ottenere qualche cosa difficile in favore della giustizia, sono obbligati a pensare ai mezzi per giungere a questo loro fine, e i mezzi sono tanto scarsi, e per porli in opera senza guastare la faccenda si incontrano tanti ostacoli, fa bisogno di tanti riguardi, che da tutte queste considerazioni si trovano posti necessariamente in uno stato di esitazione, di cautela e di studio che gli fa sovente scomparire in faccia ai loro avversarj, risoluti ed incoraggiati dalla forza e dalla abitudine di vincere, e spesse volte, convien dirlo, dal favore o sciocco, o perverso degli spettatori. L'uomo retto sente, a dir vero, con certezza e con ardore la giustizia della sua ragione, ma questa sua idea è un risultato, una conseguenza d'una serie di ragionamenti e di sentimenti, per la quale è trascorso il suo animo: se egli la esprime, fa ridere l'avversario, il quale per un'altra serie d'idee è giunto e si è posto in un risultato opposto: e pur troppo, tolti alcuni casi, l'uomo che non ha che sè per testimonio e per approvatore e che vede negli altri contraddizione e scherno perde facilmente fiducia, e quasi quasi è disposto a dubitare, o almeno si trova in quello stato di contrasto che fa comparire l'uomo imbarazzato. Avvien quindi spesse volte che un ribaldo mostra in tutti i suoi atti una disinvoltura, una soddisfazione che si prenderebbe quasi per la serenità della buona coscienza, se fosse più placida e più composta, e che l'uomo onesto e nella espressione esteriore e nell'animo interno mostra e prova talvolta una specie d'angustia e di vergogna, che si crederebbe rimorso, dimodochè a poco a poco finisce per essere soperchiato non solo nei fatti, ma anche nel discorso e nel contegno, e sta come un supplichevole e quasi come un reo dinanzi a colui che lo è veramente.

Si è fatta questa riflessione per ispiegare come il buon Padre Cristoforo, il quale veniva per domandare a Don Rodrigo l'adempimento della più stretta giustizia e la cessazione della più vile iniquità, si rimase come confuso e vergognoso quando si trovò così solo con tutte le sue buone ragioni in mezzo ad un crocchio romoroso e indisciplinato di amici di Don Rodrigo, e in sua presenza156.


In mezzo a questo trambusto vennero i servi a torre le mense, ricevendo e dando urtoni e gomitate: quindi si pose sul desco molle un gran piatto piramidale di marroni arrostiti, e si portarono fiaschi di vino più prelibato, di quello che in Lombardia si chiama vino della chiavetta, e del quale, per un privilegio singolare, ogni proprietario ha sempre il migliore del contorno. Gli elogj del vino, com'era giusto, ebbero una parte della conversazione, senza però cangiarla del tutto: il gridìo continuò per una buona mezz'ora: le parole che si sentivano più spesso erano ambrosia e impiccarli. Finalmente Don Rodrigo si alzò e con esso tutta la rubiconda brigata: e Don Rodrigo, fatte le sue scuse agli ospiti, si avvicinò al Padre Cristoforo e lo condusse seco in una stanza vicina157.

Ognuno può avere osservato che dalla peritosa sposa di contado fino a… fino all'uomo il più disinvolto e imperturbabile, e, per dirla in milanese, il più navigato, tutti hanno certi loro gesti famigliari, certi moti insignificanti, dei quali fanno uso quasi involontariamente, quando trovandosi con persone, colle quali non sieno molto addomesticati, non sanno troppo che dire, o aspettano il momento di dir cosa la quale non è attesa, nè sarà molto gradevole a chi deve intenderla. La differenza che passa tra gl'intrigati e i navigati (son costretto a prendere entrambi i vocaboli dal dialetto del mio paese, il quale non manca d'uomini dell'una e dell'altra specie) la differenza è che i primi coi loro moti incerti e vacillanti e goffi mostrano sempre più il loro imbarazzo e vi si vanno sempre più affondando, mentre negli altri questo disimpegno è nello stesso tempo un esercizio di eleganza e di superiorità. Tutte le classi hanno una provvisione particolare e caratteristica di questi atti, e questa distinzione era più osservabile nei tempi in cui le classi erano più distinte per abitudini e anche pel costume di vestire, il quale si prestava naturalmente ad usi diversi di questo genere. Si potrebbe qui fare una erudita enumerazione di questi gesti, cominciando dai personaggi più celebri e dalle condizioni più note degli antichi Romani, o anche degli Egizj, ma sarebbe troppo provocare l'impazienza del lettore, avido certamente di seguire la nostra interessante storia. Diremo soltanto che gli atti più usuali dei cappuccini per avere, come dicono i francesi, une contenance, erano di accarezzarsi la barba, di fare scorrere il berrettino innanzi indietro dal sincipite all'occipite, di porre la mano destra nella larga manica sinistra e viceversa, o di stirarsi il cordone, o di palpare ad uno ad uno i grossi paternostri del rosario, che tenevano appeso alla cintola. Questa ultima operazione appunto faceva il Padre Cristoforo quando si trovò da solo a solo con Don Rodrigo; di modo che si avrebbe creduto che vi ponesse molta occupazione, ma il lettore sa che il buon Padre era preoccupato da tutt'altro. Del contegno di Don Rodrigo non occorre parlare, giacchè ognun sa che nessuno è tanto sciolto, franco, sgranchiato, quanto un ribaldo dopo un buon desinare. Stava egli però con qualche curiosità e con qualche sospetto di quello che il Padre fosse per dirgli; sospetto che il contegno un po' irresoluto del Padre aveva quasi cangiato in certezza, gli accennò con sussiego che sedesse, si pose egli pure a sedere, e ruppe il silenzio con queste parole: – In che posso obbedirla, Padre? – Questo era il suono delle parole, ma il modo con cui erano proferite voleva dire chiaramente: frate, bada a chi tu parli, e a quello che dirai.

Il tuono insolente di quest'invito servì mirabilmente a togliere ogni imbarazzo al Padre Cristoforo; perchè, risvegliando quell'uomo vecchio che il Padre non aveva mai del tutto spogliato, mise in moto quello che v'era in lui di più franco e di più risoluto: cosicchè, invece di farsi animo, dovett'egli frenare l'impeto che lo spingeva a rispondere sullo stesso tuono, per non guastare l'opera delicata che stava per intraprendere. Onde, con modesta, ma assoluta franchezza, rispose: – Signor Don Rodrigo, il mio sacro ministero mi obbliga a passare un officio con vossignoria. Io desidero ardentemente che nessuna mia parola possa spiacerle, e per antivenire ad ogni disgusto, debbo assicurarla che in tutto quello ch'io sono per dire io ho di mira il bene di lei, quanto quello di qualunque altra persona. – Don Rodrigo non rispose che allungando il volto, stringendo le labbra, aggrottando le ciglia e dando ai suoi occhi una espressione ancor più minacciosa e sprezzante.

VIII.
Il Padre Cristoforo ripreso dal Guardiano di Pescarenico

Intanto il Padre Cristoforo, benchè fiaccato e frollo delle corse, dei disagj, delle inquietudini e delle parlate di quel giorno158, aveva presa correndo la via per giungere al più presto al convento, e andava saltelloni giù per quel viottolo sassoso, torto e reso ancor più difficile dalla oscurità; andava il povero frate, parte ruminando gli accidenti della giornata e quello che poteva soprastare, parte pensando all'accoglienza che riceverebbe al convento giungendovi a notte già fitta. Vi giunse pur finalmente, mezzo sconquassato, e toccò modestamente il campanello, aspettando quel che Dio fosse per mandare. Il frate portinajo aperse e accolse il nostro figliuol prodigo con quel maladetto misto dì sussiego, di soddisfazione, di clemenza, di commiserazione e di mistero, che gli uomini (tranne l'uno per milione) mostrano sempre in faccia di colui che per qualche suo fallo, o anche per qualche sventura, sembra loro stare in cattivi panni. Il Padre Guardiano le vuoi parlare, disse costui al nostro amico, il quale seguì la sua scorta pei lunghi corridoj e per le scale, rassegnato a toccare una buona gridata e in angustia di ricevere una penitenza la quale gl'impedisse di potere all'indomani trovarsi col servo di Don Rodrigo e fare per gl'innocenti suoi protetti ciò che il caso avesse richiesto.

Giunto alla cella del Guardiano, bussò sommessamente, e vista la faccia seria del Guardiano, si pose le mani al petto, curvò la persona, chinò la testa sul petto e disse: Padre, son balordo. Era questa, chi noi sapesse, la formola usata dai cappuccini per confessarsi in colpa al loro superiore. Bisogna sapere che il Guardiano era contento in fondo del cuore che il Padre Cristoforo avesse commesso un mancamento. Un lettore di otto anni potrebbe qui domandare: perchè faceva il volto serio, se era contento? e gli si risponderebbe, che appunto era contento perchè il Padre Cristoforo gli aveva dato il diritto dì fargli il volto serio. La condotta del nostro amico era tanto irreprensibile che il Guardiano non aveva mai avuto occasione di far uso sopra lui della sua autorità, voglio dire della autorità di riprendere e di punire, e alla prima occasione che ne aveva, gli pareva di esser daddovero il Padre Guardiano. In oltre il Padre Cristoforo, senza fare il dottore, senza disputare, dava però a dividere chiaramente di non approvare alcuni tratti della condotta e della politica dei suoi confratelli e del suo capo, e più d'una volta aveva ricusato di operare di concerto con gli altri; biasimandoli così indirettamente, ma chiaramente: dal che veniva che i frati e il Guardiano avevano per lui più rispetto che amore. E il rispetto veniva, in parte, anche dalla fama di santo che il Padre Cristoforo aveva al di fuori, e che apportava al convento onore e limosine. Non è quindi da stupirsi se il Guardiano si dilettasse nel vedersi davanti balordo quel Padre Cristoforo e gustasse a lenti sorsi l'umiliazione di lui e il sentimento della propria autorità.

– È questa l'ora, diss'egli gravemente, di ritornare al convento?

– Padre, confesso che dovrei esser rientrato da molto tempo.

– E perchè vi siete dunque tanto indugiato? perchè avete violata una regola, che conoscete così bene?

– Fui trattenuto da un'opera di misericordia.

Il Guardiano sapeva che il reo era incapace di mentire, e vide tosto che se avesse voluto andar più ricercando, avrebbe facilmente fatto rivelare al Padre Cristoforo cose che tornerebbero in suo onore: onde gli parve meglio fargli una ammonizione generale sul fallo di cui si era riconosciuto colpevole. Gli disse che preporre le opere volontarie di misericordia all'obbedienza era segno di orgoglio e di amore alla propria volontà: che non era bene quel bene che non è fatto secondo le regole: che bisogna prima fare il dovere e poi attendere alle opere di surerogazione: e altre cose di questo genere. Aggiunse poi che egli, Padre Cristoforo balordo, doveva conoscere di quanta importanza fosse la regola da lui infranta e per la disciplina e per evitare ogni scandalo; ma che per l'età sua e per esser questo il primo suo fallo contro la regola, e perchè si teneva certo che non v'era altro che la violazione della regola, si contentava per questa volta ch'egli prima di coricarsi recitasse un miserere colle braccia alzate: e così lo congedò e si gittò sul duro suo pagliaccio, più soddisfatto però che se si fosse posto sul letto il più delicato, poichè non è da dire quanta consolazione si senta nel far fare agli altri il loro dovere, e nel riprenderli quando se ne allontanano.

Questa fu la mercede che il nostro Padre Cristoforo ebbe della sua giornata, spesa come abbiam detto. Tristo chi ne aspetta altre in questo mondo. Egli recitò il suo buon miserere e lo conchiuse dicendo: Dio, fate misericordia a me e a quel poveretto che io… toccate il cuore di Don Rodrigo, tenete la mano in testa al povero Fermo, salvate Lucia e benedite il Padre Guardiano159. Abbiate pietà dei peccatori, dei penitenti, dei giusti, dei fedeli e degli infedeli, degli oppressi e degli oppressori, dei cappuccini, dei zoccolanti e di tutti i regolari, di tutti gli ecclesiastici e di tutti i laici, dei popoli e dei principi, dei carcerati, dei giudici, dei banditi, dei ladri, dei birri, delle vedove, dei pupilli, dei bravi, dei zingari, degli indemoniati, dei vivi e dei morti. Così sia. Quindi si gettò anch'egli sul suo canile, dove lo lasceremo dormire, che ne ha bisogno160.

IX.
Il tentativo fallito del matrimonio clandestino

A) PRIMA MINUTA

Tra il primo concetto di una impresa terribile e l'adempimento, ha detto uno scrittore privo di buon gusto, l'intervallo è un sogno di fantasmi e di paure. Lucia era nelle angosce di questo sogno. Agnese, la stessa Agnese, così risoluta e disposta all'operare, era sopra pensiero, e trovava a stento le parole per rincorare la poveretta. Ma al momento in cui l'azione comincia e l'animo che fino allora tollerava i pensieri che gli passavano sopra, cacciandosi a vicenda e tornando, è costretto a comandare una risoluzione e a dirigere le azioni del corpo, allora egli si trova tutto trasformato: al terrore e al coraggio, che lo agitavano, succede un nuovo terrore, e un nuovo coraggio: l'impresa si affaccia alla mente come una apparizione nuova, inaspettata; si scoprono mezzi e ostacoli non pensati; ciò che sembrava più difficile si trova fatto quasi da sè, l'immaginazione si ferma spaventata, le membra niegano di moversi dinanzi ad un passo che era sembrato il più agevole: il cuore manca alle promesse che aveva fatte con più sicurezza.

Quando s'intese bussare sommessamente alla porta161, Lucia fu presa da tanto terrore, che risolvette in quel momento di soffrire ogni cosa, di esser sempre divisa da Fermo, piuttosto che eseguire la risoluzione presa; ma quando Fermo, entrato, disse: son qui, andiamo; quando tutti si mostrarono pronti ad avviarsi senza esitazione, come a cosa già determinata, Lucia, come strascinata, prese tremando un braccio della madre e un braccio di Fermo e s'avviò colla brigata avventurosa.

Zitti, zitti, nelle tenebre, a passo misurato, giunsero dinanzi alla casa del nostro Don Abbondio, il quale era ben lontano pover uomo! dal pensare che una tanta burrasca si addensasse sul suo capo. Qui si separarono, come erano convenuti: e la coppia innocente, per un viottolo tortuoso, che girava attorno all'orto del curato, e sdrucciolando poi sommessamente dietro il muro di fianco della casa, venne a porsi presso all'angolo di essa; Fermo e Lucia, per trovarsi nel luogo più vicino alla porta ed entrare quando il destro verrebbe; Agnese, per uscire ad incontrare Perpetua nel momento opportuno. Toni, destro, col disutilaccio di Gervaso, che non sapeva far nulla da sè, e senza il quale non si poteva far nulla, si affacciarono bravamente alla porta e toccarono il martello.

– Chi è? gridò una voce alla finestra, che si aperse in quel momento: era la voce di Perpetua. Malati non ce n'è, dovrei saperlo: è forse accaduta qualche disgrazia?

– Son io, rispose Tonio, con mio fratello, che abbiamo bisogno di parlare col signor curato.

– È ora questa da cristiani? rispose agramente Perpetua: che discrezione? tornate domani.

– Sentite: tornerò, o non tornerò: mi trovavo alcuni pochi soldi per pagare al signor curato quel debituccio che sapete: ma se non si può, aspetterò un'altra occasione: questi so come spenderli, e verrò quando ne abbia guadagnati degli altri.

– Aspettate, aspettate: vado e torno: ma perchè venire a quest'ora?

– Se l'ora potete cangiarla, io non m'oppongo: per me son qui; e se non mi volete, me ne vado.

– No no, aspettate un momento; torno con la risposta.

Così dicendo richiuse la finestra: a questo punto Agnese si spiccò dai promessi, e, detto sotto voce a Lucia: coraggio; è un momento; gli è come far cavare un dente, venne a porsi dinanzi la fronte della casa, aspettando che Perpetua aprisse, per far vista di passare.

Perpetua venne infatti tostamente, ed aperse la porta, e disse: dove siete?

Quando i due fratelli si mostravano, Agnese passò dinanzi a loro, e salutò Perpetua, fermandosi un momento sui due piedi.

Buona sera, Agnese, disse Perpetua, donde a quest'ora?

– Vengo dalla filanda, rispose Agnese, e se sapeste… mi sono indugiata appunto in grazia vostra.

– Oh perchè? riprese Perpetua: indi, rivolta ai due fratelli: entrate disse, salite pure, che vengo anch'io. – Quegli entrarono.

– Perchè, ripigliò Agnese, una donna pettegola! non sanno le cose e voglion parlare… credereste? si ostinava a dire che non vi siete sposata con Beppo, perchè egli non vi ha voluto. Io sosteneva che voi l'avete rifiutato…

– Certo, sono stata io; ma chi è costei?

– Questo non fa… ma non potete credere quanto mi sia spiaciuto di non saper ben bene tutta la storia, per confonder colei.

– È una bugiarderia, disse Perpetua, la più nera. Sentite come andò la faccenda, e ho testimonj, vedete. Ehi, Tonio, socchiudete la porta, e salite pure, ch'io verrò poi. Tonio rispose di dentro che si. Perpetua cominciò la sua storia e Agnese si avviò verso l'angolo della casa, opposto a quello dietro cui erano in agguato i due giovani, e quando pur passo passo vi fu giunta, lo voltò, seguita da Perpetua: e voltatolo, tossì per dar segno. Il segno fu inteso, e Fermo traendo Lucia, la quale correva come un leprotto inseguito, in punta di piè vennero fino alla porta, l'aprirono delicatamente e si trovarono nel vestibolo coi due fratelli, che gli stavano aspettando. Chiusero sommessamente il chiavistello162 per di dentro e salirono insieme, mentre Agnese moltiplicava le inchieste, per trattenere la fante. I quattro congiurati, tutti diversamente commossi, ascesero le scale, e posati che furono sul pianerottolo: Toni disse ad alta voce: Deo gratias, ed entrò col fratello, mentre Don Abbondio, che gli aspettava, rispose: Avanti. Fermo e Lucia ristettero dietro la porta: senza muoversi, senza alitare: l'orecchio il più fino non avrebbe potuto ivi intender altro che il battito del cuore di Lucia. Toni, entrato, socchiuse la porta dietro di sè. Don Abbondio, convalescente della febbre, e non guarito della paura, stava seduto su un vecchio seggiolone, ravvolto in una vecchia zimarra, coperto il capo d'un vecchio camauro, sotto il quale si vedeva uno sguardo sospettoso e teso, un lungo naso, e fra due guance pendenti una bocca quale ognuno l'ha dopo d'aver sorbita una ostica medicina. Aveva dinanzi a sè una vecchia tavola e sulla tavola una picciola lucerna, che mandava una luce scarsa sulla tavola e sui dintorni, e lasciava il resto nelle tenebre. Presso alla lucerna, era il breviale, e aperto dinanzi a Don Abbondio il Quaresimale163.

– Ah! ah! fu il saluto di Don Abbondio.

– Il signor curato dirà che siamo venuti tardi, disse Toni inchinandosi, come pure fece più goffamente Gervaso.

– Venite tardi in tutti i modi, rispose Don Abbondio. Basta, vediamo.

– Sono venticinque buone lire di quelle con Sant'Ambrogio a cavallo, disse Toni, cavando un gruppetto di tasca.

– Vediamo, replicò il curato: le prese, le volse e le rivolse e le numerò, e furono trovate irreprensibili.

– Ora, signor curato, mi darà gli orecchini e la collana, della mia povera Tecla.

– È giusto, rispose Don Abbondio; e andò ad un armadio e cacciata una chiave, guardandosi intorno, come per tener lontani gli spettatori, aperse una parte d'imposta, riempì l'apertura colla persona, introdusse la testa per guardare e un braccio per ritirare il pegno; lo ritirò, chiuse l'armadio, svolse la carta dov'era il pegno, e guardatolo, c'è tutto? disse, indi lo consegnò a Toni.

– Ora, disse Toni, mi favorisca di una riga di quitanza.

– Non vi fidate? rispose bruscamente Don Abbondio. Ecco, volete darmi anche quest'incomodo.

– Che dice mai? s'io mi fido, signor curato: ma dalla vita alla morte…

– Bene, bene, come volete. Oh che seccatura! Bisognerà ch'io ponga inchiostro nel calamajo. Perpetua! dov'è costei? Perpetua!

– Perpetua era da basso, tutta affacendata a prepararle da cena: la lasci stare, signor curato: anche il calamajo, che farà più presto.

Così, brontolando, tirò un cassettino dal tavolo, ne tolse carta, penna e calamajo, e si pose a scrivere, dettandosi ad alta voce la composizione. Frattando Toni e Gervaso, com'era convenuto, si posero dinanzi allo scrittore in modo da toglierli la veduta della porta; e come per ozio andavano soffregando coi piedi il pavimento, per dar agio ai di fuori di venire avanti senza essere intesi. Don Abbondio, tutto nella sua quitanza, non badava ad altro. Al fruscio dei quattro piedi Fermo strinse la mano di Lucia per darle risoluzione, la pigliò con sè e pian piano entrarono nella porta, Lucia più morta che viva, e si collocarono dietro i due fratelli. Don Abbondio, finito ch'ebbe di scrivere, rilesse attentamente da sè, quindi fatta lettura ad alta voce, prima di alzare gli occhi dalla carta: sarete contento? disse, e preso il foglio lo porse a Toni. Toni, allungando la mano per pigliarlo, si ritirò da una parte, Gervaso dall'altra, e i due sposi apparvero in mezzo164 come all'alzare d'un sipario. Don Abbondio intravide, vide, si spaventò, si stupì, s'infuriò, pensò, prese una risoluzione, tutto questo nel tempo che Fermo impiegò a proferire le parole magiche: Signor curato, in presenza di questi testimoni, questa è mia moglie. Le labbra di Fermo non erano ancor tornate in riposo, che Don Abbondio aveva già lasciata cadere la quitanza fatta, afferrata colla manca e sollevata la lucerna e tirato colla destra a sè un tappeto, che copriva il tavolo, gettando a terra il breviale e il quaresimale, e balzando tra la seggiola e il tavolo s'era avvicinato a Lucia; la poveretta con voce tremante aveva appena potuto dire: e questo… che Don Abbondio gli aveva gettato scortesemente il tappeto sulla testa e sul volto, e tenendoglielo colle mani ravvolto e stretto sulla bocca, perch'ella non potesse proseguire, gridava a testa, come un toro ferito: tradimento! tradimento! ajuto! ajuto! Il lucignolo della lucerna, che Don Abbondio aveva lasciata cadere a terra, si moriva mandando un ultimo chiarore, e la povera Lucia, appoggiata a Fermo, coperta così di quel ruvido velo, pareva una statua sbozzata in creta, a cui un rozzo fattore dell'artefice copre la testa con un umido panno. Cessata ogni luce, Don Abbondio lasciò la poveretta, la quale già per sè non avrebbe più potuto proseguire, e pratico com'era del luogo, trovò tosto a tentone la porta della stanza vicina, v'entrò, vi si chiuse e continuò a gridare: tradimento! Perpetua! accorr'uomo: gente in casa! clandestino: tre anni di sospensione! una schioppettata! fuori di questa casa! fuori di questa casa! Perpetua! dov'è costei! Nella stanza tutto era confusione. Fermo, inseguendo come poteva il curato, aveva strascinata con sè Lucia alla porta e bussava gridando: apra, apra, non faccia schiamazzo: apra, o la vedremo. Toni, curvo a terra, girava le mani sul pavimento per trovare la sua quitanza, e Gervaso, spiritato, gridava e andava cercando la porta della scala per porsi in salvo.

Don Abbondio, vedendo che il nimico non voleva sgomberare, si fece ad una finestra che dava sul sagrato, a gridare ajuto. Batteva la più bella luna del mondo, e l'ombra della chiesa e del campanile si disegnava sulle erbe lucenti del sagrato: per quell'ombra veniva tranquillamente165 con un gran mazzo di chiavi pendente alla mano il sagrista, il quale, dopo suonata l'avemaria, era rimasto a scopare la chiesa e a governare gli arredi dell'altare. Lorenzo! gridò il curato, accorrete, gente in casa! ajuto. Lorenzo si sbigottì; ma con quella rapidità d'ingegno che danno i casi urgenti, pensò tosto al modo di dare al curato più soccorso ch'egli non chiedeva e di farlo senza suo rischio. Corse indietro alla porta della chiesa, scelse nel mazzo la grossissima chiave, aperse, entrò, andò difilato al campanile, prese la corda della più grossa campana e tirò a martello166.

152Luigi Settembrini [Lezioni di letteratura italiana, settima edizione; III, 315] si domanda: «Come sono gli occhi di Lucia?» E risponde: «Non si sa; essi li teneva quasi sempre chinati a terra per pudore. Un altro poeta, e specialmente un francese, quali occhi avrebbe dati a quella fanciulla!» Nella prima minuta la descrizione degli occhi di Lucia c'era, ma nella stessa prima minuta la cancellò. Ecco il passo. Scrivo in corsivo e metto tra due parentesi la parte a cui dette di frego. «Oltre questo, che era l'ornamento particolare di quel giorno, Lucia aveva quello quotidiano di una modesta bellezza[. Questo era l'ornamento particolare di quel giorno, ma Lucia ne aveva un quotidiano, che consisteva in due occhi neri, vivi e modesti, e in un volto di una regolare e non comune bellezza]; la quale era allora accresciuta e per dir così abbellita dalle varie affezioni dell'animo suo in quel giorno. Poichè appariva nei suoi tratti una gioja non senza un leggier turbamento, un misto d'impazienza e di timore, e quella specie di accoramento tranquillo che ad ora ad ora si mostra sul volto delle spose, e che temperato dalle emozioni gioconde e liete, non turba la bellezza, ma l'accresce e le da un carattere particolare». Il consigliere Federico de Müller raccontando nelle proprie Memorie una visita che fece al Manzoni a Brusuglio, nell'agosto del 1829, scrive: «Discorremmo molto dei Promessi Sposi. Io gli detti copia d'una lettera in cui una amica, di molto ingegno, si manifesta molto entusiasta di questa opera. Ne ebbe gran gioia; ma contro l'osservazione che vi si trova, esser cioè Lucia più un ideale che una vera figura d'italiana, affermò subito che la purezza e la castità delle contadine lombarde supera ogni aspettativa, e che egli ritrasse Lucia fedelmente dal vero. Madama» [Enrichetta] «Manzoni s'accordava in ciò perfettamente con lui, e m'assicurò che tra le contadinelle di que' contorni esiste una tale esagerata morigeratezza e ritrosia, da costringerle a ben guardarsi, quando vanno la domenica a passeggiare col fidanzato, dal prenderlo per la mano e dall'esser famigliari con lui, se non vogliono correr pericolo divenir diffamate dal popolino». Racconta lo Stampa [Alessandro Manzoni, la sua famiglia, i suoi amici; II, 167]: «Un giorno il Manzoni, al caminetto del suo studio, mi domandò spontaneamente e senza che me l'aspettassi: – Dimmi un po', non ti pare che, come contadina, abbia idealizzato un po' troppo la Lucia? – Risposi francamente: – No! perchè ho avuto occasione di conoscere qualche contadina che aveva dei sentimenti puri ed un cuore delicato come quello della tua Lucia. – Mi parve che gradisse molto questa risposta e che rimanesse molto soddisfatto di questa mia assicurazione». (Ed.)
153Lo ribattezzò col nome di Padre Cristoforo nel capitolo IV del tomo I della stessa prima minuta; nella quale, da principio, lo fece anche guardiano del convento di Pescarenico; carica, per altro, che gli tolse quasi subito. Il nome di Galdino lo dette invece al cercatore delle noci, prima da lui chiamato fra Canziano. Costui fa la sua comparsa nel capitolo III del tomo I. «S'ode picchiare all'uscio e nello stesso momento un sommesso, ma distinto Deo gratias. Lucia, immaginandosi chi poteva essere, corse ad aprire; e allora, fatto un inchino, entrò infatti un laico cercatore cappuccino colla sua bisaccia pendente alla spalla sinistra, e l'imboccatura di essa attorcigliata e stretta nelle due mani sul petto. – Fra' Canziano, dissero le due donne. – Il Signore sia con voi, disse il frate: vengo per la cerca delle noci; e come il raccolto è stato buono, voi ne darete a Dio la sua parte, affinchè ve ne dia un altro eguale o migliore l'anno venturo; se però i nostri peccati non attireranno qualche castigo. – Lucia, vanne a pigliare le noci pei padri, disse Agnese». Mentre la figlia eseguisce la commissione, fra Canziano racconta alla madre il miracolo delle noci, avvenuto in Romagna, dove egli era stato cercatore; e avvenuto al tempo del «padre Agapito» (ribattezzato nel testo definitivo padre Macario), «che era un santo». Poi così prosegue il racconto: «Qui ricomparve Lucia col grembiule tanto carico di noci che lo poteva reggere a fatica, tenendo i due capi sospesi colle braccia tese e allungate. Mentre fra Canziano si tolse la bisaccia dalle spalle, la pose in terra e aprì la bocca di quella per introdurvi l'abbondante elemosina, la madre fece un volto attonito e severo a Lucia, per la sua prodigalità; ma Lucia le diede un'occhiata, che voleva dire: mi giustificherò. Fra Canziano proruppe in elogj, in augurj, in promesse, in ringraziamenti; e, rimessa la bisaccia, si avviò; ma Lucia, fermatolo: – Vorrei una carità da voi, disse. Vorrei che diceste al Padre Galdino che ho bisogno di parlargli di somma premura; e che mi faccia la carità di venire da noi poverette subito subito, perchè io non posso venire alla chiesa. – Non volete altro? non passerà un'ora che lo dirò al Padre Galdino. – Non mi fallate. – State tranquilla; e così detto, partì, un po' più curvo e più contento che non quando era arrivato. Il Padre Galdino era un uomo di molta autorità fra i suoi e in tutto il contorno; eppure fra Canziano non fece nessuna osservazione a questa specie di ordine che gli si mandava da una donnicciuola di venire da lei; la commissione non gli parve strana niente più che se gli si fosse commesso di avvertire il Padre Galdino che il Vicario di Provvisione e i Sessanta del Consiglio generale della Città di Milano lo richiedevano per mandarlo ambasciatore a Don Filippo Quarto, Re di Castiglia, di Leone, etc. Non vi era nulla di troppo basso, nè di troppo elevato per un cappuccino: servire talvolta gl'infimi, ed esser serviti dai potenti; entrare nei palazzi e nei tugurii colla stessa aria mista di umiltà e di padronanza; essere nella stessa casa un soggetto di passatempo, e un personaggio senza il quale non si decideva nulla; cercare la limosina da per tutto, e farla a tutti quelli che la chiedevano al convento; a tutto era avvezzo un cappuccino, e faceva tutto a un dipresso colla stessa naturalezza, e non si stupiva di nulla. Uscendo dal suo convento per qualche affare, non era impossibile che prima di tornarsene si abbattesse, o in un principe che gli baciasse umilmente la punta del cordone, o in una mano di ragazzacci che, fingendo di essere alle mani fra di loro, gli bruttassero la barba di fango. La parola frate in quei tempi era proferita colla più gran venerazione e col più profondo disprezzo; era un elogio e un'ingiuria: i cappuccini forse più di tutti gli altri riunivano questi due estremi, perchè senza ricchezze, facendo più aperta professione di umiliazioni, si esponevano più facilmente al vilipendio, e alla venerazione che possono venire da questa condotta. La considerazione poi data generalmente al loro Ordine li poneva nel caso sovente di giovare e di nuocere ai privati, di essere grandi ajuti e grandi ostacoli, e da quindi anche la varietà del sentimento che si aveva per essi, e delle opinioni sul conto loro. Varii pure e moltiformi erano e dovevano essere i motivi che conducevano gli uomini ad arruolarsi in un esercito così fatto. Uomini compresi della eccellenza di quello stato, che allora era esaltata universalmente; altri per acquistare una considerazione alla quale non sarebbero mai giunti vivendo, come allora si viveva, nel secolo; altri per fuggire una persecuzione, per cavarsi da un impiccio; altri dopo una grande sventura, disgustati del mondo; talvolta principi, o fastiditi o atterriti del loro potere; molti perchè di quelli che entrano in una carriera per la sola ragione che la vedono aperta; molti per un sentimento vero di amor di Dio e degli uomini, per l'intenzione di essere virtuosi ed utili; e questa loro intenzione (perchè quando si è persuasi d'una verità bisogna dirla; l'adulazione ad una opinione predominante ha tutti i caratteri indegni di quella che si usa verso i potenti), questa loro intenzione non era una pia illusione, l'errore d'un buon cuore e d'una mente leggiera, come potrebbe parere, e come pare talvolta a chi non sa, o non considera le circostanze e l'idee di quei tempi: era una intenzione ragionata, formata da una osservazione delle cose reali; e in fatti con queste intenzioni molti, abbracciando quello stato, facevano del bene tutta la loro vita; anzi molti, che sarebbero stati uomini pericolosi, che avrebbero accresciuti i mali della società, diventavano utili con quell'abito indosso. Ho fatta tutta questa tiritera, perchè nessuno trovi inverisimile che fra Canziano, senza fare alcuna obbiezione, senza stupirsi, si sia incaricato di dire nullameno che al Padre Guardiano che s'incomodasse a portarsi da una donnicciuola, che aveva bisogno di parlargli». Il mutamento del nome seguì, come s'è detto, nel capitolo IV, che prima intitolò: Il Padre Galdino, e poi: Il Padre Cristoforo; e seguì dopo che n'ebbe scritte alcune pagine. Son queste: «Era un bel mattino di novembre; la luce era diffusa sui monti e sul lago: le più alte cime erano dorate dal sole non ancora comparso sull'orizzonte, ma che stava per ispuntare dietro a quella montagna, che dalla sua forma è chiamata il Resegone (Segone), quando il Padre Galdino, a cui fra Canziano aveva esposta fedelmente l'ambasciata, si avviò dal suo convento per salire alla casetta di Lucia. Il cielo era sereno e un venticello d'autunno staccando le foglie inaridite del gelso le portava qua e là. Dal viottolo guardando sopra le picciole siepi e sui muricciuoli si vedevano splendere le viti per le foglie colorate di diversi rossi, e i campi, già seminati e lavorati di fresco, spiccavano dall'altro terreno come lunghi strati di drappi oscuri stesi sul suolo. L'aspetto della terra era lieto, ma gli uomini che si vedevano pei campi o sulla via mostravano nel volto l'abbattimento e la cura. Ad ogni tratto s'incontravano sulla via mendichi laceri e macilenti, invecchiati nel mestiere, ma fra i quali molti si conoscevano per forestieri, che la fame aveva cacciati da luoghi più miserabili, dove la carità consueta non aveva mezzi per nutrirli; e che passando a canto ai pitocchi indigeni del cantone gli guardavano con diffidenza e ne erano guardati in cagnesco come usurpatori. Di tempo in tempo si vedevano alcuni, i quali dal volto, dal modo e dall'abito mostravano di non aver mai tesa la mano e di essere ora indotti a farlo dalla necessità. Passavano cheti a canto al Padre Galdino, facendogli umilmente di cappello, senza dirgli nulla, perchè la sola parola che indirizzavano ai passeggieri era per chiedere l'elemosina, e un cappuccino, come ognun sa, non aveva niente. Ma il buon Padre Galdino si volgeva a quelli che apparivano più estenuati, più avviliti, e diceva loro in aria di compassione: – Andate al convento, fratello; finchè ci sarà un tozzo per noi, lo divideremo. – I contadini, sparsi pei campi, non rallegravano più la scena di quello che facessero i poverelli. Salutavano essi umilmente il Padre Galdino, e quelli a cui egli domandava come l'andasse: – Come vuole, padre? rispondevano: la va malissimo. – Alcuni, che in tempi ordinarj non avrebbero osato fermare e interrogare il Padre Guardiano, fatti più animosi per la miseria dei tempi, gli dicevano: – Come anderà questa faccenda, Padre Galdino? « – Sperate in Dio, che non vi abbandonerà. Povera gente! Il raccolto è proprio andato male? « – Grano non ne abbiamo per due mesi, le castagne sono fallate, e il lavoro cessa da tutte le bande. «Questa vista e questi discorsi crescevano vie più la mestizia del buon cappuccino, il quale camminava già col tristo presentimento in cuore di andare ad udire una qualche sventura. «Ma perchè pigliava egli tanto a cuore gli affari di Lucia? E perchè al primo avviso si era egli mosso come ad una chiamata del Padre Provinciale? E chi era questo Padre Cristoforo?» Ecco la prima volta che dà al frate il nuovo nome. Ne fa questa pittura: «Il Padre Cristoforo da Cremona era un uomo di circa sessanta anni» (poi corresse: più presso ai sessanta che ai cinquant'anni): «e il suo aspetto come i suoi modi annunziavano un antico e continuo combattimento tra una natura prosperosa, robesta, un'indole ardente, avventata, impetuosa e una legge imposta alla natura e all'indole da una volontà efficace e costante. Il suo capo, calvo e coperto all'intorno, secondo il rito cappuccinesco, di una corona di capelli, che l'età aveva renduti bianchi, si alzava di tempo in tempo per un movimento di spiriti inquieti e tosto si abbassava per riflessioni di umiltà. La barba, lunga e canuta, che gli copriva il mento e parte delle guance, faceva ancor più risaltare le forme rilevate, alle quali una antica abitudine di astinenza aveva dato più di gravità che tolto di espressione, e due occhj vivi, pronti, che di tratto in tratto sfolgoravano con vivacità repentina: come due cavalli bizzarri condotti a mano da un cocchiere col quale sanno per costume che non si può vincerla, pure fanno di tratto in tratto qualche salto, che termina subito con una buona stirata di briglie. «Il signor Ludovico (così fu nominato dal suo padrino quegli che facendosi poi frate prese il nome di Cristoforo), il signor Ludovico era figlio d'un ricco mercante cremonese, il quale negli ultimi anni suoi, vedovo e con questo unico figlio, rinunziò al commercio, comperò beni stabili, si pose a vivere da signore, cercò di far dimenticare che era stato mercante, e avrebbe voluto dimenticarlo egli stesso. Ma il fondaco, le balle, il bracciò gli tornavano sempre alla fantasia, come l'ombra di Banco a Macbeth». Per quali ragioni l'Autore prima lo chiamò Galdino e poi Cristoforo? Damiamo Muoni [L'antico Stato di Romano di Lombardia ed altri Comuni del suo Mandamento, cenni storici, documenti e regesti, Milano, Brigola, 1871; pp. 243-244] rinvenne negli Archivi di Finanza di Milano «un documento del massimo interesse», che «potrebbesi denominare: Incarico impartito il 21 ottobre 1646 dal Rev. P. Cristoforo da Como, Guardiano di Manza, a frate Lorenzo da Novara, Ministro Provinciale, per verificare quali furono i PP. Cappuccini, che si distinsero in caritatevoli servigi, massime all'epoca della peste del 1630». Il P. Felice da Mezzana, cappuccino, [Cenni sul Padre Cristoforo del Manzoni, Crema, tip. S. Pantaleone di L. Meleri, 1899; p. 12] osserva giustamente che è un titolo «dato con inesattezza, perchè da esso titolo risulta il guaio che un inferiore (Guardiano) darebbe ordini ad un superiore (Provinciale)». Propone dunque che invece s'intitoli: Processo autentico, istituito per commissione Generalizia, sui Cappuccini assistenti al lazzeretto e sul servizio ivi prestato nella pestilenza del 1630, compilato l'anno 1646. Da questo Processo risulta che il P. Vittore, uno de' superstiti, dichiarò che tra i cappuccini che prestarono l'opera loro nel lazzeretto di Milano vi fu anche il «Padre Fra Cristoforo Picenardi da Cremona, sacerdote, che morì nel mese di giugno dei suddetto anno 1630 di peste, stimata da lui catarro, ma dagli altri tutti giudicata vera peste, havendo servito con molto fervore di carità et esempii religiosi a' poveri appestati». Fra Bonifacio, laico, altro dei superstiti, depose che il «Padre Fra Cristoforo servì e morì di peste al lazzeretto»; e il P. Felice Casati, terzo e ultimo dei superstiti, ripetè che il «Padre Fra Cristoforo servì nel lazzeretto e vi lasciò la vita». La scoperta fece chiasso, e il «documento» fu mostrato al Manzoni, il quale corse nella sua libreria e tornò con le Memorie delle cose notabili successe in Milano intorno al mal contaggioso l'anno 1630, ec. raccolte da Don Pio La Croce, in Milano, nelle Stampe di Giuseppe Maganza, 1730; in-4º. Son le memorie stesse che cita nel cap. XXXII de' Promessi Sposi, dicendole tratte «evidentemente da scritto inedito d'autore vissuto al tempo della pestilenza; se pure non è una semplice edizione, piuttosto che una nuova compilazione». Tornò dunque con queste Memorie e lesse al suo visitatore quello che vi sta scritto a pag. 12. «Nelli stessi giorni» (così il La Croce) «il P. Cristoforo da Cremona, sacerdote, molto avanti già eletto a quel servizio, tolti gli ostacoli che in allora gliel'avevano impedito, alla fine entrò nel desiderato arringo: e ben si può dire desiderato, perchè più volte fu udito dire: – Io ardo di desiderio di andare a morire per Gesù Cristo, ed ora mi pare mill'anni. – Desiderio che ebbe poi felicissimo l'effetto corrispondente, a' 10 pure di giugno, morendo di peste per il servizio di quei poveri, nella persona de' quali serviva il suo diletto Gesù». Cfr. Stoppani A. I primi anni di Alessandro Manzoni, spigolature, Milano, Bernardoni, 1874; pp, 135-138. Il Muoni tira la conseguenza che, «giusta siffatto documento, il P. Cristoforo anzichè essere al mondo un Ludovico, nato da un semplice mercante di provincia, apparterrebbe in quella vece all'antica e patrizia famiglia dei Picenardi di Cremona». Il «documento» invece prova soltanto che il P. Cristoforo, morto di peste al lazzeretto, apparteneva alla famiglia Picenardi di Cremona. Ora, siccome a Cremona delle famiglie Picenardi ce n'erano parecchie, alcune patrizie, altre no, resta a vedersi da quale di esse sia uscito. Della «nobilissima famiglia dei Picenardi» già l'aveva detto il P. Massimo Bertani da Valenza [Annali Cappuccini, part. III, vol III, n.º 30]; ma ottantaquattro anni dopo la morte del P. Cristoforo e senza darne nessuna prova. Ai giorni nostri se n'è fatto caldo sostenitore Don Luigi Lucchini, che più volte è sceso in campo. Cfr. Fra Cristoforo dei Promessi Sposi, personaggio storico cremonese, illustrazione documentata, scene della braveria cremonese, Bozzolo, tip. Arini, 1902, in-8.º —Commentario dei Promessi Sposi, ovvero la rivelazione di tutti i personaggi anonimi, Bozzolo, tip. Commerciale, 1902, in-8.º – Lo stesso, Seconda edizione, riccamente illustrata da medaglioni, Lecco, tip. arciv. del Resegone, 1904, in-8.º Le sue conclusioni son queste. Trova ne' libri de' battezzati di Cremona un Lodovico, figlio di Giuseppe Picenardi e di Susanna Cellana, nato il 5 decembre 1568, non però appartenente ai «rami più cospicui del casato», ma alle «altre famiglie dei Picenardi, ricche di censo, senza però un cenno di nobiltà»; e trova che questo Lodovico era uno spadaccino e un attaccabrighe, in discordia con la prepotente e sanguinaria famiglia cremonese degli Ariberti. Esclama: questo è il Picenardi che si fece cappuccino, e tutto quello che scrive il Manzoni del P. Cristoforo è la biografia di lui, «non un parto inverosimile, creato dalla fantasia del romanziere». Il P. Felice da Mezzana [Op. cit.; pp. 7-8] gli risponde: «che ci sia stato un Lodovico nella nobile famiglia Picenardi poco importa, e il Lucchini avrebbe dovuto fare a meno della fede di nascita; si dovrebbe mostrare: 1.º che questi si fece cappuccino; 2.º qual fu la causa che diede l'ultimo colpo alla sua vocazione». Il Lucchini non riesce a dimostrare nè una cosa, nè l'altra; e «dopo d'aver avuta la bella ventura di poter assodare, con documenti e prove abbastanza copiose, la vita drammatica di Lodovico Picenardi, è abbandonato dalla capricciosa fortuna nel momento più bello, quando trattavasi di trovare, stabilire, assodare storicamente l'ultimo atto, o lo scioglimento del dramma». Pio La Croce nelle sue Memorie, oltre il P. Cristoforo da Cremona e tanti e tanti altri cappuccini che prestarono l'opera loro generosa durante l'infierire della peste, rammenta anche un P. Galdino della Brusada, non già laico, ma sacerdote, che «con purità particolare» servì egli pure gli appestati. Il Manzoni dette dunque questo nome di Galdino al tipo ideale di cappuccino che andava immaginando; nome già portato da un arcivescovo di Milano, che fu cardinale e santo, e talmente caritatevole da restare in proverbio il pane di S. Galdino. Ma poi trovando nelle stesse Memorie rammentato un P. Cristoforo da Cremona, morto nel lazzeretto assistendo gli appestati; appunto per aver egli fatto olocausto della vita in quel tremendo luogo di dolore, fu in lui e col suo nome che idealizzò il proprio eroe della carità cristiana. E a fra Canziano dette il nome di Galdino; il «nome soltanto, si badi»; e ripensando al proverbio milanese el pan de San Galdin, «di qui dovè forse venire al romanziere l'idea di metter quel nome ad un frate cercatore; da lui destinato a rappresentare uno degli aspetti della vita conventuale», come nota col suo solito acume il D'Ovidio [Fra Galdino; in Le correzioni ai Promessi Sposi e la questione della lingua, Napoli, Morano, 1893; pp. 259-260], Racconta lo Stampa [Op. cit.; II, 149]: «Un giorno che il Manzoni sorrideva delle sciocche accuse di bigottismo che gli erano affibbiate… venne fuori a dire: – Non hanno capito che ho messo a posta nel romanzo quel personaggio di fra Galdino per porre in ridicolo per l'appunto i pregiudizi bigotti? – ». Il Manzoni, discorrendo col Bonghi, ebbe a dire: «M'hanno chi lodato, chi rimproverato d'aver voluto rimettere in onore i Cappuccini. Non ci ho neppure pensato. Gli ho messi così nei mio romanzo, perchè mi son parsi una forza viva e attiva in quei tempi. Ora, non gli credo più utili alla religione». Cfr. D'Ovidio F., I pensieri inediti del Bonghi; in Simpatie, Palermo, Sandron, 1903, p. 79. Oltre il D'Ovidio, si occuparono di fra Galdino, Luigi Ercolani, Fra Galdino a Francesco D'Ovidio, Reggio, tip. Lipari, 1879; in-8º; Alberino Bondi, Fra Galdino, nella Psiche, di Palermo, ann. XVI, n.º 21, 1º novembre 1899; e Francesco Lo Parco, Due frati nei «Promessi Sposi», Ariano, Stab. tipografico Appulo-Irpino, 1901; in-8.º Di fra Galdino tratta a pp. 5-17 e 44-46; l'altro frate è il P. Cristoforo. Luigi Sailer [Il P. Cristoforo nel Romanzo e nella Storia; in Discussioni manzoniane, Città di Castello, Lapi, 1886, pp, 147-196] trova «parecchi riscontri curiosi» tra Alfonso III d'Este che, rinunziata la corona ducale di Modena, si fece cappuccino, e il frate manzoniano. Niccolò Rodolico [L'abdicazione di Alfonso III d'Este, Acireale, tip. dell'Etna, 1901, pp. 87-92] non crede «esatto storicamente il continuo trascendere, che il Sailer nota, delle virtù effettive ed eroiche del Principe, in eccessi viziosi di cui appariscono tutti i germi nel P, Cristoforo del Manzoni». Per il Rodolico «la splendida figura del P. Cristoforo non ha, per la sua verosimiglianza, bisogno di riprove istoriche in episodii della vita del Duca cappuccino. Essa vive nell'anima buona eterna dell'Umanità, che ama il P. Cristoforo, poichè corrisponde a ciò che è in essa di veramente buono, di quel Buono che talvolta, come scintilla del fuoco divino, sprizza di luce nelle azioni umane dei padri Cristofori della Storia». Rodolfo Renier [Un riscontro al serio accidente per cui indossò la tonaca P. Cristoforo; in Giornale storico della letteratura italiana, XXXVIII, 247-250] nega che il Manzoni «abbia in modo alcuno esemplato il Duca cappuccino. Troppe e troppo palesi sono le diversità. Ma se il Manzoni conobbe la storia di Alfonso (e chi sappia quanto accurata sia stata sempre la sua preparazione storica non dubiterà che l'abbia conosciuta), è probabile, anzi quasi certo, che da essa tolse più d'una ispirazione per delineare, in conformità allo spirito del tempo, la figura di Lodovico-Cristoforo». In un brano della prima minuta, che ho riportato qui sopra, il Manzoni annovera tra quelli che si fecero cappuccini «talvolta Principi, o fastiditi, o atterriti del loro potere». È un accenno ad Alfonso III, la cui vita ritengo abbia appresa dal Muratori, non già nelle biografie che ne scrissero il P. Giovanni da Sestola, il P. Giuseppe Maria Mozzarella e il P. Gaspero De Rougnes. Giovanni Livi [Il duello del Padre Cristoforo in relazione a documenti del tempo; nella Nuova Antologia, fascicolo del 16 giugno 1899] rintracciò una grida de' Rettori di Brescia del 5 maggio 1589, con la quale, «considerando con quanta facilità il più delle volte, per causa della sola precedentia della strada, succedono homicidii de importantia», si ordina, sotto gravi pene, «che nell'avenire… incontrandosi gentilhomini o altre persone che pretendino la superiorità della strada, sempre quello che caminarà dalla banda del muro con la mano destra verso a esso muro non sia, nè possa essere sforciato a partirsi da suo luogo, nel qual modo l'uno et l'altro haverà la banda destra». Il Manzoni anche nell'episodio del duello di Lodovico dipinge i tempi con tale verità, che se ne ha la piena conferma ne' documenti. Questo prova la grida, e niente altro; ma che la grida fosse conosciuta da lui, che gliela potessero avere inviata o Camillo Ugoni, o il Mompiani, o Giambattista Pagani, come vuole il Livi, è un correr troppo. A buon conto, quando il Manzoni scriveva il romanzo, il Mompiani era sotto processo; l'Ugoni in esilio; il Pagani non si occupò mai di ricerche erudite. Il prof. Rodolfo Renier riporta una curiosa lettera d'Isabella Gonzaga al marito, che è del 17 decembre 1507, nella quale lo ragguaglia che a Mantova, «essendosi incontrati a caso, suso uno cantono, messer Francisco Suardo et Zoan Lodovico da Gonzaga, per non cedersi l'un l'altro la via, sono stati fermi più de un'hora, contendendo de precedentia, l'uno per esser cavaler, l'altro de la casa del Gonzaga». Finalmente ebbero un'idea felice: «se voltarono l'uno al contrario de l'altro, ritornando per la via dove erano venuti». Il marchese Bartolommeo Ariberti di Cremona, trovandosi a Bologna, fu richiesto d'aiuto da Niccolò Soresina, suo concittadino, che essendo venuto a litigio col figlio del Doge di Venezia, là studente, temeva «che, accompagnato dalla sua numerosa fazione di venti o venticinque che si fussero fra servidori e scolari», avesse risoluto di affrontarlo e di torgli il muro». Il marchese gli dette braccio e «si trasse pertanto avanti il suo camerata, per sostener quel muro e quella mano che gli si doveva, e che gli avversari, co' quali egli nè haveva conoscenza, nè alcun disparere, tentavano fuor di ragione di usurparsi. A quest'atto, che parve ardito a chi supponeva di non trovar resistenza, ma di potersi ingoiare a man franca col grosso numero dei seguaci l'avversano, tratte dall'una e dall'altra parte le spade, campeggiò la bravura del marchese sì fattamente, che cagionò terrore agli oppositori e meraviglia grande agli spettatori, vedendolo, con cinque sole persone, passare avanti vittoriosamente ed illeso, sostenere al maggior colmo l'honore all'amico ed a sè». Vita del Marchese Bartolomeo Ariberti, dedicata all'Illustriss. Signore il Sig. Marchese Girolamo Ariberti da Gienserico Francomono Scirtibargamo [Giacomo Ariberti], In Gormalta, senza note tipografiche, [1649]; pp. 8-10. Cfr. anche: Manacorda G., Il duello di Lodovico e un duello storico; nel Giornale storico della letteratura italiana; XLIV, 273-276. Di questi esempi, rovistando per gli archivi, ce n'è da trovarne un'infinità. (Ed.)
154Nella stessa prima minuta cancellò qui e altrove questo nome, sostituendovi quello di Duplica, che poi nella seconda minuta diventò Azzecca-garbugli. E cancellò anche il nome della serva di lui, che nella prima minuta era Felicina. (Ed.)
155Quest'episodio è tolto dal capitolo III del tomo I della prima minuta. (Ed.)
156Il Padre Cristoforo assiste al pranzo di Don Rodrigo. «Era questi in capo alla tavola: alla sua destra sedeva il giovane Conte Grazio», [divenuto poi Attilio nel testo definitivo], «cugino di Don Rodrigo, suo compagno di libertinaggio e di soperchieria, e che villeggiava con lui; alla sinistra il Podestà, che Don Rodrigo aveva invitato non senza perchè, potendo trovarsi in un impegno dal quale si sarebbe cavato meglio quando la Giustizia fosse tutta disposta in favor suo. Il Podestà mostrava di ricevere l'onore di sedere famigliarmente a tavola d'un cavaliere con un rispetto misto però d'una certa libertà che gli dava il suo uficio; accanto a lui e con un rispetto il più puro e il più sviscerato sedeva il nostro dottor Duplica, il quale avrebbe voluto essere il protetto di tutti quelli che eran da più di lui e il protettore di tutti quelli che gli erano inferiori: due o tre altri convitati di ancor minore importanza attendevano a mangiare e a sorridere con una adulazione ancor più passiva di quella del dottore: e quando questi approvava con un argomento, o con una lode, che voleva esser ragionata, essi non sapevano dire più in là di: certamente». La disputa cavalleresca, nella quale il conte cugino e il Podestà erano di contrario parere e in cui bisognò che anche il Padre Cristoforo dicesse come la pensava, fu suggerita al Manzoni dal Birago. Il dott. Ubaldo Mazzini nello scritto già ricordato: La Cavalleria nei Promessi Sposi, prova, che «il luogo dei Consigli del Birago che ci mostra a luce meridiana esser quel libro il vero fonte a cui ha attinto è il Consiglio II, cioè il caso di bastonate date ad un portator di sfida, che trova riscontro nel capitolo V dei Promessi Sposi. Non solo qui il caso è perfettamente identico; ma identici sono i personaggi, identiche le citazioni, spesso identiche le parole». (Ed.)
157A questo punto termina il capitolo V del tomo I della prima minuta e incomincia quello VI, intitolato: Peggio che peggio. (Ed.)
158È la giornata che, chiamato da Lucia, corre alla sua casetta, e trova la giovane in angoscia per l'impedito matrimonio e per le persecuzioni di don Rodrigo. Il Padre Cristoforo, dopo, «si avviò al suo convento. Ivi andò in coro a cantare terza e sesta, s'assise alla parca mensa, e allora più parca del solito per la carestia che cominciava a farsi sentire dappertutto, e dopo raccomandati al Vicario gli affari del suo piccolo regno, si pose in via verso il covile dell'orso, che si trattava di ammansare; senza avere, a vero dire, molta speranza del buon successo del suo tentativo». Di ritorno dal «castellotto di don Rodrigo», corre di nuovo alla casetta di Lucia, «nell'attitudine di un generale» che ha «perduta, senza sua colpa, una battaglia». (Ed).
159Segue, cancellato: «Quindi si gittò egli pure sul suo canile, dove lo lasceremo dormire, che ne ha bisogno». Quello che vien dopo, l'aggiunse poi. (Ed.)
160Questo brano è tolto dal capitolo VII del tomo I della prima minuta. (Ed.)
161Era Fermo, il quale menava con sè Tonio e Gervaso, che dovevano servire da testimoni al matrimonio. (Ed.)
162Variante: «saliscendo». (Ed.)
163La felice trovata di Carneade, come vedremo, balenò alla mente del Manzoni nella seconda minuta. (Ed.)
164Segue cancellato: «Don Abbondio non aveva avuto tempo di spaventarsi, nè di maravigliarsi, nè di vedere, che Fermo aveva già pronunziate le parole magiche: Signor curato, in presenza di questi testimonj, questa è mia moglie». (Ed.)
165Segue cancellato: «il sagrestano». (Ed.)
166È un brano del capitolo VII del tomo I della prima minuta. (Ed.)

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