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– Come! – esclamò Perpetua, fermandosi un momento su due piedi, e mettendo i pugni su’ fianchi, in quella maniera che la gerla glielo permetteva: – come! verrà ora a farmi codesti rimproveri, quand’era lei che me la faceva andar via, la testa, in vece d’aiutarmi e farmi coraggio! Ho pensato forse più alla roba di casa che alla mia; non ho avuto chi mi desse una mano; ho dovuto far da Marta e Maddalena; se qualcosa anderà a male, non so cosa mi dire: ho fatto anche più del mio dovere.

Agnese interrompeva questi contrasti, entrando anche lei a parlare de’ suoi guai: e non si rammaricava tanto dell’incomodo e del danno, quanto di vedere svanita la speranza di riabbracciar presto la sua Lucia; ché, se vi rammentate, era appunto quell’autunno sul quale avevan fatto assegnamento: né era da supporre che donna Prassede volesse venire a villeggiare da quelle parti, in tali circostanze: piuttosto ne sarebbe partita, se ci si fosse trovata, come facevan tutti gli altri villeggianti.

La vista de’ luoghi rendeva ancor più vivi que’ pensieri d’Agnese, e più pungente il suo dispiacere. Usciti da’ sentieri, avevan presa la strada pubblica, quella medesima per cui la povera donna era venuta riconducendo, per così poco tempo, a casa la figlia, dopo aver soggiornato con lei, in casa del sarto. E già si vedeva il paese.

– Anderemo bene a salutar quella brava gente, – disse Agnese.

– E anche a riposare un pochino: ché di questa gerla io comincio ad averne abbastanza; e poi per mangiare un boccone, – disse Perpetua.

– Con patto di non perder tempo; ché non siamo in viaggio per divertimento, – concluse don Abbondio.

Furono ricevuti a braccia aperte, e veduti con gran piacere: rammentavano una buona azione. Fate del bene a quanti più potete, dice qui il nostro autore; e vi seguirà tanto più spesso d’incontrar de’ visi che vi mettano allegria.

Agnese, nell’abbracciar la buona donna, diede in un dirotto pianto, che le fu d’un gran sollievo; e rispondeva con singhiozzi alle domande che quella e il marito le facevan di Lucia.

– Sta meglio di noi, – disse don Abbondio: – è a Milano, fuor de’ pericoli, lontana da queste diavolerie.

– Scappano, eh? il signor curato e la compagnia, – disse il sarto.

– Sicuro, – risposero a una voce il padrone e la serva.

– Li compatisco.

– Siamo incamminati, – disse don Abbondio; – al castello di ***.

– L’hanno pensata bene: sicuri come in chiesa.

– E qui, non hanno paura? – disse don Abbondio.

– Dirò, signor curato: propriamente in ospitazione, come lei sa che si dice, a parlar bene, qui non dovrebbero venire coloro: siam troppo fuori della loro strada, grazie al cielo. Al più al più, qualche scappata, che Dio non voglia: ma in ogni caso c’è tempo; s’hanno a sentir prima altre notizie da’ poveri paesi dove anderanno a fermarsi.

Si concluse di star lì un poco a prender fiato; e, siccome era l’ora del desinare, – signori, – disse il sarto: – devono onorare la mia povera tavola: alla buona: ci sarà un piatto di buon viso.

Perpetua disse d’aver con sé qualcosa da rompere il digiuno. Dopo un po’ di cerimonie da una parte e dall’altra, si venne a patti d’accozzar, come si dice, il pentolino, e di desinare in compagnia.

I ragazzi s’eran messi con gran festa intorno ad Agnese loro amica vecchia. Presto, presto; il sarto ordinò a una bambina (quella che aveva portato quel boccone a Maria vedova: chi sa se ve ne rammentate più!), che andasse a diricciar quattro castagne primaticce, ch’eran riposte in un cantuccio: e le mettesse a arrostire.

– E tu, – disse a un ragazzo, – va’ nell’orto, a dare una scossa al pesco, da farne cader quattro, e portale qui: tutte, ve’. E tu, – disse a un altro, – va’ sul fico, a coglierne quattro de’ più maturi. Già lo conoscete anche troppo quel mestiere – Lui andò a spillare una sua botticina; la donna a prendere un po’ di biancheria da tavola. Perpetua cavò fuori le provvisioni; s’apparecchiò: un tovagliolo e un piatto di maiolica al posto d’onore, per don Abbondio, con una posata che Perpetua aveva nella gerla. Si misero a tavola, e desinarono, se non con grand’allegria, almeno con molta più che nessuno de’ commensali si fosse aspettato d’averne in quella giornata.

– Cosa ne dice, signor curato, d’uno scombussolamento di questa sorte? – disse il sarto: – mi par di leggere la storia de’ mori in Francia.

– Cosa devo dire? Mi doveva cascare addosso anche questa!

– Però, hanno scelto un buon ricovero, – riprese quello: – chi diavolo ha a andar lassù per forza? E troveranno compagnia: ché già s’è sentito che ci sia rifugiata molta gente, e che ce n’arrivi tuttora.

– Voglio sperare, – disse don Abbondio, – che saremo ben accolti. Lo conosco quel bravo signore; e quando ho avuto un’altra volta l’onore di trovarmi con lui, fu così compito!

– E a me, – disse Agnese, – m’ha fatto dire dal signor monsignor illustrissimo, che, quando avessi bisogno di qualcosa, bastava che andassi da lui.

– Gran bella conversione! – riprese don Abbondio: – e si mantiene, n’è vero? si mantiene.

Il sarto si mise a parlare alla distesa della santa vita dell’innominato, e come, dall’essere il flagello de’ contorni, n’era divenuto l’esempio e il benefattore.

– E quella gente che teneva con sé?… tutta quella servitù?… – riprese don Abbondio, il quale n’aveva più d’una volta sentito dir qualcosa, ma non era mai quieto abbastanza.

– Sfrattati la più parte, – rispose il sarto: – e quelli che son rimasti, han mutato sistema, ma come! In somma è diventato quel castello una Tebaide: lei le sa queste cose.

Entrò poi a parlar con Agnese della visita del cardinale. – Grand’uomo! – diceva; – grand’uomo! Peccato che sia passato di qui così in furia, che non ho né anche potuto fargli un po’ d’onore. Quanto sarei contento di potergli parlare un’altra volta, un po’ più con comodo.

Alzati poi da tavola, le fece osservare una stampa rappresentante il cardinale, che teneva attaccata a un battente d’uscio, in venerazione del personaggio, e anche per poter dire a chiunque capitasse, che non era somigliante; giacché lui aveva potuto esaminar da vicino e con comodo il cardinale in persona, in quella medesima stanza.

– L’hanno voluto far lui, con questa cosa qui? – disse Agnese. – Nel vestito gli somiglia; ma…

– N’è vero che non somiglia? – disse il sarto: – lo dico sempre anch’io: noi, non c’ingannano, eh? ma, se non altro, c’è sotto il suo nome: è una memoria.

Don Abbondio faceva fretta; il sarto s’impegnò di trovare un baroccio che li conducesse appiè della salita; n’andò subito in cerca, e poco dopo, tornò a dire che arrivava. Si voltò poi a don Abbondio, e gli disse: – signor curato, se mai desiderasse di portar lassù qualche libro, per passare il tempo, da pover’uomo posso servirla: ché anch’io mi diverto un po’ a leggere. Cose non da par suo, libri in volgare; ma però…

– Grazie, grazie, – rispose don Abbondio: – son circostanze, che si ha appena testa d’occuparsi di quel che è di precetto.

Mentre si fanno e si ricusano ringraziamenti, e si barattano saluti e buoni augùri, inviti e promesse d’un’altra fermata al ritorno, il baroccio è arrivato davanti all’uscio di strada. Ci metton le gerle, salgon su, e principiano, con un po’ più d’agio e di tranquillità d’animo, la seconda metà del viaggio.

Il sarto aveva detto la verità a don Abbondio, intorno all’innominato. Questo, dal giorno che l’abbiam lasciato, aveva sempre continuato a far ciò che allora s’era proposto, compensar danni, chieder pace, soccorrer poveri, sempre del bene in somma, secondo l’occasione. Quel coraggio che altre volte aveva mostrato nell’offendere e nel difendersi, ora lo mostrava nel non fare né l’una cosa né l’altra. Andava sempre solo e senz’armi, disposto a tutto quello che gli potesse accadere dopo tante violenze commesse, e persuaso che sarebbe commetterne una nuova l’usar la forza in difesa di chi era debitore di tanto e a tanti; persuaso che ogni male che gli venisse fatto, sarebbe un’ingiuria riguardo a Dio, ma riguardo a lui una giusta retribuzione; e che dell’ingiuria, lui meno d’ogni altro, aveva diritto di farsi punitore. Con tutto ciò, era rimasto non meno inviolato di quando teneva armate, per la sua sicurezza, tante braccia e il suo. La rimembranza dell’antica ferocia, e la vista della mansuetudine presente, una, che doveva aver lasciati tanti desidèri di vendetta, l’altra, che la rendeva tanto agevole, cospiravano in vece a procacciargli e a mantenergli un’ammirazione, che gli serviva principalmente di salvaguardia. Era quell’uomo che nessuno aveva potuto umiliare, e che s’era umiliato da sé. I rancori, irritati altre volte dal suo disprezzo e dalla paura degli altri, si dileguavano ora davanti a quella nuova umiltà: gli offesi avevano ottenuta, contro ogni aspettativa, e senza pericolo, una soddisfazione che non avrebbero potuta promettersi dalla più fortunata vendetta, la soddisfazione di vedere un tal uomo pentito de’ suoi torti, e partecipe, per dir così, della loro indegnazione. Molti, il cui dispiacere più amaro e più intenso era stato per molt’anni, di non veder probabilità di trovarsi in nessun caso più forti di colui, per ricattarsi di qualche gran torto; incontrandolo poi solo, disarmato, e in atto di chi non farebbe resistenza, non s’eran sentiti altro impulso che di fargli dimostrazioni d’onore. In quell’abbassamento volontario, la sua presenza e il suo contegno avevano acquistato, senza che lui lo sapesse, un non so che di più alto e di più nobile; perché ci si vedeva, ancor meglio di prima, la noncuranza d’ogni pericolo. Gli odi, anche i più rozzi e rabbiosi, si sentivano come legati e tenuti in rispetto dalla venerazione pubblica per l’uomo penitente e benefico. Questa era tale, che spesso quell’uomo si trovava impicciato a schermirsi dalle dimostrazioni che gliene venivan fatte, e doveva star attento a non lasciar troppo trasparire nel volto e negli atti il sentimento interno di compunzione, a non abbassarsi troppo, per non esser troppo esaltato. S’era scelto nella chiesa l’ultimo luogo; e non c’era pericolo che nessuno glielo prendesse: sarebbe stato come usurpare un posto d’onore. Offender poi quell’uomo, o anche trattarlo con poco riguardo, poteva parere non tanto un’insolenza e una viltà, quanto un sacrilegio: e quelli stessi a cui questo sentimento degli altri poteva servir di ritegno, ne partecipavano anche loro, più o meno.

 

Queste medesime ed altre cagioni, allontanavano pure da lui le vendette della forza pubblica, e gli procuravano, anche da questa parte, la sicurezza della quale non si dava pensiero. Il grado e le parentele, che in ogni tempo gli erano state di qualche difesa, tanto più valevano per lui, ora che a quel nome già illustre e infame, andava aggiunta la lode d’una condotta esemplare, la gloria della conversione. I magistrati e i grandi s’eran rallegrati di questa, pubblicamente come il popolo; e sarebbe parso strano l’infierire contro chi era stato soggetto di tante congratulazioni. Oltre di ciò, un potere occupato in una guerra perpetua, e spesso infelice, contro ribellioni vive e rinascenti, poteva trovarsi abbastanza contento d’esser liberato dalla più indomabile e molesta, per non andare a cercar altro: tanto più, che quella conversione produceva riparazioni che non era avvezzo ad ottenere, e nemmeno a richiedere. Tormentare un santo, non pareva un buon mezzo di cancellar la vergogna di non aver saputo fare stare a dovere un facinoroso: e l’esempio che si fosse dato col punirlo, non avrebbe potuto aver altro effetto, che di stornare i suoi simili dal divenire inoffensivi. Probabilmente anche la parte che il cardinal Federigo aveva avuta nella conversione, e il suo nome associato a quello del convertito, servivano a questo come d’uno scudo sacro. E in quello stato di cose e d’idee, in quelle singolari relazioni dell’autorità spirituale e del poter civile, ch’eran così spesso alle prese tra loro, senza mirar mai a distruggersi, anzi mischiando sempre alle ostilità atti di riconoscimento e proteste di deferenza, e che, spesso pure, andavan di conserva a un fine comune, senza far mai pace, poté parere, in certa maniera, che la riconciliazione della prima portasse con sé l’oblivione, se non l’assoluzione del secondo, quando quella s’era sola adoprata a produrre un effetto voluto da tutt’e due.

Così quell’uomo sul quale, se fosse caduto, sarebbero corsi a gara grandi e piccoli a calpestarlo; messosi volontariamente a terra, veniva risparmiato da tutti, e inchinato da molti.

È vero ch’eran anche molti a cui quella strepitosa mutazione dovette far tutt’altro che piacere: tanti esecutori stipendiati di delitti, tanti compagni nel delitto, che perdevano una così gran forza sulla quale erano avvezzi a fare assegnamento, che anche si trovavano a un tratto rotti i fili di trame ordite da un pezzo, nel momento forse che aspettavano la nuova dell’esecuzione. Ma già abbiam veduto quali diversi sentimenti quella conversione facesse nascere negli sgherri che si trovavano allora con lui, e che la sentirono annunziare dalla sua bocca: stupore, dolore, abbattimento, stizza; un po’ di tutto, fuorché disprezzo né odio. Lo stesso accadde agli altri che teneva sparsi in diversi posti, lo stesso a’ complici di più alto affare, quando riseppero la terribile nuova, e a tutti per le cagioni medesime. Molt’odio, come trovo nel luogo, altrove citato, del Ripamonti, ne venne piuttosto al cardinal Federigo. Riguardavan questo come uno che s’era mischiato ne’ loro affari, per guastarli; l’innominato aveva voluto salvar l’anima sua: nessuno aveva ragion di lagnarsene.

Di mano in mano poi, la più parte degli sgherri di casa, non potendo accomodarsi alla nuova disciplina, né vedendo probabilità che s’avesse a mutare, se n’erano andati. Chi avrà cercato altro padrone, e fors’anche tra gli antichi amici di quello che lasciava; chi si sarà arrolato in qualche terzo, come allora dicevano, di Spagna o di Mantova, o di qualche altra parte belligerante; chi si sarà messo alla strada, per far la guerra a minuto, e per conto suo; chi si sarà anche contentato d’andar birboneggiando in libertà. E il simile avranno fatto quegli altri che stavano prima a’ suoi ordini, in diversi paesi. Di quelli poi che s’eran potuti avvezzare al nuovo tenor di vita, o che lo avevano abbracciato volentieri, i più, nativi della valle, eran tornati ai campi, o ai mestieri imparati nella prima età, e poi abbandonati; i forestieri eran rimasti nel castello, come servitori: gli uni e gli altri, quasi ribenedetti nello stesso tempo che il loro padrone, se la passavano, al par di lui, senza fare né ricever torti, inermi e rispettati.

Ma quando, al calar delle bande alemanne, alcuni fuggiaschi di paesi invasi o minacciati capitarono su al castello a chieder ricovero, l’innominato, tutto contento che quelle sue mura fossero cercate come asilo da’ deboli, che per tanto tempo le avevan guardate da lontano come un enorme spauracchio, accolse quegli sbandati, con espressioni piuttosto di riconoscenza che di cortesia; fece sparger la voce, che la sua casa sarebbe aperta a chiunque ci si volesse rifugiare, e pensò subito a mettere, non solo questa, ma anche la valle, in istato di difesa, se mai lanzichenecchi o cappelletti volessero provarsi di venirci a far delle loro. Radunò i servitori che gli eran rimasti, pochi e valenti, come i versi di Torti; fece loro una parlata sulla buona occasione che Dio dava loro e a lui, d’impiegarsi una volta in aiuto del prossimo, che avevan tanto oppresso e spaventato; e, con quel tono naturale di comando, ch’esprimeva la certezza dell’ubbidienza, annunziò loro in generale ciò che intendeva che facessero, e soprattutto prescrisse come dovessero contenersi, perché la gente che veniva a ricoverarsi lassù, non vedesse in loro che amici e difensori. Fece poi portar giù da una stanza a tetto l’armi da fuoco, da taglio, in asta, che da un pezzo stavan lì ammucchiate, e gliele distribuì; fece dire a’ suoi contadini e affittuari della valle, che chiunque si sentiva, venisse con armi al castello; a chi non n’aveva, ne diede; scelse alcuni, che fossero come ufiziali, e avessero altri sotto il loro comando; assegnò i posti all’entrature e in altri luoghi della valle, sulla salita, alle porte del castello; stabilì l’ore e i modi di dar la muta, come in un campo, o come già s’era costumato in quel castello medesimo, ne’ tempi della sua vita disperata.

In un canto di quella stanza a tetto, c’erano in disparte l’armi che lui solo aveva portate; quella sua famosa carabina, moschetti, spade, spadoni, pistole, coltellacci, pugnali, per terra, o appoggiati al muro. Nessuno de’ servitori le toccò; ma concertarono di domandare al padrone quali voleva che gli fossero portate. – Nessuna, – rispose; e, fosse voto, fosse proposito, restò sempre disarmato, alla testa di quella specie di guarnigione.

Nello stesso tempo, aveva messo in moto altr’uomini e donne di servizio, o suoi dipendenti, a preparar nel castello alloggio a quante più persone fosse possibile, a rizzar letti, a disporre sacconi e strapunti nelle stanze, nelle sale, che diventavan dormitòri. E aveva dato ordine di far venire provvisioni abbondanti, per ispesare gli ospiti che Dio gli manderebbe, e i quali infatti andavan crescendo di giorno in giorno. Lui intanto non istava mai fermo; dentro e fuori del castello, su e giù per la salita, in giro per la valle, a stabilire, a rinforzare, a visitar posti, a vedere, a farsi vedere, a mettere e a tenere in regola, con le parole, con gli occhi, con la presenza. In casa, per la strada, faceva accoglienza a quelli che arrivavano; e tutti, o lo avessero già visto, o lo vedessero per la prima volta, lo guardavano estatici, dimenticando un momento i guai e i timori che gli avevano spinti lassù; e si voltavano ancora a guardarlo, quando, staccatosi da loro, seguitava la sua strada.

CAPITOLO XXX

Quantunque il concorso maggiore non fosse dalla parte per cui i nostri tre fuggitivi s’avvicinavano alla valle, ma all’imboccatura opposta, con tutto ciò, cominciarono a trovar compagni di viaggio e di sventura, che da traverse e viottole erano sboccati o sboccavano nella strada. In circostanze simili, tutti quelli che s’incontrano, è come se si conoscessero. Ogni volta che il baroccio aveva raggiunto qualche pedone, si barattavan domande e risposte. Chi era scappato, come i nostri, senza aspettar l’arrivo de’ soldati; chi aveva sentiti i tamburi o le trombe; chi gli aveva visti coloro, e li dipingeva come gli spaventati soglion dipingere.

– Siamo ancora fortunati, – dicevan le due donne: – ringraziamo il cielo. Vada la roba; ma almeno siamo in salvo.

Ma don Abbondio non trovava che ci fosse tanto da rallegrarsi; anzi quel concorso, e più ancora il maggiore che sentiva esserci dall’altra parte, cominciava a dargli ombra. – Oh che storia! – borbottava alle donne, in un momento che non c’era nessuno d’intorno: – oh che storia! Non capite, che radunarsi tanta gente in un luogo è lo stesso che volerci tirare i soldati per forza? Tutti nascondono, tutti portan via; nelle case non resta nulla; crederanno che lassù ci siano tesori. Ci vengono sicuro: sicuro ci vengono. Oh povero me! dove mi sono imbarcato!

– Oh! voglion far altro che venir lassù, – diceva Perpetua: – anche loro devono andar per la loro strada. E poi, io ho sempre sentito dire che, ne’ pericoli, è meglio essere in molti.

– In molti? in molti? – replicava don Abbondio: – povera donna! Non sapete che ogni lanzichenecco ne mangia cento di costoro? E poi, se volessero far delle pazzie, sarebbe un bel gusto, eh? di trovarsi in una battaglia. Oh povero me! Era meno male andar su per i monti. Che abbian tutti a voler cacciarsi in un luogo!… Seccatori! – borbottava poi, a voce più bassa: – tutti qui: e via, e via, e via; l’uno dietro l’altro, come pecore senza ragione.

– A questo modo, – disse Agnese, – anche loro potrebbero dir lo stesso di noi.

– Chetatevi un po’, – disse don Abbondio: – ché già le chiacchiere non servono a nulla. Quel ch’è fatto è fatto: ci siamo, bisogna starci. Sarà quel che vorrà la Provvidenza: il cielo ce la mandi buona.

Ma fu ben peggio quando, all’entrata della valle, vide un buon posto d’armati, parte sull’uscio d’una casa, e parte nelle stanze terrene: pareva una caserma. Li guardò con la coda dell’occhio: non eran quelle facce che gli era toccato a vedere nell’altra dolorosa sua gita, o se ce n’era di quelle, erano ben cambiate; ma con tutto ciò, non si può dire che noia gli desse quella vista. «Oh povero me! – pensava: – ecco se le fanno le pazzie. Già non poteva essere altrimenti: me lo sarei dovuto aspettare da un uomo di quella qualità. Ma cosa vuol fare? vuol far la guerra? vuol fare il re, lui? Oh povero me! In circostanze che si vorrebbe potersi nasconder sotto terra, e costui cerca ogni maniera di farsi scorgere, di dar nell’occhio; par che li voglia invitare! «

– Vede ora, signor padrone, – gli disse Perpetua, – se c’è della brava gente qui, che ci saprà difendere. Vengano ora i soldati: qui non sono come que’ nostri spauriti, che non son buoni che a menar le gambe.

– Zitta! – rispose, con voce bassa ma iraconda, don Abbondio: – zitta! che non sapete quel che vi dite. Pregate il cielo che abbian fretta i soldati, o che non vengano a sapere le cose che si fanno qui, e che si mette all’ordine questo luogo come una fortezza. Non sapete che i soldati è il loro mestiere di prender le fortezze? Non cercan altro; per loro, dare un assalto è come andare a nozze; perché tutto quel che trovano è per loro, e passano la gente a fil di spada. Oh povero me! Basta, vedrò se ci sarà maniera di mettersi in salvo su per queste balze. In una battaglia non mi ci colgono oh! in una battaglia non mi ci colgono.

– Se ha poi paura anche d’esser difeso e aiutato… – ricominciava Perpetua; ma don Abbondio l’interruppe aspramente, sempre però a voce bassa: – zitta! E badate bene di non riportare questi discorsi. Ricordatevi che qui bisogna far sempre viso ridente, e approvare tutto quello che si vede.

Alla Malanotte, trovarono un altro picchetto d’armati, ai quali don Abbondio fece una scappellata, dicendo intanto tra sé: «ohimè, ohimè: son proprio venuto in un accampamento! «Qui il baroccio si fermò; ne scesero; don Abbondio pagò in fretta, e licenziò il condottiere; e s’incamminò con le due compagne per la salita, senza far parola. La vista di que’ luoghi gli andava risvegliando nella fantasia, e mescolando all’angosce presenti, la rimembranza di quelle che vi aveva sofferte l’altra volta. E Agnese, la quale non gli aveva mai visti que’ luoghi, e se n’era fatta in mente una pittura fantastica che le si rappresentava ogni volta che pensava al viaggio spaventoso di Lucia, vedendoli ora quali eran davvero, provava come un nuovo e più vivo sentimento di quelle crudeli memorie. – Oh signor curato! – esclamò: – a pensare che la mia povera Lucia è passata per questa strada!

 

– Volete stare zitta? donna senza giudizio! – le gridò in un orecchio don Abbondio: – son discorsi codesti da farsi qui? Non sapete che siamo in casa sua? Fortuna che ora nessun vi sente; ma se parlate in questa maniera…

– Oh! – disse Agnese: – ora che è santo!..

– State zitta, – le replicò don Abbondio: – credete voi che ai santi si possa dire, senza riguardo, tutto ciò che passa per la mente? Pensate piuttosto a ringraziarlo del bene che v’ha fatto.

– Oh! per questo, ci avevo già pensato: che crede che non le sappia un pochino le creanze?

– La creanza è di non dir le cose che posson dispiacere, specialmente a chi non è avvezzo a sentirne. E intendetela bene tutt’e due, che qui non è luogo da far pettegolezzi, e da dir tutto quello che vi può venire in testa. E casa d’un gran signore, già lo sapete: vedete che compagnia c’è d’intorno: ci vien gente di tutte le sorte; sicché, giudizio, se potete: pesar le parole, e soprattutto dirne poche, e solo quando c’è necessità: ché a stare zitti non si sbaglia mai.

– Fa peggio lei con tutte codeste sue… – riprendeva Perpetua.

Ma: – zitta! – gridò sottovoce don Abbondio, e insieme si levò il cappello in fretta, e fece un profondo inchino: ché, guardando in su, aveva visto l’innominato scender verso di loro. Anche questo aveva visto e riconosciuto don Abbondio; e affrettava il passo per andargli incontro.

– Signor curato, – disse, quando gli fu vicino, – avrei voluto offrirle la mia casa in miglior occasione; ma, a ogni modo, son ben contento di poterle esser utile in qualche cosa.

– Confidato nella gran bontà di vossignoria illustrissima, – rispose don Abbondio, – mi son preso l’ardire di venire, in queste triste circostanze, a incomodarla: e, come vede vossignoria illustrissima, mi son preso anche la libertà di menar compagnia. Questa è la mia governante…

– Benvenuta, – disse l’innominato.

– E questa, – continuò don Abbondio, – è una donna a cui vossignoria ha già fatto del bene: la madre di quella… di quella…

– Di Lucia, – disse Agnese.

– Di Lucia! – esclamò l’innominato, voltandosi, con la testa bassa, ad Agnese. – Del bene, io! Dio immortale! Voi, mi fate del bene, a venir qui… da me… in questa casa. Siate la benvenuta. Voi ci portate la benedizione.

– Oh giusto! – disse Agnese: – vengo a incomodarla. Anzi, – continuò, avvicinandosegli all’orecchio, – ho anche a ringraziarla…

L’innominato troncò quelle parole, domandando premurosamente le nuove di Lucia; e sapute che l’ebbe, si voltò per accompagnare al castello i nuovi ospiti, come fece, malgrado la loro resistenza cerimoniosa. Agnese diede al curato un’occhiata che voleva dire: veda un poco se c’è bisogno che lei entri di mezzo tra noi due a dar pareri.

– Sono arrivati alla sua parrocchia? – gli domandò l’innominato.

– No, signore, che non gli ho voluti aspettare que’ diavoli, – rispose don Abbondio. – Sa il cielo se avrei potuto uscir vivo dalle loro mani, e venire a incomodare vossignoria illustrissima.

– Bene, si faccia coraggio, – riprese l’innominato: – ché ora è in sicuro. Quassù non verranno; e se si volessero provare, siam pronti a riceverli.

– Speriamo che non vengano, – disse don Abbondio. – E sento, – soggiunse, accennando col dito i monti che chiudevano la valle di rimpetto, – sento che, anche da quella parte, giri un’altra masnada di gente, ma… ma…

– E vero, – rispose l’innominato: – ma non dubiti, che siam pronti anche per loro.

«Tra due fuochi, – diceva tra sé don Abbondio: – proprio tra due fuochi. Dove mi son lasciato tirare! e da due pettegole! E costui par proprio che ci sguazzi dentro! Oh che gente c’è a questo mondo! «

Entrati nel castello, il signore fece condurre Agnese e Perpetua in una stanza del quartiere assegnato alle donne, che occupava tre lati del secondo cortile, nella parte posteriore dell’edifizio situata sur un masso sporgente e isolato, a cavaliere a un precipizio. Gli uomini alloggiavano ne’ lati dell’altro cortile a destra e a sinistra, e in quello che rispondeva sulla spianata. Il corpo di mezzo, che separava i due cortili, e dava passaggio dall’uno all’altro, per un vasto andito di rimpetto alla porta principale, era in parte occupato dalle provvisioni, e in parte doveva servir di deposito per la roba che i rifugiati volessero mettere in salvo lassù. Nel quartiere degli uomini, c’erano alcune camere destinate agli ecclesiastici che potessero capitare. L’innominato v’accompagnò in persona don Abbondio, che fu il primo a prenderne il possesso.

Ventitre o ventiquattro giorni stettero i nostri fuggitivi nel castello, in mezzo a un movimento continuo, in una gran compagnia, e che ne’ primi tempi, andò sempre crescendo; ma senza che accadesse nulla di straordinario. Non passò forse giorno, che non si desse all’armi. Vengon lanzichenecchi di qua; si son veduti cappelletti di là. A ogni avviso, l’innominato mandava uomini a esplorare; e, se faceva bisogno, prendeva con sé della gente che teneva sempre pronta a ciò, e andava con essa fuor della valle, dalla parte dov’era indicato il pericolo. Ed era cosa singolare, vedere una schiera d’uomini armati da capo a piedi, e schierati come una truppa, condotti da un uomo senz’armi. Le più volte non erano che foraggieri e saccheggiatori sbandati, che se n’andavano prima d’esser sorpresi. Ma una volta, cacciando alcuni di costoro, per insegnar loro a non venir più da quelle parti, l’innominato ricevette avviso che un paesetto vicino era invaso e messo a sacco. Erano lanzichenecchi di vari corpi che, rimasti indietro per rubare, s’eran riuniti, e andavano a gettarsi all’improvviso sulle terre vicine a quelle dove alloggiava l’esercito; spogliavano gli abitanti, e gliene facevan di tutte le sorte. L’innominato fece un breve discorso a’ suoi uomini, e li condusse al paesetto.

Arrivarono inaspettati. I ribaldi che avevan creduto di non andar che alla preda, vedendosi venire addosso gente schierata e pronta a combattere, lasciarono il saccheggio a mezzo, e se n’andarono in fretta, senz’aspettarsi l’uno con l’altro, dalla parte dond’eran venuti. L’innominato gl’inseguì per un pezzo di strada; poi, fatto far alto, stette qualche tempo aspettando, se vedesse qualche novità; e finalmente se ne ritornò. E ripassando nel paesetto salvato, non si potrebbe dire con quali applausi e benedizioni fosse accompagnato il drappello liberatore e il condottiero.

Nel castello, tra quella moltitudine, formata a caso, di persone, varie di condizione, di costumi, di sesso e d’età, non nacque mai alcun disordine d’importanza. L’innominato aveva messe guardie in diversi luoghi, le quali tutte invigilavano che non seguisse nessun inconveniente, con quella premura che ognuno metteva nelle cose di cui s’avesse a rendergli conto.

Aveva poi pregati gli ecclesiastici, e gli uomini più autorevoli che si trovavan tra i ricoverati, d’andare in giro e d’invigilare anche loro. E più spesso che poteva, girava anche lui, e si faceva veder per tutto; ma, anche in sua assenza, il ricordarsi di chi s’era in casa, serviva di freno a chi ne potesse aver bisogno. E, del resto, era tutta gente scappata, e quindi inclinata in generale alla quiete: i pensieri della casa e della roba, per alcuni anche di congiunti o d’amici rimasti nel pericolo, le nuove che venivan di fuori, abbattendo gli animi, mantenevano e accrescevano sempre più quella disposizione.