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Ottavia

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SCENA SECONDA

Nerone, Ottavia, Seneca

Ner.

 
Chi sei, chi sei, perfida tu, che intera
vaneggi Roma al tuo tornare; ed osi
gridar tuo nome? Or qui, che fai? che imprendi
con questo iniquo traditore? entrambi
state in mia possa. Invan la plebe stolta
vederti chiede. Ah! se mostrarti io deggio,
spero, qual merti, almen mostrarti; estinta.
 

Ottav.

 
Di me, Neron, come piú il vuoi, disponi.
Ma di ogni moto popolar, deh! credi
che innocente son io. Nulla (tel giuro)
chieggo, né spero, io dalla plebe: e dove
nuocerti pur, mal grado mio, potessi,
col mio supplizio il non mio error previeni.
 

Ner.

 
Rea, qual ti sei, pria di punirti, io voglio
che ogni uom te sappia.
 

Seneca

 
Ed ingannar tu speri
con sí turpe menzogna il popol tutto?
 

Ner.

 
Tu pur, tu pure, instigator codardo
dei tumulti, che sfuggi; ascoso capo
di ribellanti moti; all'ira mia
tu pur vendetta un dí sarai; ma, poca.
 

SCENA TERZA

Tigellino, Nerone, Ottavia, Seneca

Tigel.

 
Signor…
 

Ner.

 
Che rechi, o Tigellin? favella.
 

Tigel.

 
Vieppiú feroce la tempesta ferve:
rimedio sol, resta il tuo senno. – Appena
ode la plebe, che un sovran comando
Ottavia in Roma ha ricondotto, a gara
chiede ogni uom di vederla. In te cangiato
credono, stolti, il tuo primier consiglio:
e v'ha chi accerta, che di nuovo accolta
nel tuo talamo l'hai. Chi corre insano
al Campidoglio, e gioja sparge, e voti;
altri di alloro trionfal corona
ripon sopra le immagini neglette
di Ottavia: altri, ebro d'allegrezza, ardisce
atterrar quelle di Poppea: tant'oltre
giunge l'audacia, che infra grida ed urli
nel limo indegnamente strascinate
giacciono infrante. Ogni piú infame scherno
di lei si fa: colmo è Neron di laudi:
ma in bando almen voglion Poppea: né manca
chi temerario anco sua morte grida.
Inni festivi, e in un minacce udresti;
poi preghi, indi minacce, e preghi ancora.
Arde ogni cor; dell'obbedire è nulla.
Tentan duci e soldati argine farsi
alla bollente rapidissim'onda;
invan; disgiunti, sbaragliati, o uccisi,
è un sol momento. – Omai, che far? Che imponi?
 

Ner.

 
Che far?.. Si mostri or questa Ottavia al volgo;
su via, si mostri; – indi si sveni.
 

Ottav.

 
Il petto
eccoti inerme: svenami, se il vuoi.
Pur che a te giovi!.. Alla infiammata plebe
mostrami spenta: ogni colpevol gioja
rintuzzerai tosto cosí. Sol chieggio,
che un'urna stessa il freddo cener mio
di Britannico in un col cener serri.
Base al tuo seggio alta e perenne il nostro
sepolcro avrai. Perché piú indugi? or questo
mio capo prendi; al tuo furore il debbo.
 

Seneca

 
Se perder vuoi seggio ad un tempo e vita,
Neron, sicuro è il mezzo; Ottavia uccidi.
 

Ner.

 
Vendetta avronne ad ogni costo.
 

Ottav.

 
Ah! mille
morti vogl'io, non ch'una, anzi che danno
lieve arrecare al signor mio.
 

Tigel.

 
Ma il tempo
piú stringe ognora. Odi tu gli urli atroci?
Impeto tal non vidi io mai; di tanto
meno affrontabil, che di gioja è figlio.
Sceglier partito è forza.
 

Ottav.

 
E dubbio fia?
Nerone, a tor per ora ogni tumulto,
ei t'è mestier l'uccidermi, o l'amarmi:
l'uno, né mai pur finger tu il potevi;
l'altro brami, è gran tempo: osa tu dunque;
svenami; ardisci: o se da ciò l'istante
fausto or non è, temporeggiar momenti
ben puoi. La plebe credula, e ognor vinta
pur che deluso sia l'impeto primo,
per te s'inganni: è lieve assai; sol basta,
ch'io m'appresenti in placida sembianza,
come se in tuo favor tornata io fossi;
sol, ch'io mi finga tua. Cosí la calca
fia spersa tosto; ogni rumor fia queto;
tempo cosí di sguainar tua spada,
e di segnar tue vittime t'acquisti.
 

Ner.

 
A Roma, io sí, te mostrerò: ma pria
chiarir voglio, se in Roma il signor vero
son io. – Tu corri, Tigellino, al campo;
tacitamente i pretoriani aduna;
terribil quindi esci improvviso in armi
sovra gli audaci; e i passi tuoi sien morte
di quanto incontri.
 

Tigel.

 
Io l'ardirò; ma incerto
ne fia l'evento assai. Feroce l'atto
parrá, col ferro il rintuzzar la gioja.
E se in furor si volge? è breve il passo. —
Mal si resiste a una cittá; supponi
ch'io co' miei forti cada; in tua difesa
chi resta allora?
 

Ner.

 
È ver… Ma, il ceder pure
parrebbe…
 

Tigel.

 
Or credi a me: periglio grave
non far di lieve: il sol tuo aspetto forse
può dissiparli appieno.
 

Ner.

 
… Io di costei
rimango a guardia. In nome mio tu vanne,
mostrati lor: ben sai che sia la plebe;
seco indugiar fia il peggio. A piacer tuo,
fingi, accorda, prometti, inganna, uccidi:
oro, terror, ferro, parole adopra;
pur che sien vinti. Va, vola, ritorna.
 

SCENA QUARTA

Nerone, Ottavia, Seneca

Ner.

 
Seneca, e tu, guai se d'uscir ti attenti
della reggia:… ma statti da me lungi,
ch'io non ti vegga. Iniqui voti intanto
fare a tua posta puoi; spera, desia;
giá giá si appressa anco il tuo dí.
 

Seneca

 
Lo aspetto.
 

SCENA QUINTA

Nerone, Ottavia

Ner.

 
E tu, fia questo il tuo trionfo estremo,
godine pur; che breve…
 

Ottav.

 
Il dí, ma tardo,
anco verrá, che Ottavia a te fia nota.
 

SCENA SESTA

Poppea, Nerone, Ottavia

Poppea

 
Dimmi, o Nerone: al fianco tuo m'hai posto
sul trono tu, perch'io bersaglio fossi
alla insolenza del tuo popol vile?
Ma che veggio? mentr'io son presa a scherno,
tacito, e dubbio, e inulto, stai tu appresso
alla cagion d'ogni tuo danno? In vero,
signor del mondo egli è Nerone! il volgo
pur la sua donna a lui prefigge.
 

Ottav.

 
Hai sola
tu di Nerone il core: omai, che temi?
Io prigioniera vile, io son l'ostaggio
della ondeggiante fe d'audace plebe.
Ti allegra tu: queta ogni cosa appena,
le tue superbe lagrime rasciutte
tosto saranno con tutto il mio sangue.
 

Ner.

 
Tosto in luce verran gli obbrobrj tuoi;
Roma vedrá qual sozzo idol s'ha fatto.
Gli avuti oltraggi, a te, Poppea, verranno
ascritti a onor; a infamia sua gli onori.
 

Ottav.

 
E se pur v'ha chi me convincer possa
d'infamia a schiette prove, io giá t'ho scelta,
in mio pensier, Poppea; giudice sola
te voglio. Il variar del cor gli affetti,
tu sai qual sia delitto, e qual mercede
a chi n'è rea si debba. – Ma innocente
io son, pur troppo, anco ai vostr'occhi. Or via,
tu, che sí altera in tua virtú ti stai;
tu, né pur osi or sostener miei sguardi.
 

Ner.

 
Che ardisci tu? Del tuo signor rispetta
la sposa; trema…
 

Poppea

 
Eh! lascia. Ella ben sceglie
il suo giudice in me: qual mai ne avrebbe
benigno piú? qual potrei dare io pena
a chi l'amor del mio Neron tradisce,
quale altra mai, che il perderlo per sempre?
E pena a te, qual fia piú lieve? il vile
tuo amor, che ascondi invano, appien ti fora
per me concesso il pubblicarlo: degna
d'Eucero amante, degnamente io farti
d'Eucero voglio sposa.
 

Ottav.

 
 
Eucero è velo
a iniquitá piú vil di lui. Ma teco
io non contendo: a ciò non nacqui: ardita
non son io tanto…
 

Ner.

 
A chi se' omai tu pari?
Te fa minor d'ogni piú vile ancella
tua turpe fiamma: appien dal prisco grado,
dalla tua stirpe appien scaduta sei.
 

Ottav.

 
Tu meno assai mi abborriresti, s'io
scaduta fossi or d'ogni cosa; o s'anco
tu il pur credessi. Ma, se il vuoi, ti dono,
tranne sol l'innocenza, ogni mia cosa. —
Crudel Neron, qual che tu sii, né posso
cessar d'amarti, né arrossirne: immensa
ben m'è vergogna in ver, rival nomarmi
di Poppea: ma nol son; mai non ti amava
costei: tuo grado, il trono, e quanto intorno
ti sta, ciò tutto, e non Nerone ell'ama.
 

Ner.

 
Perfida, or ora…
 

Ottav.

 
E tu, quand'io t'impresi
ad amar, tale, ah! tu non eri: al bene
nato eri forse: indole tal ne' primi
anni tuoi, no, mai non mostrasti. Or, ecco
chi cangia in te l'animo, e il cor; costei
ti affascinò la mente; ella primiera,
ella ti apprese a saporare il sangue:
l'eccidio ell'è di Roma. Io tacio i danni
miei, che i minori fieno: ma sanguigno
corre il Tebro per te; fratello, e madre…
 

Ner.

 
Cessa, taci, ritratti, o ch'io…
 

Poppea

 
Lo sdegno
merta costei del signor mio? Gli oltraggi
son le usate de' rei discolpe vane.
Se offendermi ella, o se prestarle fede
potessi tu, solo un de' motti suoi
punto m'avria. Che disse? ch'io non t'amo?
tu sai…
 

Ottav.

 
Tu il sai piú ch'egli: ei lo sapria,
se il trono un dí perdesse: appien qual sei
conosceriati allora. – Ahi! perché il trono,
sola cagion per cui Neron mi abborre,
era mia culla? ah! che non nacqui io pure
di oscuro sangue! a te spiacevol meno,
meno odíosa, e men sospetta io t'era.
 

Ner.

 
Meno odíosa a me? Tu sempre il fosti;
e il sei vieppiú: ma, omai per poco.
 

Poppea

 
E s'io
avi non vanto imperíali, nata
di sangue vil son io perciò? Ma, s'anco
il fossi pur, non figlia esser mi basta
di Messalina.
 

Ottav.

 
Avean miei padri regno;
noti ad ogni uomo i loro error son quindi:
ma, degli oscuri o ignoti tuoi chi seppe
cosa giammai? Pur, se librar te meco
alcun si ardisse, a Ottavia appor potria
gli scambiati mariti? avanzo forse
son io d'un Rufo, o d'un Ottone?
 

Ner.

 
Avanzo
di morte sei, per breve tempo. Omai
del tuo perire, incerto è solo il modo;
ma nol cangi, che in peggio. – Esci: e frattanto
t'abbian tue stanze: va; ch'io piú non t'oda.
 

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