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Gioia!

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Quando tu, per amor mio, avessi lasciato dietro di te tutto ciò che ti fu caro, tutto ciò che ha formato fino ad oggi la tua esistenza: tua madre, tuo fratello, i tuoi amici, i tuoi impegni, i tuoi doveri, – ne avresti rammarico e rimpianto.

E quanto a me?… Oh, Andrea, io non sono che una piccola anima meschina; sono come tutte le donne – o quasi tutte – che, pur anelando alla vietata gioia vogliono anche la decorosa rispettabilità; che pur non volendo rinunciare al piacere, non intendono derogare dalle convenienze; che vogliono la passione ma non lo scandalo; che vogliono l'abbraccio degli uomini ma anche il saluto delle donne....

Tu mi odierai; tu mi disprezzerai! E avrai ragione.

Ebbene, disprezzami, odiami, ma non soffrire. Non voglio, non voglio che tu soffra per me. Non lo valgo, non lo merito.

Io ti ho sempre mentito. Io ti scrivevo delle lettere tristi quando ero gioiosa, ti scrivevo delle lettere gioiose quando ero triste; e anche ora, ora che vorrei essere così sincera con te, forse.... non lo sono.

Forse la verità è un'altra.

Non lo so. So che tu non devi, che tu non devi soffrire per me.

Andrea, Andrea! Dimmi che non soffri.

Viviana.
(LUI)

Non importa se io soffro. Segui la tua strada.

Quanto a me non affliggerti. Anche prima di conoscerti ero triste.

Addio.

LUGLIO
(LEI)

È finito. Finito!

Quando penso a lui, solo laggiù, nel suo studio tetro e desolato, mi sento morire.

Perchè l'ho amato? Perchè ho sofferto? Perchè l'ho lasciato?…

Non so. Non capisco il mio cuore.

Parto domani per Castel Révoire; con Flavia.

Viene anche Oldofredi.

(LUI)

Quanto vano gioire e vano soffrire! Ecco: torno qual'ero; torno alle mie silenziose creature.

E di tutto questo turbine di voluttà e d'angoscia, di tutta questa bufera che è passata sul mio cuore, che cosa resta?

. . . . . .

Resta una statua intitolata: «Gioia».

II. Notte di Vigilia

Un invito da Bérangère! Dopo un anno di silenzio. Stupita rileggo il biglietto postale:

«Diletta Annie,

So che sei in Isvizzera. Dove passi il Natale? Perchè non a Montreux, colla tua sempre affezionata amica

Bérangère?».

Io ripasso mentalmente la lista delle diverse persone con cui ho promesso di passare quest'anno il Natale: con Jack a Dublino; con Maman a Nervi; con Vivien a Glasgow; con Barbara a Torino; con Silvia a Roma; con O'Kelly a Parigi.... Secondo una mia abitudine, nei momenti d'incertezza faccio saltare in aria un soldo perchè decida della mia sorte: se è testa – Bérangère; se è croce, no.

Il soldo balza, gira e cade. È croce. Dunque è esclusa Bérangère. Ma allora, rifletto io, chi prescegliere tra tutti gli altri a cui ho promesso?… Ritentiamo la sorte!

Stavolta è testa. Dunque Bérangère.

Ed io le scrivo:

«Cara Bérangère,

Aspettami nel pomeriggio della Vigilia.

Tua Annie»

Chiusa la lettera, mi si affaccia un dubbio: Bérangère Tarnier? Era fidanzata un anno fa al conte Lucien de Lussain-Maldé di Château-Mirval; poi non ne ho più saputo nulla. Sfumate le nozze? o smarrito il faire-part?

Mi decido a indirizzare: «Bérangère Tarnier, Montreux»; e il mattino del 24 dicembre salgo nel treno Berne-Genève con gente di ogni paese e d'ogni colore, politico e fisico. Di fronte a me un grande e magnifico Bey egiziano guarda con cupi occhi sfilare il paesaggio da cartolina illustrata, sognando certo le sue pianure torride, i suoi deserti sabbiosi, la sua gente oppressa dal ferreo pugno britannico.... Accanto a lui un uomo biondo, ancor giovane, di cui i tragici occhi azzurri hanno scandagliato le profondità ultime del dolore; lo riconosco: è Von Hindenburg, nipote del chiodato Feld-Maresciallo. Presso a lui, rosea e ridente sotto al grande cappello nero, Mary Snowden, la propagandista del Labour-party inglese, la bionda Amazzone degli operai. Nell'angolo di fronte a me due giapponesi, a cui io mi sentirei tentata di dire: «Anatanohà Taxan Kiri!» in purissimo nippone; ma me ne astengo perchè non so più che cosa voglia dire. Alla mia destra, biondo-ricciuta come l'immortale suo fratello, la sorella di Paderewski mi saluta con affetto.

E il treno corre....

Qui ci starebbe un po' di descrizione di paesaggio svizzero sotto la neve; ma le descrizioni di paesaggio si possono trovare in molti libri scritti da altri autori.

Quindi salto subito, come in un viaggio cinematografico, alla stazione di Montreux; ed ecco anche Bérangère, sorridente e soave, che dalla piattaforma mi saluta sventolando il fazzoletto di seta rossa. (È sempre stata un poco socialista, Bérangère!).

– Prenderemo il thè qui nell'Eden Palace, – dice, traendomi verso un Grand Hôtel vicino alla stazione. – Dopo, verrai a casa mia.

Quando siamo nell'Hall, installate in due grandi poltrone, le chiedo:

– Parlo con mademoiselle Tarnier o con madame la comtesse de Lussain-Maldé?

Ella, senza rispondermi, si slancia in una poetica dissertazione sul Natale; sul mistico significato della Vigilia di Natale, del giorno di Natale, della notte di Natale.... Indi improvvisamente mi chiede:

– Tu, come hai passato la notte della Vigilia, l'anno scorso?

Io riordino rapidamente i miei pensieri; poi rispondo: – Nascosta in una casa di Londra con cinque o sei Sinn Feiners evasi dalle carceri irlandesi. E tu?

Bérangère nervosamente gira e rigira entro le mani il suo fazzoletto rosso e ne fa qualche cosa che somiglia a un topo, con coda e orecchie; poi lo fa saltare da una mano all'altra.

– Io?… – dice, come per guadagnar tempo; – Ah! Io!… – E improvvisamente si chiude il viso nelle mani.

Vi è nella sua voce un'espressione che non comprendo. Orrore? Estasi? Disperazione? Non so.

– Dimmi, – le ordino, colla tazza di thè in mano, mentre di fuori nel crepuscolo....

(Qui leggere due pagine di un altro autore).

– Ebbene, – dice Bérangère, – ascolta.

– Ero venuta a passare un mese dalla zia Clotilde qui sopra, a Glion, dovendo poi raggiungere per le feste natalizie la famiglia del mio fidanzato a Ginevra. La sera della Vigilia vi doveva essere da loro a Château-Mirval un pranzo di famiglia seguìto da un grande ricevimento per partecipare al mondo che l'erede dei Lussain-Maldé si fidanzava.... a me. Da Parigi era annunciato, per l'occasione, l'arrivo di parenti milionari che portavano in dono a lui una Peugeot 40 HP., e a me una collana di perle con sessantotto gemme scelte. Tutta la festa doveva rivestire un carattere di grande etichetta e solennità.

Fu deciso ch'io lascerei Glion, accompagnata dalla zia, alle due del pomeriggio, arrivando a Ginevra verso le quattro. Indi, thè di gala; pranzo intimo; ricevimento fastoso.

Il giorno 23 mandammo a Ginevra bauli e valigie; il 24, alle due, uscimmo dall'albergo e ci avviammo alla stazione della funicolare per scendere a Montreux.

Ed ecco che sulla strada nevosa e ghiacciata mia zia scivola, cade, si sloga un piede.

Agitato ritorno tra le braccia del portiere all'Hôtel! affannati telefonamenti al dottore di Montreux – assente! a quello di Territet – presente ed accorrente. Compresse d'acqua vegeto-minerale. Altri telefonamenti ai de Lussain-Maldé, Château-Mirval, Ginevra. «Verrò, io sola, col prossimo treno. Arrivederci stasera alle 21,10». Disperate proteste dall'altra estremità del telefono. Laceranti gemiti dal letto di zia Clotilde. Nuove compresse d'acqua vegeto-minerale. Tristi riflessioni: niente thè di gala! niente pranzo intimo! Unico conforto: arriverò a tempo per il fastoso ricevimento.

Difatti alle 17,50, avviluppata in fluttuanti veli da viaggio, scendevo nella neve e la nebbia alla Funicolare Glion-Montreux; alle 18 e 20 m'aggiravo quaggiù nella stazione di Montreux con quaranta minuti da aspettare. Era buio; faceva freddo; la sala d'aspetto era lugubre e deserta. Nessuno viaggiava in questa serata. Pensai al pranzo di famiglia – tavola risplendente, visi sorridenti, vini spumeggianti, discorsi augurali, ed io, a fianco di Lucien, eroina di tutti i festeggiamenti.... Un'irrefrenabile tristezza mi morse il cuore e mi riempì gli occhi di lagrime. Ma subito il pensiero di arrivare in casa de Lussain cogli occhi gonfi, frenò il mio pianto, e decisi di andare nella Salle de Toilette a dare un ultimo ritocco ai miei capelli ondulati, un soffio di cipria alle mie guancie.... Quest'idea mi confortò.

M'avviai per il vasto andito deserto, percorsi un altro lungo corridoio ed arrivai davanti all'uscio della «Toilette pour Dames. (Luxe). 50 centimes». Girai la maniglia ed entrai.

La custode aveva già lo scialle in testa per partire e stava riponendo in un armadietto il «luxe», costituito da un pacco di forcelline, una scatola di cipria e una saponetta rosa. Parve contrariata dal mio arrivo.

– Capirà, – mormorò, – è la Vigilia. I bambini aspettano ch'io vada ad accendere l'albero di Natale.

– Non occorre che aspettiate, – diss'io; – lasciatemi il sapone e un asciugamano. – E togliendo dalla borsetta (unico mio bagaglio, poichè il resto mi aveva preceduta a Ginevra) alcune monete d'argento, gliele porsi augurandole buon Natale. Essa ringraziò con effusione; indi, salutandomi e raccomandandomi di «badare alla porta», uscì.

Io udii risuonare a lungo i suoi passi per l'andito sonoro.

Chiusi con cura la porta ch'essa aveva lasciata semi-aperta e mi dedicai alla mia toilette. Non fu spiacevole occupazione; m'incipriai; mi lucidai le unghie; constatai che i miei occhi non erano per niente gonfi; appena un leggero arrossamento delle palpebre tendeva a darmi – colla mia carnagione bianca e i miei capelli color rame – un'aria un poco tizianesca. Pensai con soddisfazione alla mia entrata nel gran salone di Château-Mirval, all'effetto che produrrei sui parenti milionari, al primo sguardo di Lucien.... Indi mi disposi a tornare sul quai ad aspettare il treno.

 

Richiusi la borsetta, gettai un ultimo sguardo nello specchio e m'avviai alla porta.

Afferrai la maniglia. Non girò. Spinsi la porta – non cedette. Tirai la porta – non si mosse. Tentai di scuoterla – era rigida, solida, incrollabile. Mi guardai d'intorno in cerca d'una finestra. Non ve n'era.

Allora chiamai. Chiamai: «Custode!… Facchino!… Portiere!…» Nessuno rispose; nessuno venne. Tutti erano a casa a fare il pranzo della Vigilia. Tutti erano intorno agli alberi di Natale accesi; ed io ero qui rinchiusa nella «Toilette pour Dames, luxe, 50 centimes».

Udii da lontano un fischio, seguìto quasi subito dal fragore del treno che entrava nella stazione. La disperazione mi colse; poi rinacque la speranza: qualcuno sarebbe venuto; qualche «dama» che per 50 centesimi....

Nulla. Nessuno venne. Urlai, strillai, diedi dei calci nella porta e nel muro, corsi in su e in giù, aprii e richiusi una porticina in fondo su cui spiccavano due lettere maiuscole dell'alfabeto inglese....

Un altro fischio, un rintocco di campana, un rullìo: il treno usciva dalla stazione – andava a Ginevra senza di me! La festa del fidanzamento avrebbe luogo senza la fidanzata.

Colla calma della completa stupefazione sedetti sull'unica seggiola – quella della custode – e cercai di riordinare i miei pensieri sconvolti. Non c'era più treno per Ginevra fino alle 2 del mattino. Viceversa c'era un treno proveniente da Ginevra alle 23,28. Pensai: Lucien prenderà quel treno e verrà a cercarmi. Chiederà, cercherà; interrogherà il bigliettario, il capostazione.... Il bigliettario non mi aveva veduta, poichè avevo preso il biglietto direttamente da Glion; ma il capostazione, sì. Durante quei pochi minuti in cui avevo girato per la stazione prima di venir qui, l'avevo scorto col suo berretto rosso; ed anch'egli mi aveva veduta. Era un capostazione giovane, con baffetti biondi.... e se li era arricciati, guardandomi. Sì, sì! il capostazione direbbe a Lucien d'avermi veduta; mi cercherebbero, mi troverebbero, mi salverebbero!

Ma erano le 19,10. Come far passare le ore fino alle 23,28? Non avevo altra occupazione che di lucidarmi le unghie; non avevo altro da guardare che il lavabo di marmo, la saponetta rosa, l'asciugamano e la tavola; non avevo altro da leggere che le due lettere maiuscole sulla porticina in fondo.

Mi chiusi nei miei pensieri. Pensai a Lucien, al mio avvenire con lui.... pensai al pranzo di famiglia.... agli alberi di Natale accesi per il mondo....

E lentamente – oh! come lentamente! – le ore passarono. Ogni tanto emettevo qualche strillo per il caso che qualcuno potesse udire. Ma la mia voce in quel silenzio mi gelava il sangue. Cominciai ad aver paura, a guardarmi attorno; mi pareva di veder muovere delle ombre negli angoli della stanza.

Allora provai a dire tutte le preghiere che sapevo; poi tutte le poesie che ricordavo. Cominciai con «Napoléon écolier».

 
«À genoux, à genoux au milieu de la classe,
L'enfant mutin,
Dont l'esprit est de feu pour l'algèbre, et de glace
Pour le latin!…».
 

Ma il terrore mi riprese, mi agghiacciò. Il cuore mi batteva così forte che pensai: «Adesso morirò di sincope. Mi troveranno domani, giorno di Natale, seduta qui, morta – tragica e ridicola in questa esecrabile «Toilette».

Le 22. Le 22 e un quarto. Le 22 e mezzo. Le 23. A momenti sarebbe arrivato il treno da Ginevra.... e Lucien! Questo pensiero mi agitò tanto che mi misi a gridare e non smisi più; gridai, gridai frenetica e forsennata, e i corridoi vuoti echeggiarono dei miei urli stridenti.

Un passo! Sì, era un passo. Smisi di strillare un attimo per ascoltarlo, poi ripresi più forte. Il passo si fermò; indi riprese, affrettandosi, avvicinandosi: e una voce chiamò:

– Allò! allò! Dove siete?

– Qui! qui! qui! – e lo stridìo della mia voce si ripercuoteva in tutti gli angoli.

– Ma dove?

– Qui! Toilette pour Dames! Luxe! Cinquante centimes! – ululai. E caddi, quasi svenuta, sulla seggiola.

Dopo molto lavorìo colla maniglia la porta si aprì, e il mio salvatore apparve sulla soglia. Era il capostazione.

Mi guardò stupefatto. – Mais qu'est-ce qui arrive?

– Qu'est-ce qui arrive? Qu'est-ce qui arrive? – feci io, balzandogli incontro come una Furia. – Arrive che io dovevo essere a Ginevra per il mio pranzo di fidanzamento e che sono qui, da quattro ore, a strillare, a soffocare, a spasimare....

– Oh! che disastro! – esclamò il capostazione; ma mi parve di scorgere sotto ai suoi baffi biondi tremolare un sorriso represso. Questo m'infuriò.

– È iniquo – gridai, – è infame. Farò un processo, a voi, alla Compagnia, alla Direzione, alla Federazione. Sì, vi processerò; perchè non avete il diritto di rinchiudere una creatura in questo posto immondo la notte della Vigilia di Natale....

E il mio pianto sgorgò.

– Creda, sono desolato, – diss'egli; – ma non capisco.... – e tenendo la porta aperta girò due o tre volte la maniglia e poi la chiave ch'era al di fuori. – La serratura funziona perfettamente.

– Già – esclamai sarcastica. – Perfettamente! Difatti.... – E con un riso di scherno gli volsi le spalle.

– Ma sì; funziona perfettamente, – disse lui calmo e cortese. – Guardi lei stessa.

– Non è vero, non è vero! – gridai, e afferrando la porta la chiusi con violenza. – Non funziona affatto! – E gli mostrai, tentando di riaprire, che la maniglia non girava.

Un poco impressionato, egli l'afferrò a sua volta. La mosse, la scosse; spinse la porta, tirò la porta. Niente. Solida, ferma, incrollabile, quell'uscio resisteva ad ogni sforzo. Egli si volse e mi guardò.

– Siete pazza? – disse, e i suoi occhi mandavano lampi, – ci avete chiusi dentro!

Io fremetti di sdegno. – Uscite, – gli dissi, con gesto di comando. – Uscite subito di qui. Lasciatemi sola.

– Magari! – rispose lui, sgarbato. – Siete voi che me ne avete impedito.

Il mio furore non ebbe limiti. – Andate via! – strillai; e poi, come quello mi guardava con occhi saettanti, mi misi a urlare di nuovo: – Aiuto! Aiuto!… Ah! ah! ah!…

Egli non badò più a me. Chino accanto all'uscio, esaminava la serratura; quindi, subitamente risoluto, cominciò a dare delle potenti spallate nel legno. (Mi passò per la mente che se Lucien, colle sue esili ed aristocratiche spalle, avesse tentato un'impresa simile, avrebbe dovuto poi stare otto giorni in letto).

Ma la porta resisteva. Il capostazione si guardò intorno; indi, buttando per terra il berretto rosso che finora aveva tenuto in testa, afferrò il tavolino, lo alzò in aria brandendolo per le gambe, e, con quanta forza aveva, lo scaraventò contro la porta.

Il tavolino andò a pezzi; ma la porta non crollò. Una lunga striscia bianca sulla vernice scura del legno rimase, unico testimonio dell'inutile violenza.

Il mio compagno di prigionìa allora si appoggiò al muro, e colle mani in tasca guardò la porta. Gettò un'occhiata verso il piccolo uscio in fondo alla stanza, ma di sopra a quella tramezza si scorgeva la continuazione della parete a indicare che di là non v'era uscita.

I suoi occhi tornarono, irosi, alla porta screpolata, e a me. Io m'ero accasciata su quell'unica seggiola che pareva un isolotto in un mare di desolazione; ai miei piedi giacevano i rottami del tavolino. Avevo cessato di gridare; la violenza di lui m'aveva intimidita e calmata.

Forse il mio atteggiamento di mansueta disperazione lo commosse, perchè disse con voce abbastanza umana:

– Mi dispiace per lei. Comprendo quanto sia penosa la sua situazione; e quanto la mia presenza l'aggravi.

Chinai il capo senza rispondere. Veramente, io non la pensavo così. La presenza di un essere umano, chiunque fosse, m'era di conforto; se non altro mi impediva di aver paura, quella paura frenetica e sragionata che mi assale talvolta nella notte e nella solitudine. Forse avrei dovuto aver paura anche di quest'uomo, di quest'estraneo col quale ero qui rinchiusa, lontana da ogni soccorso; ma a dir vero egli non m'ispirava alcun senso di terrore. Era molto giovane e molto biondo. I capelli, scompigliati dai suoi gesti violenti, gli cadevano in ciocche soleggiate sulla fronte; erano bionde le ciglia aggrottate, e biondi i brevi baffi sopra la bocca risoluta. Aveva il mento quadro, indicante fermezza di carattere, ma una fossetta profondamente incavata ne attenuava la durezza. (Pensai al mento alquanto fuggente di Lucien, e mi dissi ch'egli certo doveva essere di carattere assai più malleabile ed arrendevole di costui. Infatti sapevo Lucien anche troppo suscettibile alle influenze femminili!…).

Lo sconosciuto stava ritto, immobile, addossato al muro colle braccia conserte. Io alzai gli occhi al suo viso fosco e chiesi, tremante: – E adesso?

– Adesso, – disse lui, – arriverà il diretto di Ginevra ed io non sarò al mio posto.

– Allora la cercheranno! – esclamai subitamente sollevata.

– Sì, mi cercheranno! – ribattè lui con un sorriso ironico, – ma non qui.

– Cercheranno anche me, – dissi con un piccolo singhiozzo, pensando a Lucien.

– Chi? Chi la cercherà?

– Il mio fidanzato, – risposi, chinando il capo. Avevo ancora il cappello da viaggio e il velo grigio in testa, e ne ero tutta avviluppata come da una nube malinconica. – Non vedendomi arrivare alle nove a Ginevra, avrà preso il primo treno per venirmi a cercare.

– E qui, non trovandola, – fece il giovane, sempre con lieve aria di motteggio, – vorrà subito interrogare il capostazione. Irreperibile anche quello! Sarà una bella situazione, – soggiunse con un'amara risata, – quando portieri, facchini e fidanzato apriranno la porta e ci troveranno qui.

Io trasalii. A questo non avevo pensato. – Mio Dio! – esclamai, – e il conte Lucien è un vero Otello!

Il giovane, a queste parole, dètte in un'improvvisa risata, e continuò a ridere e ridere, col viso all'indietro e la testa appoggiata al muro.

Rise tanto ch'io fui molto offesa. Mi alzai con dignità; avrei voluto uscire, con tranquilla alterezza, dalla presenza di quello stolto giovinetto ridacchiante.... ma dove andare? Non c'era che da avviarmi altezzosa verso la porta colle due iniziali....

In quel momento ecco da lontano il brontolìo, il rullìo, il fischio del treno da Ginevra. Il capostazione smise di ridere e mormorò tra i denti un'amara esclamazione.

Con clamore e clangore, con stridìo e cigolìo il treno entrò nella stazione e si fermò, con un lungo sospiro stridulo in scala discendente.

Restammo entrambi silenziosi, immobili, ascoltando. Non altro rumore ci giungeva traverso le mura massicce della stazione – non voci, non passi – nulla eccetto il profondo, asmatico respiro del treno. Allora il capostazione alzò le mani alla bocca e con due dita, allargando le labbra, emise un lungo e potente sibilo. Lo ripetè tre o quattro volte. Nulla! Aspettammo irrigiditi una risposta, un suono. Nulla.

Allora io mi rimisi a gridare con quanta voce avevo (e mi pareva fievole e poca) e non sapendo che cos'altro gridare, gridai alternatamente: «Aiuto!» e «Lucien!…» A mia grande mortificazione vidi che quell'uomo se ne divertiva; anzi non gli riusciva più di emettere il suo fischio perchè le labbra gli tremavano nel riso.

Un rintocco di campana e il treno, sibilante e rantolante, si mosse. Ben presto il pulsante battito si fece più ritmico, più rapido, più lontano.... e il silenzio ricadde.

Restammo per un gran pezzo immobili, impietriti.

– E adesso? – diss'io di nuovo.

L'altro non rispose.

– Quanto tempo dovremo restar qui?

– Fino alle sette del mattino, quando la custode verrà ad aprire.

– Misericordia! – esclamai, e chinando il capo tra le mani, piansi.

– Farebbe meglio a togliersi il cappello e cercar di dormire, – disse lui.

Obbediente e piangente tolsi il cappello e il velo, e quando li ebbi tolti non sapevo dove metterli; se sul lavabo o per terra. Mi decisi per il lavabo: e, deponendoli, gettai uno sguardo nello specchio.

Mi vidi una piccola faccia smunta e gli occhi spiritati e gli ondulati capelli in disordine. Tuttavia non ero bruttissima. Già.... se avevo potuto piacere al conte Lucien de Lussain-Maldé, così difficile a contentare.... Nello specchio incontrai lo sguardo del capostazione; arrossii, e tornai a sedermi.

 
. . . . . .

Come passarono le ore? Non lo so.

Ogni tanto guardavo l'orologio, e, dopo due o tre ore, quando lo riguardavo erano passati dieci minuti! Pensai alla zia Clotilde e al suo piede; pensai a Lucien, che certo s'aggirava, frenetico e disperato, pei corridoi della stazione....

Invece no. Seppi poi che in quel frattempo egli (arrivato difatti col treno delle ventitrè) adesso saliva nella nebbia e nella neve da Montreux a Glion; saliva a piedi perchè a quell'ora non c'era più funicolare; e lo accompagnavano – fiutando l'articolo sensazionale – un redattore del Journal de Genève e due altri cronisti che i de Lussain avevano invitato per render conto della festa. La strada è lunga, ripida, scurissima; e i tre salivano cupi, tragici, gelati, sdrucciolando nella neve e nel fango, coi colletti rivoltati fino al naso.... salivano verso la dormente zia Clotilde per svegliarla di soprassalto e gettarla nel pànico e nella disperazione....

E il capostazione ed io, rinchiusi nella «toilette de luxe», ci guardavamo inebetiti ascoltando da lungi un suono festoso di campane....

Bérangère tacque.

– Ebbene? – chiesi io.

– Ebbene? – fece Bérangère, e colle dita irrequiete tornò a far saltare il topo rosso dall'una mano all'altra.

– Come andò a finire? Come passaste la notte?

– Ma, non so, – fece Bérangère; – faceva un gran freddo.... camminammo in su e in giù.... Poi ci parlammo. Io gli narrai di Lucien, ed egli mi parlò di suo padre, un vecchio dottore di La Chaux-de-Fonds e di una sorella «bionda come una lampada accesa». Mi piacque il paragone: e pensai, guardandolo, che anch'egli era biondo come una lampada accesa. Le sue chiome flave parevano mandar luce.

Poi parlammo di letteratura e di musica. Egli era stato in Ispagna e in Germania prima della guerra; aveva letto «Also sprach Zarathustra», e gli piacevano le sinfonie di Mahler.

Io gli recitai «À genoux, à genoux au milieu de la classe»; e poi egli, seduto sul lavabo, mi cantò dei brani d'opera.

Stava appunto cantandomi il Leitmotif delle Figlie del Reno, allorchè uno strepito alla porta ci fece voltare. Era la custode, esterrefatta, che dalla soglia ci contemplava.

Ma come! Erano già le sette del mattino?…

E di nuovo Bérangère tacque.

– Ebbene? – diss'io.

– Ebbene; quando, dopo aver calmato e consolato la zia Clotilde, mi presentai nel pomeriggio al Château-Mirval, la contessa mi accolse con gelida cortesia; disse che suo figlio era sofferente, ma che, probabilmente, quando stava meglio, mi avrebbe scritto....

Indi mi porse, con gesto regale, alcuni giornali: la Gazette de Lausanne, le Journal de Genève e La Suisse.

Il primo narrava in forma serio-comica «L'Avventura di una Fidanzata». Il secondo, più faceto, intitolava il suo articolo: «Fortunato Capostazione!». Il terzo, oh! il terzo!…

In cima alla colonna spiccavano a grandi caratteri queste parole: «IDILLIO DI NATALE IN UN....» .... e qui le due iniziali che sai!

Non ho più veduto Lucien.

.... Basta! Sono molto felice. La zia Clotilde mi regalò per le nozze una collana di perle di ottantasei gemme scelte; una meraviglia! Quanto alla Peugeot, non saprei cosa farmene. Capirai, abbiamo tutti i viaggi gratuiti!…

– E infine, – soggiunse Bérangère, disfacendo il topo e facendosi vento al viso roseo col fazzoletto rosso; – aspetto tra poco l'arrivo di qualcuno.... di qualcuno.... che forse sarà anche lui «biondo come una lampada accesa!».